
Giacomo Balla, Lampada ad arco, 1909, Museum of Modern Art di New York.
dal mio primo piano di quarantena
riesco a vedere tra le case
il suo occhio incredulo su di noi
la strada silenziosa del coprifuoco
i riders soli che consegnano pasti caldi
e sfrecciano ignari del suo sguardo.
Nelle case ci sono le bocche e le tossi
le febbri marzoline e la fame di pizza
le rabbie e l’abbaiare dei cani
che richiedono di essere pisciati
bambini col naso sui vetri
e vecchi incollati alle tv.
Altri umani non pervenuti
non spengono mai la luce azzurrina
che li guida nei loro altrove di salvezza
dove arriveranno con il ritardo di un minuto
nemmeno il conforto di uno sguardo.
si contendono il mio corpo
non nasco, rinnovo il salario
il contratto, il rogito il sunto
mi muovo in un verso preciso
nel verso del detto per inciso.
Per i vecchi bisognerebbe
genitori e nonni degli uomini
e aver dischiuso le branchie
essersi sacrificati nel silenzio
scavando dopo aver raggiunto il fondo
Così vedo queste sedie vuote
pulisco la casa e le conto
mia madre segna i posti di ognuno
e lì la piccolina con la mamma,
sgrana i grani di un rosario di visi.
Mi dice che vorrebbe ci fossero tutti
sono vivi, me lo ripete molte volte
non sono dall’altra parte del mondo
oltre oceano o a fare una guerra.
I nostri sono così vicini
che affacciandoti potresti udirne le risate nelle case
a pochi isolati da qui una vita due vite
una bambina che arriccia i baffi ai suoi gatti
un pianoforte che viene suonato fino a sfinirlo
alcune idee di pittura su tela che segnano il passo.
E io che non volevo scrivere nessuna poesia
su tutto il silenzio che si è impadronito delle strade
(nessun dottore me lo avrebbe richiesto)
sul nulla, sul vuoto, so che non esiste terapia
il presente consiste nel trattenere il respiro
il tempo è inconsistente, quasi assente
come una mascherina, tessuto non tessuto.
Per l’ultima settimana di quarantena
vorrei scrivere una poesia al giorno
o almeno solo quella che ho in vena
purché mi tolga il medico di torno
Per l’ultima settimana di quarantena
ho in mente uno spettacolo dalla finestra
una classica allegra o tetra messa in scena
io che mi affaccio e indico a destra
e a sinistra una qualche via di fuga
un modo per risolvere il dilemma
di Achille e la dannata tartaruga
prestito di tempo, con una certa flemma.
Di tutte le stagioni che ho percorso
quella che è appena morta
è stata la più bella primavera
che non ha avuto tempo di esser vista
di esser visitata in cambio di un fiore o di una foglia
di aver trasformato me e gli altri un’altra volta
da cosa a cosa in una trasmutazione semplice
in desiderio di un futuro complice.
L’abbiamo sentita di sfuggita
rapida e leggera sfiorarci nelle case
stringerci in un abbraccio sconosciuto
di quelli che temi essere preludio a un lutto
rimanere nel nostro fiato come una nemica
alchemica, allegorica, svegliarci e addormentarsi
sulle nostre spalle e lasciare un segno
un regalo, un simbolo che non è stato familiare.
Un frutto avvelenato creato dal laboratorio dell’inverno
dove la pioggia che verrà di nuovo a maggio
di chissà quale anno del Signore
alla fine di una peste che ci ha tutti posseduti nel suo pugno,
si distilla in alambicco goccia a goccia.
Attirato al balcone dalla luna piena,
ieri sera ho visto una gatta bianca
gravida e lenta attraversare la strada
e il suo compagno sui tetti miagolare al cielo.
Mi è sembrata una scena compiuta, pulita
piena di un significato che sottintende
la vita sul pianeta, e del significante
che la osserva procedere inciampare
soffrire, rinascere per poi tornare
a disilludersi nel ripetere a memoria
il giro nel cerchio, la ruota della storia.
che circolano liberamente
andare per il mare della vita
vincere o almeno pareggiare
lottando per disfare la matassa
naufragando dolce in questa partita
Penso a quanti fiori sono nati
sui marciapiedi in questi mesi
e prima di essere calpestati
falciati dalle lame degli addetti
al ripristino dei passi di viandanti
mascherati, gettano i loro colori
sulle vite degli uomini ridiventate
immaginandole nell’attimo necessario
considerarle e ricoprirle,
Il Monitore Afono è il prototipo
di ogni futuro e passato profeta inascoltato.
Ululatore professionale a lune rosso sangue
che si ergono da dietro il monte
a predire l’avvenire da sempre inciso
nelle scritture di crateri oscuri
si sgola a dissuadere gli uomini
che dicono di voler vivere la vita cercando
la dolcezza della morte nel contatto.
Si impunta nell’illudersi che ci sia del bene
in fondo ad un respiro non ancora contaminato
che l’idea di bello e incorruttibile
abbia ancora charme nel brulicare dei germi
che si moltiplicano sul nostro passo.
Si nutre ancora di pane e di rose
col lievito dei sogni e i bocci di speranza
trovando solo spine e fatica nella strada.
Cosa ci aspettavamo dalla scuola
di questo stupido cammino?
L’insegnamento di pause, soste, conforti, frescure
paradisi irradiati dal pensiero di australopitechi
svezzati con le clave e con massacri?
Che perda pure del tutto la sua voce quel signore!
Che taccia , forse il silenzio che sarà seguito
nelle strade deserte delle quarantene
avrà più senso nel cadere sulle teste
di chi sparuto vive ancora nelle case!