“Uno stormo di rondini che migra non è ancora. Laggiù il presente si arena, senza doni” (p.39)
Dopo il precedente Case sepolte, Pietro Romano, con questo suo nuovo libro, prosegue con un viaggio a ritroso sul confine tra memoria e desiderio e con decisa volontà di dare corpo, voce e sostanza alla condizione dell’uomo nell’universo insidiato costantemente dalla distanza fra l’io e il mondo. La poesia di Feriti dall’acqua sembra nascere da riferimenti alla vicenda biografica dell’autore, che divengono occasioni per dare corpo a tematiche di più ampio respiro in un mondo sempre più multirazziale:” Un turbinio, rumori umani, viali. / Quel che è successo infuria in un tempo/ cristallizzato: l’aria è il passo/ verso la costa, gli occhi che guardano/ sono le case, il corteo, le panche. / Mantenere la vita, sollevarla/ alla bocca, senza occhi a sponda della fine” (p. 7). Il tema, intrecciandosi anche con la sua personale esperienza “Io da bambino, voce di confine, / smembrato nella vita di ogni giorno “(p.17), ritornerà in più di una lirica, ora con il motivo memoriale “Madre, oggi ti colgo nella luce dei vetri/ che istoria gli occhi d’evento e catarsi” o “È nelle sere autunnali la via/ in cui ricordo chi sono. La mente/ oscilla lungo un rivo di fango, / si sporge quanto basta per sentire”(p. 39), ora con il costante anelito all’ innocenza primigenia, intesa come la capacità di sapersi aprire all’ignoto riconoscendolo come parte di sé, giacché l’innocenza unisce gli uomini e fa ritrovare loro quel caldo senso di appartenenza alla condizione umana che costituisce un vincolo più profondo del legame di appartenenza nazionale :“Non esiste innocenza nel giorno: le nostre ombre/ perse tra gli uccelli crollano sulle nuche”(p.61). Domina dunque, come nucleo tematico dell’opera, la tensione della ricerca di un’identità sofferta e complessa e la solitudine spirituale in un mondo che troppe volte ognuno di noi sente estraneo a sé, lontano, irraggiungibile quando ci si accorge di esserci allontanati dalla legge dei nostri desideri. Di essere andati in un’altra direzione: “Così si vive: lentamente il passo/ nell’aria, la scrittura tra nuvole colme di lontananza” (p.65). E tuttavia la poesia deve cercare di ridare significato alle cose (del passato come del presente) e cioè una stabile identità all’individuo, tentativo perso in partenza, eppure mai ricusato. Lo stesso Romano così commenta i suoi versi: “È una distanza irredimibile quella che separa ognuno di noi da un’origine. L’acqua è un remoto che non sappiamo pronunciare” giacché le radici dell’essere, aggiungo, affondano sotto la superficie dove le acque si fanno così turbolente che incutono paura e come certe immagini aspre possono ferire e imbarazzare. La raffinata architettura dell’opera divisa in quattro sezioni (I Acque di confine, II Dentro la foschia, III Cancelli, IV Sono qui ad attendere riparo), il legame profondo che intercorre tra testi e titoli e il sapiente lavoro di cesello interessa tutti i livelli dei testi, fonico- ritmico, lessicale e sintattico nella costante tensione a una parola che sappia sondare un Io profondamente diviso e che sfiori l’indicibile. L’opera di Pietro Romano canta la separatezza ma si augura di trovare un varco attraverso cui approdare perché nel caos si annida anche il germe della visione che resiste fra un passato di dolore e un presente ancora capace di mantenere uno sguardo oltre la soglia dell’Io: “Luce di dentro, soglia inesausta del passo. / Mi vedo oltre il sentore che a ogni varco o stanza, / come guardi, io per voi ancora non sia” (p.8).
p.20
La notte è a un passo dall’alba,
l’aria una fluorescenza azzurra. Io mi disseto ancora
p.78
Come vero e sofferto il lido, il sogno o il volto che trema, fra le acque la parola si svuota, ogni casa ritorna.
p.87
È accaduto e si è perso. Traluce senza più il suo dire, rimemora gli asfalti bagnati della coscienza.
p.89
Voci quietate nel sonno dei passi, tra le fredde luci delle parole è il vostro mattino. Quelle sono le stanze vuote a cui ritornate
quando nel buio l’assenza sancisce il suo luogo e sfiora la vita. È ora di nominarvi: in voi c’è tutto, la fame e la sete, gli occhi e le labbra che ancora non siamo.
p.92
Quest’ombra si interra per dissetare l’impronta a un passo dalla pietra a cui dicevi viva la parola. Era forse il seme raggelato sotto il sole di dicembre, la voce che si stemperava dentro il dolore dirsi soli e incompiuti
Maria Allo
Pietro Romano (Palermo, 1994) si è laureato in Italianistica presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna con una tesi su Nino De Vita. Ha pubblicato alcune raccolte poetiche, tra le quali Fra mani rifiutate (I Quaderni del Bardo, 2018) e Case sepolte (I Quaderni del Bardo, 2020- pref. di Gian Ruggero Manzoni, postfazione di Franca Alaimo), quest’ultimo classificatosi tra i libri finalisti del Premio Mauro Prestigiacomo. I suoi versi sono stati tradotti in russo («Мой дом — до молчанья», “La mia casa è prima del silenzio”, Free Poetry, 2019, con pref. e traduz. di Olga Logoch, collana di poesia italiana a cura di Paolo Galvagni, traduzione di Fra mani rifiutate), greco, catalano e spagnolo, e inseriti nell’antologia Le parole a quest’ora (Free Poetry, 2019, a cura di Paolo Galvagni). “Feriti dall’acqua” (peQuod, 2022, coll. Portosepolto diretta da Luca Pizzolitto), è il suo ultimo lavoro.
Che possiamo noi realmente sapere degli altri? chi sono, come sono… ciò che fanno… perché lo fanno…
Luigi Pirandello
Dal poeta Stefano Guglielmin, stimato insegnante, saggista e critico di poesia, mi perviene il suo ultimo libretto “Dispositivi”, pubblicato da Marco Saya Edizioni. Sobria la copertina color senape nel formato 20 x 15 e accattivante la ruvidezza del cartoncino goffrato millerighe. Conosco da tempo la scrittura di Stefano. Leggendo “Dispositivi” riconosco il timbro del poeta sin dai primi componimenti. Un poeta si dice tale, non tanto perché compone in versi e non solo per la tensione a produrre poesie, ancora meno per la mole di composizioni poetiche prodotte, ma, maggiormente, quando la sua voce è riconoscibile, cioè ha acquisito sue peculiarità che la distinguono da quella d’altri. D’altra parte, quella del lettore, credo che nel tempo con la lettura frequente di un certo autore avvenga una sorta di “addomesticamento” non dissimile da quello che la volpe racconta al Piccolo Principe di Saint Exupery. Potremmo dirlo familiarità o affezione, ma addomesticamento rende meglio l’idea quando si consideri la sua radice etimologica – dal latino domus, casa – preceduta dalla preposizione latina ad che potremmo tradurre come approssimarsi a, contenendo la particella un senso di movimento verso. Il titolo della raccolta “Dispositivi” potrebbe far pensare al linguaggio tecnologico, e quindi ai devices da collegare ai propri personal, per chi si occupa di sicurezza, sovvengono alla mente i DPI dispositivi di protezione individuale, tra i quali, di recente, balzate in prima linea, le mascherine che tanto hanno caratterizzato gli anni appena trascorsi. In ambito sanitario DM sono i dispositivi medici, una lunga lista dai medicinali alle protesi, ausili e prodotti di ogni genere in materia di sanità e salute. Chi è operatore del diritto intende il dispositivo come contenuto della norma, nelle aule di tribunale dispositivo è la decisione della sentenza. Un titolo che intercetta vari ambiti di utilizzazione, evocatore e al contempo semanticamente suggestivo. Etimologicamente dispositivo deriva da disporre, verbo composto dalla radice dis, prefisso di origine greca dai molteplici usi: privativo, negativo, rafforzativo…e dal latino ponere, porre, avente quindi il significato, a seconda dei casi transitivo o intransitivo, di ordinare nello spazio, decidere, statuire, poter contare, potersi servire. Dal che dispositivi, plurale di dispositivo, trae dal verbo questa molteplicità di significati che vanno da decisione a congegno o apparecchiatura. Non c’è dubbio che nessuno può astenersi, vivendo, dal rapportarsi coi dispositivi, salvo vivere come eremita o selvaggio, e basterebbe persino che quest’ultimo inventasse, ad esempio, un congegno che faccia cadere dall’alto l’acqua per lavarsi in una rudimentale doccia e avrebbe già creato un dispositivo. Se dalla singolarità si sposta l’attenzione alla comunità, qualunque forma organizzativa ha la necessità di strutturarsi in organi attribuire poteri, qualunque organo detentore di potere esprime la volontà decisionale appunto attraverso “dispositivi”. Emerge chiaramente l’imprescindibilità dei “dispositivi” nell’esistenza tanto del singolo che della collettività. Si tratta dunque di un termine pertinente all’umano, che, in ambito filosofico, è stato coniato da Michel Foucalt intorno al 1975 per riferirlo a un insieme eterogeneo di “discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche” applicati alla manipolazione dei rapporti di forze per svilupparle in una certa direzione inibirle o utilizzarle. I dispositivi hanno a che fare con gli ambienti sociali e con il potere. Sono forme o manifestazioni del potere dirette ad indurre i comportamenti dei soggetti. Agamben estende il concetto di dispositivo a qualunque “cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi”, non solo quindi in ambiti sociali dove l’esercizio del potere è evidente: scuole, prigioni o fabbriche ecc. “ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i telefoni cellulari e il linguaggio stesso, che è forse il più antico dei dispositivi” Che il titolo della raccolta poetica abbia a riferimento il pensiero filosofico è chiarito dalle due citazioni che Guglielmin premette alla stessa, di Giorgio Agamben e Amos Bianchi tratte dai rispettivi saggi “Che cos’è un dispositivo”. Entrambi i filosofi insistono sul concetto di relazione intercorrente tra i dispositivi e soggetto, l’uno centrando la questione sul processo di “desoggetivizzazione”, cioè di fagocitazione del soggetto nel dispositivo, l’altro sulla “modellazione” comportamentale del soggetto, entrambi pongono dunque il problema del rapporto tra singolo e dispositivo e in definitiva tra dispositivo e libertà. Dalle premesse non possono che trarsi le chiavi di lettura dei testi poetici: pensiero poetico/filosofico e relazione individuale/collettiva coi dispositivi. Non si scrive poesia per esprimere l’io, l’uso del primo pronome personale comporta sempre il rischio di essere tacciati di osservare il proprio ombelico, che non è solo ristrettezza di visione, ma ancor peggio contemplazione del sé nello specchio del fiume sulle cui rive ci si sporge cantando, cioè di innamoramento del sé similmente al Narciso mitologico, incapace per “sortilegio” divino di innamorarsi dell’altro. È inevitabile tuttavia che lo scritto poetico conduca un approfondimento interiore, salvo che non si abbia l’intento di raccontare una “storia” facendo ricorso alla forma del verso. Anzi in poesia questa “indagine” deve essere condotta con determinazione impietosa fino a quelle profondità o, se preferite, a quelle altezze, dove l’io si disperde in particelle rarefatte, invisibili, impercettibili, conato umano in cerca di assoluto. Ciò che si è scritto, così depurato, diventa specchio di tutti, ostia di ognuno. Assoluto – e il corrispondente sostantivo assolutezza – hanno la radice etimologica nella parola latina ab solvere, composta dalla preposizione ab “da” e dal verbo solvere – sciogliere -, quindi assoluto è termine evocatore del senso di libertà da ogni peso, laccio, oppressione, non solo da corporeità fisica e quindi assoluto nel senso di metafisico, ma anche da inibizioni che ostacolino il raggiungimento dell’essenza, cioè della verità. L’atto poetico ha nell’assolutezza e nella verità connotazioni imprescindibili, alle quali non può rinunciare specialmente quando si indaga di “dispositivi” più o meno in-accettabili. Smarcare l’espressione dall’io non la depura dalla necessaria sovrapposizione tra io poetico e io autentico e ancora meno sterilizza il seme poetico innervato nella poesia, cioè l’atto politico inteso come ingrediente che penetra nel sociale, per progressivi cunei: osservazione, descrizione, critica, contestazione, sovversione. “Sovversivo è il foglio su cui la parola crede d’accamparsi; sovversiva è la parola attorno alla quale il foglio dispiega il suo bianco” (Edmond Jabes) Delicatezza, sobrietà, riflessione, denotano e persistono nelle poesie di Guglielmin. L’espressione poetica sorge da un’attenta osservazione del presente, da un vissuto che, introitato dai sensi, trasuda pensiero enucleato da uno stato profondo di meditazione che si trasferisce nei testi in un linguaggio controllato e rifinito. Sovviene nuovamente Jabes “In un mondo come l’attuale in cui la parola è pronunciata in modo sempre più altisonante, declamatorio, più si parla basso, più si è di disturbo. Sta lì la vera sovversione.” Il misurato controllo del dettato, deposto ogni cedimento emotivo o individualista, soppressa ogni animosità o velleità, prese le distante da apologia, invettiva o assertività, ingenera alla lettura una sorta di fiduciosa certezza che il bene misteriosamente, cioè in modi in gran parte sconosciuti, si oppone ancora al male, veicolando sottotraccia – quasi messaggio subliminale – che quest’ultimo, cioè il male, sarà sconfitto, il bene trionferà, gli uomini buoni si riconosceranno tra loro nella rivelazione finale dell’autentica essenza comune. Un’apocalisse, ma garbata, uno scempio senza dolore, senza vincitori o vinti, ma affratellati in una catarsi collettiva, quasi che si possa sperare per e sulla parola in un mondo rigenerato che riconosciutosi traviato e infetto, ricorre alla cura e splende. E’ una visione celestiale iperbolica, sognante, che investe la poesia di una funzione epica o mitica, tanto più travolgente quanto più è convincente la mano che guida il testo. Questa lettura è lontana dagli intenti dell’autore? Poco importa. E altri lettori è auspicabile decodifichino un simile messaggio? Per questa via potremmo restituire alla poesia la funzione di lettura sociale degli eventi e del mondo. L’avremmo cioè riportata al suo ruolo essenziale, assoluto, “costitutivo”? La poesia interroga, dice ancora al riguardo Edmond Jabes: “Allo stesso modo è sovversiva la domanda. Infatti chi interroga non urla mai, … La domanda è sempre al di sotto dell’urlo… La parola del libro è sovversiva: perché è una parola dal silenzio”
Caspar David Friedrich, “Viandante sul mare di nebbia”, 1918,
Di fronte agli occhi solo il testo e il testo è un orizzonte, come guardare oltre le nuvole dalla cima di un monte, nel gelo delle vette, nel distacco della solitudine, lo spirito è in ascolto, scorre il pensiero sul mondo.
La “vibrazione” che la parola trasmette alle antenne poetiche è luce di candela, fioca luce che brilla di speranza, sgusciante tra le righe di crucifige, occhieggia e non trabocca, suggerisce non grida e perciò, nel sicuro controllo della forza, più forte si dimostra dell’avversione manifesta, dell’urlo o protesta, dell’acuto stridente, dell’invettiva. E’ il volo tremendo in picchiata del falco pellegrino sulla preda senza pena. Implacabile come la natura, senza furia. La calma dello zen. Il colpo del karateka che concentra la potenza nel colpo spaccando di netto tre tavole.
niente. E la gente è fascista: volevo dirlo anche se non serve, la gente è feroce. Fascista e feroce, infelice.
Nel libro le poesie sono ripartite in Dispositivi del poetico e in Dispositivi della salute. Appurato che il linguaggio poetico è un dispositivo (vedi sopra Agamben) è del tutto coerente dedicare ad esso i componimenti poetici iniziali, consegna al lettore di una matura e accorta poetica. Nella fuga della lepre, dis-ponendo insolitamente la parola sul foglio, giocando col termine corsa, sfuggendo l’io, nell’apoteosi degli infiniti sotto l’egida del distinguere, dove pensare è scarto mentre parlare rompe gli indugi e mette a repentaglio la vita. Parlare espone al pericolo. Dire come di fatto è: parla il poeta, pensa. Il poeta deve il necessario controllo del testo nonostante il canto delle sirene (contaminati linguaggi) ha l’obbligo di scansare il trito e ritrito, l’ovvio e il retorico, di non produrre poesia quotidiana a percussione compulsivamente, ma deve dissenso vero o dispersione, indicando la via per cui “la sfida/ è amare quel buio infetto, rifondare”, raccogliere l’imo, farsene carico, indurre la catarsi: la responsabilità del poeta. La poesia gronda rimandi, a “Ciao cari” ad esempio (precedente toccante raccolta dello stesso autore) o all’ illuminazione dell’inarrivabile Rimbaud: “io è un altro” fondante in poesia tutta la teoretica dell’alterità dell’io. Troviamo citati poeti, tra gli altri, Sereni, Poe, Baudelaire. Le citazioni contenute sono riportate in un foglio di note alla fine del volumetto. Dispositivi della salute si apre con un omaggio a Caproni in “L’eterno ritorno” la chiusa “tornare dove non si è mai stati” richiama la chiusa di “Biglietto lasciato prima di (non) andare via” di Caproni. Non credo sia un caso che il poeta rifletta sulla transitorietà dell’essere, non solo perché scrivere poesia è inevitabilmente un continuo confronto con la caducità dell’esistere, ma in “Dispositivi” , ritengo, le recenti vicende di crisi della salute collettiva, la contiguità al pericolo, ai rimedi, alle costrizioni di tutela, non siano state ininfluenti sull’atto creativo poetico, tant’è che non manca una sorta di “ode alla mascherina”. Scuola (vedi la poesia “Griglie di valutazione”), ospedali, cure mediche, terapie sono tutti oggetto d’attenzione del poeta. Dopamina, serotonina ossitocina elementi chimici che producono anch’essi, inoculati nell’organismo o dallo stesso naturalmente sintetizzati, effetti di condizionamento dei nostri sensi, sentimenti, reazioni, risposte biologiche, per cui l’essere umano è soggetto non solo ai dispositivi (oggetti, comandi, forze) già noti e definiti, ma il poeta rimarca che persino la chimica genera mediatori: proteine, aminoacidi, enzimi, medicinali, vaccini, tutte droghe in senso lato, cioè elementi che introdotti nel corpo ne provocano una modificazione a cui l’essere viene assoggettato, condizionando il suo fisico, le risposte del suo corpo. Input chimici quindi: dispositivi anch’essi? “Ogni parola pronunciata è sovversiva in rapporto alla parola taciuta. Talvolta la sovversione passa attraverso la scelta, attraverso l’arbitrarietà d’una scelta, la quale si presenta forse come una necessità ancora oscura.” Edmond Jabes “Incanto”, la terzultima poesia, ha un titolo che è un gioco di parole, e snocciola con perizia una serie di intriganti quartine da marketplace, ma, in verità, corre l’obbligo di dirlo, tutto il linguaggio dei “Dispositivi” è sapiente disposizione sul foglio della parola, uso convincente soprattutto dei punti, a stoppare il respiro, in oculate cadute di ritmo, a rimarcare il senso dei finali. Greppia, infiniti, paronomasie. Magistrale la tenuta del testo. Il finale è ancora un omaggio, stavolta all’insegnamento zen. Breve capolavoro e chiusa d’opera. Come la citazione che segue, ideale prosecuzione della citazione precedente di Jabes. Anche nei tempi più oscuri abbiamo il diritto di attenderci una qualche illuminazione. Ed è molto probabile che essa arriverà non tanto da teorie o da concetti, quanto dalla luce incerta, vacillante, spesso fioca che alcuni uomini e donne, nel corso della loro vita e del loro lavoro, avranno acceso in ogni genere di circostanze (Hannah Arendt)
«la nostra storia è l’ultima vicenda / prima che torni l’autunno, venga l’inverno / era quel giorno l’ultimo che resta / di un’età favolosa quando vagavo / sempre tra i colli con nuove compagne / trasale il sangue nomade che teme / la tiepida dimora che l’attende / che resterà negli anni fissa e immota / e non la muta il tempo e le vicende». (Dentro le alte nebbie, pp. 21-22)
Umberto Piersanti
Nel libro I Luoghi persi, riedito quest’anno da Crocetti editore, si leva alta la voce autorevole dello scrittore e poeta urbinate Umberto Piersanti, che disegna una linea di ricerca esistenziale ed etica con densità e concentrazione del linguaggio lirico, fondate sulla volontà di restituire all’espressione poetica la sua forza originaria. I luoghi persi diventano dunque l’ambito in cui il poeta vive la sua vita interiore, un tratto di realtà tangibile con immagini e suoni delle sue Cesane, una zona dove può dispiegarsi tutto quello che non trova posto nell’aridità della vita quotidiana, uno spazio per un’esistenza superiore. “Oggi m’inquieta il tempo che m’attende/ le sue opere e i giorni che non vissi/ che non conosco e trovo per la strada/ di questa età di mezzo già sgomenta/ che senza consultarmi mutò il corso/ questa vicenda lunga come la vita/ forse cambia chi viene e non conosco/ io nell’attesa sono come sempre/ in giro sui miei colli nella cerchia/ e poi vado lontano e qui ritorno (p.26). Per Piersanti,” il più importante poeta di natura in circolazione” come scrive con molta cognizione Alessandro Moscè”, pellegrino nell’immensità dell’immaginazione, la parola costituisce l’unica certezza, grazie alla quale è possibile procedere nel percorso di conciliazione con l’universo e dà la misura inequivocabile della perizia dell’avventura poetica che ora si fa emblema di una sofferta realtà interiore, ora parola onesta che nomina le cose e i sentimenti senza timore e vibra di passione, in particolare di quella del poeta per la sua terra, dove ci sono i colli, gli olivi, dove il cielo è azzurro. Così la poesia canta non tanto perché è la forma originaria in cui si esprime il poeta quanto perché nell’armonia della parola lirica consiste il polo medianico dove si concentra e afferma un potere che s’identifica con il ritmo della natura universale. Scrive nella sua accurata e illuminante introduzione Roberto Galaverni: “È attraverso un processo di disincantamento, di messa in prospettiva dell’età favolosa che i luoghi perduti di questo poeta acquistano la loro piena umanità e così il vero incanto”. E infatti nell’accostarci a I luoghi persi non può sfuggire l’intreccio complesso di forme e motivi dissimulato dietro l’accessibilità e la semplicità: il vero significato della poesia di Luoghi persi è altro. Il rapporto privilegiato del poeta con Le Cesane riassume in sé la combinazione di stimoli familiari, punti fissi di riferimento che non sono ovviamente solo geografici ma soprattutto esistenziali e culturali. Non si tratta solo di un tòpos letterario, ma finisce con il rappresentare lo scenario, lo schermo su cui il poeta proietta le proprie angosce, le inquietudini, i fantasmi, i ricordi. Così dalle profondità della memoria riemergono nel poeta sensazioni legate alla sua infanzia con la consapevolezza dell’ impossibilità di ritornare alla condizione originaria e a nonna Fenisa, colta nella sua fierezza, “potente e archetipica figura campeggiante sull’opera come sulla adiacente prova narrativa del nostro, L’uomo delle Cesane (1994) come chiarisce Manuel Cohen : “ tirava il vento gelido che spesso/ attraversasti nonna a primavera/ lunga fu l’orazione con le soste/ come quand’eri in vita che scandiva/ la tua giornata estrema ai Cappuccini/ restano ancora querce alle Cesane/ e crescono le rape di questi giorni/ solo la casa nostra in fondo al fosso/ ho visto ancora più rotta e desolata/ sopra la macchia cresce come sempre/ lì nell’infanzia spesso mi guidavi/ mi resta una tua foto dove sei/ con Jacopo che a un anno era stupito/ per i volti diversi e così i luoghi/ cresce in un altro spazio dove il mare/ si gonfia velenoso di schiuma e olio…”( p.33). Il ritorno alle origini come recupero del tempo passato sotto forma di elemento visivo assume il valore di epifania, in cui si alterna e si fonde la multiforme e sfaccettata poliedricità dell’esperienza umana e l’allargamento di questa tematica a una dimensione universale. Le Cesane preservano il tempo contro l’oblio, attraversano la vita guardando alla terra del poeta e “in terra straniera” come memoria, luogo del genere umano che ristora dal bruciore della esperienza terrena, da incontrare seppure nella grande solitudine, dove luce e cielo sono di conforto e hanno il fulgore della materia in cui sono iscritte: “io non avevo mai capito/ da dove l’anima viene tra gli spini/ ma l’anima è piccola, fatta d’aria, /passa tra gli spini e non si graffia” (p.59).
La nuova raccolta di poesie di Gabriella Grasso, Il Generale inverno, da poco uscita per Il Convivio, ha il passo poetico di un percorso diaristico, lontano da ogni astrazione simbolica e tentazione intellettualistica, nella verità. Il nucleo fondamentale attorno al quale ruota l’opera, (il cui titolo rinvia esplicitamente, come spiega la Grasso in un’intervista, alla figura-personificazione del Generale Inverno, che disorientò e costrinse alla ritirata gli eserciti francese e poi tedesco), si fonda sul tentativo di stabilire radici abbastanza solide della propria identità in una stagione caratterizzata da una condizione di desolazione storica e spirituale che deve essere accettata nella sua cruda interezza perché possa produrre frutti, una condizione di povertà e annullamento, ma anche di attesa di un incontro e di una risposta. <<Ci costrinse, lui, a guardarlo in faccia/non mostrava sembianze di uomo/ ma affrontandolo/ come in uno specchio/ noi trovammo un’immagine nuova di noi/ stupefatta straniata/ interdetta/ benedetta dalla scoperta/ della nostra vulnerabilità>> (Il Generale inverno p.26). La scelta di seguire la scansione in sei sezioni tematiche è frutto della volontà dell’autrice di presentare l’opera come una sorta appunto di diario, registrato con l’ intensa urgenza di porsi in armonia con il tutto, per ritrovare quella sintonia che l’uomo sembra aver perduto in questa età particolarmente fragile. L’autrice ci offre il suo viaggio interiore immergendosi nel flusso dell’esistenza accogliendo tutto ciò che esso propone in modo aperto e pieno e non pretende di raggiungere verità assolute solo indica la tensione ad una chiarezza che la poesia non può raggiungere perché non dispone di strumenti in grado di compensare il dolore. Tuttavia le è concesso il privilegio del canto, incontro con l’altro, che diviene sollievo alla pena. <<Ai tuoi occhi, a te che mi parli/ vorrei chiedere/ hai toccato anche tu / quella faglia dischiusa/ nel cuore della terra/ diventata ferita/ a cielo aperto/ strappo / straripante di lava/ con i bordi di sciara/ taglienti? / E a che punto sei del cammino / hai compiuto dei passi/ oltre a quelli che conosco anche io/ ti sei spinto oltre?>> (Incontro p.13). È innegabile che l’intera raccolta sia segnata dalla frattura e dalla precarietà del vivere quotidiano causata non solo dalla pandemia ma anche dall’amaro rimpianto per gesti, parole, sguardi perduti per sempre come magma confuso di sentimenti e di certezze e ricerca delle ragioni ultime per le quali continuare a vivere e a sperare. <<Tra un istante arriverà/ una sorpresa consueta / per chi come noi/ ogni giorno scivola lungo/ l’asfalto impietoso/ di un tortuoso percorso/ di vita/ Ci assalirà/ un afflato di sogno nascosto / in giardini riemersi / il profumo sensuale e giocondo/ di zagara e incenso / folata di attimo intenso/ da lasciare sospeso/ tra la gola ed il petto/ pensandolo eterno >>(p.15). In questo mondo fragile e insidiato costantemente dal nulla la Grasso si sente incapace di trovare il proprio posto nel mondo e di dare un senso alla propria esistenza, che finisce per assumere i caratteri di un viaggio inesauribile alla ricerca di un’originaria perduta innocenza, celata in fondo all’anima << …qui nessuno mi chiede/ che cosa mi manca/ nello stream/ tutti danno riempiono sanno/ cosa offrire ad un cuore/ che naviga a vista/ conoscendo soltanto/ il vuoto codice ed il moto apparente/ del suo guscio di scafo>> (p.49), e che solo la memoria può recuperare e richiamare alla vita <<Ci entro quando voglio/ stai tranquilla, non temere/ per me/ Ci entro e mi soffermo quanto basta/ per ritornare al centro/ a ogni principio/ e non smarrire/ quella mia smania lirica e sottile/ di immaginare voli/ e trattenere con me quei respiri / quel calore>> (p.19). Gabriella Grasso dunque con le strategie del viaggio, del vagabondaggio fantastico e dello scavo nelle viscere della propria coscienza rintraccia e riscopre il desiderio di pace, l’unica possibile speranza tenuta desta dal soffio dell’esistenza, e a essa presta la propria fede con la capacità di guardare alla natura con ingenuità ed emozione, stupendosi per ogni particolare che esprime la potenza generatrice del processo di creazione poetica, in grado di portare alla luce un inaspettato frammento di senso. . <<È maggio, di nuovo/ incensiere di fumo/ e profumi/ luce bianca che cola / carezza / a suo modo consola / e la sera che arriva alle spalle/ senza pena/ a ricordare che la dolcezza / esiste ancora>> (p.58). Dario Talarico, nell’illuminante prefazione, individua nel percorso di Gabriella Grasso una poesia che non tradisce mai quella Sicilia lirica e piana, epica, «barocca sempre». Il Generale inverno è un libro da leggere, ricco di risonanze interiori. Ad ogni lettura tocca corde profonde dell’animo, cui si accompagna un sapiente lavoro di cesello che interessa tutti i livelli del testo, fonico-ritmico, lessicale e sintattico. E un buon libro di poesia, deve essere anche questo.
Mariangela Ruggiu, è poetessa sarda della quale leggo spesso in rete poesie che condivide generosamente, già intervistata da Limina mundi qui, in occasione della pubblicazione de “Il suono del grano”, Mariangela mi ha fatto gentile omaggio della sua raccolta “Ode alla madre”. Ricevo volentieri “Ode alla madre”, per la grazia della confezione, piccola silloge pubblicata per i tipi di Terre d’ulivi Edizioni, nella Collana di poesia 15×15. Il nome della Collana – appare evidente – si riferisce proprio alle dimensioni del libretto, che si caratterizza per l’eleganza dell’elaborazione grafica di copertina, ma ancora di più per il fatto d’essere a sagoma quadrata di quindici centimetri per lato. Il libretto trasmette un senso di semplicità che anticipa e introduce alla lettura di altrettanta sobrietà di versi contenuti nella raccolta. Si tratta di diciannove poesie – a confermare una certa propensione editoriale a preferire raccolte brevi – “titolate” con primo verso del componimento. In verità il primo verso, posto in cima al componimento è in carattere grassetto, come se si trattasse di un titolo, tuttavia, non essendo poi ripetuto successivamente nel corpo della poesia, nonostante il carattere grassetto, in effetti non è un titolo, ma l’incipit. Nella lettura della poesia di Mariangela, si riconosce che il suo versificare appartiene alla Sardegna al suo modo chiuso e luminoso d’essere isola. Appartiene alle cose buone di una terra naturalisticamente stupefacente. Buone come il grano e la mietitura, buone come il fragore delle onde, il sole che matura i frutti, il vento che soffia iodio e salsedine. Una poesia che fa della dimensione umana dell’essere l’architettura, e dell’appartenenza alla natura la chiave di lettura. Secondo l’autrice non può pienamente comprendersi l’essere uomo se non passando dalla comprensione piena del concetto che egli è creatura tra le creature, complessità dentro l’Unicità, se non compiendo quindi l’atto necessario di umiltà di riconoscersi tutti appartenenti al consesso dei viventi e del creato. Da questa consapevolezza scaturisce una poesia di profondo sentire, d’analisi dei sentimenti, afflizione, compartecipazione per la condizione di sofferenza del singolo o collettiva di profughi, naufraghi, reietti, aggrediti, umiliati. L’osservazione partecipata della prostrazione degli ultimi si traduce in un’esortazione al superamento degli iati e conflitti attraverso la comunanza della fraternità, l’invocazione dell’amore, l’indicazione a fare della speranza la stella polare universale, la bussola del proprio agire. Poesia dei buoni sentimenti, dunque, di chi nel dolore supera, nella pace riflette, nella poesia denuncia, stucca le crepe, offre conforto, ritrova il senso dell’appartenenza, indica la bellezza. Queste stimmate della poetica sono una sorta di naturale conseguenza dell’essere poetessa isolana immersa nel mondo e tradizioni della sua terra, un mondo che affonda le radici nella pietra, soda, compatta che tiene saldamente la materia come àncora, rispetta la natura, la sua ricchezza e sacralità. Luogo dove si tramandano il senso di rispetto della terra, e nel farsi comunità un ‘esigenza per superare le difficoltà di sopravvivenza, di permanenza, l’ imprescindibile punto di forza contro le avversità della sorte e dei fenomeni. La cifra stilistica della poesia della Ruggiu potremmo definirla di semplicità ispirata. Certamente avviene nel processo creativo di questa autrice una ricognizione profonda dell’esperienza e della memoria che porta alla luce pensieri autentici, genuini. Essi emergono dall’amnio dello spirito ammantati di verità e freschezza. Non è presente nei testi alcun compiacimento erudito, lo stesso periodare è breve e composto, solo segni di punteggiatura forti, nessuna virgola, rare parentesi, la spaziatura differenziata tra le righe concorre a separare i versi e scandirne il tempo. I lemmi scelti sono piani provengono da linguaggio usuale e delicato, quasi la poetessa intenda essere massimamente comprensibile al lettore, portatrice di un messaggio essenziale e trasparente. Un versificare sotto l’egida della chiarezza, puro, sfrondato da orpelli eruditi, citazioni colte, figure retoriche, ricco di umanità. Un poetare tanto lontano da voli criptici quanto dall’oscurità del trobar clus. L’ atteggiamento è introspettivo e al contempo alieno da complessità superflue, da abbandoni alla disperazione, allo sconforto, piuttosto improntato alla saggezza antica di una cultura forte, pragmatica. Ode alla madre si muove nelle stesse coordinate e rappresenta ciò che dice nel titolo, un componimento di lodi e di omaggio per la madre – presumibilmente la madre dell’autrice – esprime il legame amorevole con la figura materna, l’esaltazione del suo ruolo di genitrice, la veste di guida, maestra di vita e veicolo di sapienza da tramandare. Si avverte nella scelta terminologica dei componimenti la predilezione di riferimenti al corpo, alla fisicità/carnalità di un rapporto: mani, cuore, parto, pelle, grembo, corpi, occhi, abbraccio, baci; alla sfera dei sentimenti e degli affetti familiari: amore e dolore principalmente, ma anche tenerezza, pianto, madre, figlia, sorella; alla terminologia rurale/vegetale: seme, grano, pane, spine, con attenzione ai fenomeni della natura e all’avvicendarsi delle stagioni. La maestria del pane, è espressione che riferisce con estrema sintesi tutta una filosofia di generosità produttiva, di sapienza laboriosa, cura, artigianalità, risposta al bisogno di nutrimento. Si percepisce nell’ode la pena del travaglio, la commozione, la nostalgia dei ricordi, l’ineluttabilità dell’assenza, l’accompagnamento verso l’oltre. Appartiene all’eredità di figlia, quest’ultima diventata madre a propria volta, il riconoscimento nei figli delle forme di volti cari ormai scomparsi: lo stesso naso, gli stessi occhi, il che dà pienamente il senso del lascito, dell’unico vero lascito costituito dai genomi, una treccia elicoidale che da padre e madre a figlio o figlia trasferisce nell’impercettibile, nell’infinitesimale un corredo infinito di informazioni di carne e sangue e forse anche molto di più di ciò che crediamo. Anche impensabili esperienze immagazzinate in modo non ancora noto e soltanto ipotizzato, ma che ci fanno consapevoli d’essere selezione di selezione, l’approdo di tutto un tramandare. Tra tutte riporto la seguente toccante poesia, rispettando la formattazione della stampa, col primo verso in carattere grassetto, per come ho accennato in premessa.
vai tu che sei la mia carne e sangue e i capelli bianchi
tu che sei i miei occhi di pietra i miei silenzi i gesti muti
e sei il dolore dello strappo la gioia di averti avuto madre compagna e seme
sei oltre i limiti del tempo e sorridi negli occhi dei miei figli
L’opera poetica “Oltre il buio della notte” di Paolo Parrini (La Vita Felice, 2019 pp. 132 € 14.00), spiega, con commovente tenerezza, l’esito toccante ed emozionante della maturità intima dell’autore, suggerisce la celebrazione sensibile del passaggio frantumato dell’anima, nella transitorietà della superficie spirituale, rivela la vitale dissonanza delle incompatibilità umane, abbraccia l’accettazione nel sentimento della compassione, insegue la direzione necessaria per intraprendere un percorso di arricchimento e d’integrazione nella natura umana. Il poeta traduce le parole giunte dall’invocazione metafisica di un luogo trascendente, dove la sensazione persistente di ricevere ospitalità trova la sua accoglienza nell’invisibile osservazione di una convinzione sovrumana, trascende il margine dell’oscurità, ricompone la tensione romantica verso l’infinito, l’esplorazione struggente dell’ultraterreno, l’instabilità fluttuante del frammento d’ombra e della reliquia della luce, la soglia incorporea tra la terra e il cielo. Paolo Parrini protegge la condizione umana posando lo sguardo oltre la suggestione del tempo, coltiva il silenzio introspettivo liberando il contenuto autonomo della poesia, evidenziando l’espressione elegiaca, nell’abitudine poetica di comprendere la vita. Lascia parlare ogni simbolo di somma autenticità, ogni innocente candore delle ferite interiori, raccoglie e ascolta la quiete dei versi. “Oltre il buio della notte” attraversa la consapevolezza di ogni rinascita, il filo del dolore, la capacità sublime di ammettere ogni piccola morte quotidiana, decifra la voce della vita, è strumento di redenzione. Le ferite decantano l’intervallo istintivo per rimarginarsi e nel ricordo della sofferenza lacerano la bruciante desolazione. La poesia viene in soccorso al poeta, perché assiste la corrente dei versi, attenua l’ambiguità dell’inconsistenza, donando all’individualità della coscienza l’universalità del sentire. I versi delicati di Paolo Parrini alimentano il dialogo dell’amore, nel suo significato compiuto, nell’ispirazione infiammata dalla finalità di comunicare l’indefinibile rapimento di azzardo e di saggezza. Difendono la stabilità della dignità affettiva, conservano il segno rappresentativo dell’umanità, colgono l’isolamento della solitudine e trasformano la dissolvenza delle mancanze. L’orientamento elegiaco del linguaggio limpido e incisivo convince l’apertura alla speranza, promuove la distinzione del disagio a miracoloso motivo di reazione, nutre l’inconscia spontaneità della memoria. La sfumatura delle immagini rievocate intona la sequenza dei frammenti emotivi ereditati nel vissuto, dilata la capacità di essere solidale con i propri riconoscibili conflitti, allontana gli ostacoli e i drammatici enigmi degli anni, accompagna l’esitante cammino delle stagioni, rivolgendo, con tenacia, contro le ostilità, una pura esortazione alla vita.
“Controfobie” di Antonio Corona (Quaderni di poesia Eretica Edizioni, 2021) è una raccolta poetica intensa e manifesta con incisiva e profonda emotività la consapevolezza degli affetti e della compassione, mutando la trascrizione e la distorsione della fobia nella comprensiva e generosa espressione dell’empatia. L’autore interpreta, nell’esperienza della pura solidarietà, l’attitudine della ragione umana d’intuire la capacità emblematica della realtà, relaziona l’approccio altruistico nella coerente osservazione del rispetto e dell’indulgenza nei riguardi di una universale disponibilità all’apertura mentale, affrontando il conflitto persistente dell’irrazionale limitazione della negazione e delle contrarietà. La materia dei versi convince la spiegazione a ogni spontanea condivisione, accoglie l’impulso motivazionale dell’universo interiore, riconosce il disorientamento degli squilibri e condanna l’inafferrabile oscurità dell’ignoranza. Antonio Corona mantiene la disinvoltura dell’indipendenza sentimentale in relazione ai principi ispiratori della libertà, percorre il sentiero compromesso dalla ferita del disagio, dal tormento dell’irresolutezza, dall’apprensione per un’intolleranza che addensa le incrinature dell’anima. Il poeta congiunge la sintonia con il lettore con l’esecuzione di un proposito di colloquio intimo, consolida il tragitto istintivo tra fiducia e affidabilità, esplora le incertezze delle frontiere intellettive, permette di distinguere la discrezione con la quale guarda al mondo attraverso il proprio vissuto e accoglie la potenzialità della diversità, accennata, e non giudicata, da un’angolatura percettiva. Le distinte prospettive delle parole seguono l’originale itinerario delle sezioni poetiche, suggerite con i colori rivelativi, Nero Fardello, Indaco Bastardo, Rosa Fragilità, Rosso Passione e Verde Speranza, per definire ogni rappresentativo stato d’animo, il segno compiuto di ogni carico morale, l’insolenza dell’offesa, la tenerezza dello smarrimento, il desiderio resistente dell’amore, la dichiarazione profonda di ogni aspettativa. Leggere “Controfobie” accomuna la fermezza coraggiosa e dolorosa all’intonazione della complessità, consente di condannare i provocatori contrasti delle convenzioni e dei pregiudizi sociali e di escludere dall’impostazione esistenziale il conflitto dell’incomunicabilità. Antonio Corona rivendica le occasioni perdute e le promesse ritrovate, indugia sulla consistenza del proprio sentire, scindendo la scelta di mostrare la propria identità dal timore di non essere riconosciuta, rivela un’umanità conquistata con maturità poetica, senza biasimo, predilige la capacità d’identificare il dono di agire secondo i propri sogni, divulgando la voce più autentica nell’urgenza necessaria della scrittura poetica.
Un vuoto a pressione
che esplode nel petto,
un gesto tagliente
che affonda nel ventre,
una frase sbagliata
che uccide da dentro.
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Amare nell’ombra
Un bacio mai dato
è un’emozione mancata
ma un bacio nascosto
è come un cuore spezzato.
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Pioggia d’estate
La senti cadere ferita smarrita
come lacrime gioiose irrompe
in cerca della terra secca zollata
che accoglie i segni dei palmi
di chi carponi cammina trafitta
in cerca di quel sole che corrompe
chi d’amore mancato perisce.
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Sulla fune
Su una fune
sospesa nel vuoto
la vita danza sulle punte
di un amor congiunto
fra anima e corpo
tra sensi e tatto
di chi ascolta e poi agisce
senza cogliere nel segno.
Mi fermo
nel fulcro della ragione
sapendo che seguirla
mi porterà altrove.
Mi muovo
in equilibrio sul cuore,
se cado volo
se arrivo cammino.
Amare è l’unica certezza.
Parole di convivenza
Parole cucite all’orizzonte
perse tra due mondi
uniti sulla linea del niente
congiunte solo in un miraggio
ma in realtà sempre distanti.
Parole vuote nell’aria
affogate nel mare
in due mondi bruciati
dal silenzio del confronto.
Vorrei parole unite da una lampo
riportate all’orizzonte
riflesse sul mare
proiettate lunghe sulla terra
paciere di tolleranze
ed amorevole convivenza.
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A piedi uniti
In quel punto esatto
dove a piedi uniti
premo sulla sabbia bagnata
leggermente sprofondano
pensieri, azioni ed intenti.
Guardo quell’ombra formarsi intorno
e permango in attesa
di un’onda, dell’onda
della forza che m’inonda.
Affonda e ritorna
la spuma circonda
come nebbia spettrale
l’assenza e l’essenza
la gioia e il tormento.
Mi getto mi bagno respiro
vivo. Acqua sabbia sale
un pane bagnato
indissoluto
sotto i miei piedi.
Coraggioso attendo,
il vento.
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