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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: Segnalazioni ed eventi

“Amuleti ” di Lorenzo Pataro, Ensemble poesia 2022

22 mercoledì Giu 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Tag

Amuleti, Ensemble, Lorenzo Pataro

«Lorenzo Pataro è nato nel secolo sbagliato, o migliore di tutti a seconda dei punti di vista, per offrire la sua voce di poeta radicale. La sua è una parola di luce e vertigine, di visione e tragedia. È poesia. Autentica. Che se ne frega dei secoli e dei regnanti». Daniele Mencarelli

Potremmo dirci salvi soltanto
tra il freddo delle mura nella casa
di campagna, nell’aperto grido dello spazio
salvi soltanto nel vecchio pagliaio
diroccato incontro alle tele impolverate
nella luce sotto il melo o fra le tegole
spostate, umidi sui greppi o tra le fronde
pronti a gettarci come semi nella terra
salvi come scarti – come la scorza del frutto
spellata dalla lama.

Insegnami la quiete delle gazze
di vedetta sui cipressi
e recita al contrario rovesciati
tutti i salmi che conosci
come fosse un cifrario per il volo,
impara dal silenzio tra i richiami
il segreto di ogni correre in picchiata,
posa la tua insonnia e la tua febbre
– di pane che lievita la notte –
sulle tegole spostate dalla pioggia
e aspetta che ogni passero
spezzi l’ala come un’ostia contro il vento
che ripeta in ogni verso
il miracolo dell’uva che fermenta
ciò che ha visto da lontano
ciò che brilla tra la rena del torrente
e nel raduno dei frammenti nel suo nido
scopre qualcosa che non sai, che non cerchi,
che punge quando dormi nelle scapole
ferite dal respiro troppo umano.

Una fibra di legno rovente tra i passi – la senti? – fa eco ai resti dei merli sotto la terra, chiama e spalanca o dilacera un nome, lo gira sciamanico leggero sul palmo, batte il tamburo, evoca uno spirito antico, il canto lacero delle balene – l’amu leto di pietra che pende dal collo stacca la pelle, scopre il magma perduto, la punta sottile che riga e spolpa le ossa da gli ultimi resti di carne e si macera il gelo (o la nebbia) coi fuochi accesi dai ragazzi a notte sulla riva del fiume e il tonfo di qualcosa che cade dai rami del pioppo nero lucente sveglia un bambino scomparso che dorme nella tana viscerale dei tassi e il tuo occhio che pulsa caldo di febbre è il richiamo del bosco alla fuga o alla resa.

Se dico casa, non avrai riparo. Se dico pane.
Se dico grano tu lieviti e ti spalanchi nel mio nome.
Siamo nati. “Alberi case colli per l’inganno consueto”.
Se dico àncora, mi abissi. Siamo nati.
Gettati in un nome verso un nome.
Se dico tetto mi scoperchi, se dico cielo
mi nevichi e mi scardini dal corpo.
Con la grazia dei vulcani. In quello
stare delle cose illuminate per sé stesse.
Se dico sillaba, fonemi si sparpagliano
e poi il gelo li ricuce, li spoglia
e fa nuda la parola, esposta
e divina come un barbaro in esilio.
Adesso. Se lo dico, già è passato.
Siamo nati. Gettati in un nome verso un nome.

Stella di grafite, ti ho gettato
tra le onde, lieve combustione.
Luce primitiva, fammi iena
fammi aratro, braccato
nella nebbia. Luce-grembo.
Ti ho gettato in tutti i pori
nascita ulteriore, dono dei relitti,
fatica del restauro, sapiente oro.

Entriamo nella nebbia dei corpi,
siamo fari, ci arriva fino al petto, tutta
intera proprio adesso la nostra
debolezza scorticata come i lupi
dell’inverno insieme a quello stare sulla soglia
dove ognuno è la propria nostalgia, quel
momento proprio quello in cui tutto arriva
allo scoccare delle ore, quella voglia
quella furia che divide le frontiere,
ci arriva al midollo e ci attraversa
ci unge della fame che hanno i cani,
ci arriva improvviso come il sale
nell’arteria di uno scoglio quel respiro
che solleva la marea e ci battezza.

Capire che l’Altro è una fiamma:
se la tocchi col dito
o la spegni o ti bruci.

Dicono che ci passerà, questa pigrizia viscerale, il male è ovattato nella stanza, non sentiamo aria respirare nemmeno da una mosca, dicono che il seme disperso ha causato nascite improvvise, lì fuori, la finestra ha favorito il passaggio dei cromosomi, abbiamo bevuto tutto il nettare dai seni sospesi di Madre-Noia, dicono che non resta altro se non piangere, spingere fuori la gioia dalle zampe – come un animale – e dargli un nome, sentirla urlare.

Quanto siamo transitori. Da un buio
verso un altro, piccoli graffi di luce.
Ferite che brillano, schegge nell’aria.
Braccati, con le fiaccole spente
dal vento. Piccole scie. Di una parola
soltanto, dilla adesso, adesso che hai
un altro nome. Benedetto il tuo bacio,
benedetto il tuo fuoco, benedetti gli astri
del corpo, benedetto il grano nel capo,
benedette le mani, le braci negli occhi,
benedetto il tuo passo di neve, benedetto
ogni singolo soffio, ogni gioia che arde,
benedetto ogni sguardo lasciato, benedetta
ogni ora negli anni a venire, benedetto
il nome che hai ora, benedetto sia
tutto il creato celeste in cui voli,
benedetto il tuo amore che è sparso
nel cosmo, benedetta ogni fibra leggera,
ogni spina, ogni graffio, ogni fiamma
riaccesa, splendore di quarzo, miracolo
d’acqua, benedetto ogni seme gettato,
benedetti i germogli, il miracolo, il dono
di esserci stata.

Lorenzo Pataro (Castrovillari, 1998) ha pubblicato la raccolta di poesie Bruciare la sete (Controluna, 2018). Sue poesie sono state pubblicate su ri – viste e blog come Atelier, Interno Po – esia, Poesia del nostro tempo, Clan – Destino, Il sarto di Ulm – bimestrale di poesia, sul sito ufficiale di poesia della Rai (Poesia, di Luigia Sorrenti – no), sul quotidiano La Repubblica. Ha vinto i premi “Ossi di seppia” (2021) e “Poeti oggi” (2022)

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Stefano Colucci, “Abbi cura del tuo infinito”, Wonderlart, 2022.

20 lunedì Giu 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Tag

Abbi cura del tuo infinito, Stefano Colucci

 

Brevi appunti lunari

“Abbi cura del tuo infinito” è un libro di poesie, incantesimi, amuleti, antidoti e miracoli. Una forma di lotta e di difesa allo stesso tempo contro il buio interiore, un libro affollato di ritmi che spingono nella danza della vita, una raccolta di balli e canti. Questo libro si potrebbe quasi definire antropologico nel suo continuo guardarsi dentro e guardarsi attorno. La raccolta è divisa in quattro sezioni tematiche – una per ogni fase della Luna, richiamando così i quattro tipi di magia bianca: Novilunio (incantesimi per rinascere), Luna Crescente (rituali d’amore), Plenilunio (incantesimi per guarire) e Luna Calante (magia contro l’oscurità). È un libro dove tutto si mescola, si annullano i confini, si strappano i calendari, gli orologi impazziscono. Gli amori si inseguono di millennio in millennio, di vita in vita, di dimensione in dimensione, prima ancora d’incontrarsi fisicamente, mentre attorno tutta la storia dell’umanità avviene nello stesso momento. Nella stessa poesia possono coesistere i giganti norreni e la realtà virtuale, Debussy e il reggaeton, i fiori e i vulcani. Ci si orienta cantando come gli aborigeni, si percorre il proprio cammino di Santiago, le canzoni alla radio sono messaggi in codice delle nostre versioni di dimensioni parallele per comunicarci qualcosa di importantissimo, e nel mezzo due anime che si trovano e si stringono fortissimo. Un libro per guarire, che cerca la salvezza senza trovarla, per questo è una festa, una raccolta di inni a ogni elemento di questo universo per festeggiare il fatto di essere ancora vivi e ancora insieme nonostante tutto. Una festa perpetua, una raccolta di poesie per alzare il volume del cuore, con gli occhi di un bambino come strumenti magici per incantare la realtà. Un libro di incanti e canti, un libro di miracoli realmente accaduti, un libro di mantra, un libro per ballare.

 

Archeologia del mare dentro

  

Non temere.

Siamo qui

da un numero preciso di giorni

e ci resteremo

per un tempo indefinito.

Nel mezzo

morti e rinascite interiori.

Tutto ciò che sappiamo

è ciò che siamo stati.

Il resto non ci riguarda,

quando sarà il momento

saremo già cambiati

e ci saremo già dimenticati,

sepolti dalle macerie

delle cattedrali dei noi passati

e dei cuori-alberghi crollati.

Un giorno scaveremo

a mani nude dentro noi stessi

e riporteremo alla luce

ciò che sarà sopravvissuto al tempo:

il timone di una nave, una bussola

che punta solo all’orizzonte e mai alle spalle,

la piuma di un’ala per ricordarci

che se vogliamo siamo capaci di volare.

Un giorno

torneremo in quelle zone abbandonate

a bordo della nostra barca

e incontreremo parti di noi

che credevamo morte

e invece erano solo disperse.

Un giorno riemergeranno soltanto

le parti di noi che ci servono davvero

e perderemo tutto ciò che è superfluo,

tutto ciò che non ci appartiene.

 

Un giorno

ci metteremo in viaggio

e ci dirigeremo verso noi stessi.

Quel giorno ci incontreremo

per la prima volta.

Quel giorno diventeremo

chi siamo davvero.

 

Cerimonia del risveglio

 

Infilo gli occhi

nelle vene del mondo.

Mi piace guardare le strade

e ascoltare

il canto popolare delle risate

sopravvissute alle stelle.

Al mattino

dal letto – osservatorio astronomico

di megaliti, colazioni,

poesie lette appena sveglio e sigarette –

tutto sembra piccolissimo

e contemporaneamente grandissimo.

Come quando ci siamo tenuti la mano

tra le statue colossali

che sfioravano il soffitto

nella villa di Andersen.

Metto le scarpe, scendo le scale.

 

Un gatto ambrato

nel cortile del condominio

fugge via appena apro la porta

portandosi via la notte

e illuminando lo spazio d’alba.

Entrambi siamo soli,

eppure lui sa splendere anche così.

Imparo da tutte le forme di vita

come esistere.

Celebro la cerimonia del risveglio.

Appena si schiudono gli occhi

è primavera.

Accolgo le api

dell’imprevisto quotidiano.

Le punture fanno male

ma sono un bene.

Sarà un giorno di miele.

 

La topologia dello spazio tra il tuo collo e il cuscino

  

La prima volta che hai

detto di amarmi

ho pianto nascondendo la testa

nello spazio tra il tuo collo e il cuscino.

Mi sentivo nello spazio, in un’abitazione

postmoderna sulla Luna, finalmente

a casa.

Sei tu, ho detto.

Sei tu, hai risposto.

 

Oracoli

 

Le mie scarpe preferite

piene di tutte le passeggiate fatte insieme.

La sigaretta che hai lasciato a metà

nel posacenere sopra la finestra

perché eri troppo impegnata ad ascoltarmi.

Un singhiozzo di sole che illumina la cucina

mentre mangiamo la pasta appena svegli.

Il tuo odore nel letto dopo l’amore.

Il tuo primo ricordo, il mio primo ricordo,

chissà se ci saremmo amati anche da bambini.

Il piccolo ragno che abita in camera tua.

La formica che ho trovato in camera mia

mentre parlavamo al telefono.

È nelle cose minuscole

che vedo miracoli.

Nelle tue vene, nelle tue mani,

nei tuoi occhi che venero come oracoli.

 

Sbadiglio

  

Musica

da un’altra stanza.

Corde di pianoforte

nella tua gola.

Ti sento

mentre ti svegli

e risvegli il mondo,

voce del mare

e ruggito di stelle

nel tuo sbadiglio.

Preparo la colazione.

Ti sento.

Buongiorno.

 

Meditazione 

 

Affacciatevi in voi,

andate in cerca

della cosa più innocua

che possedete

e lasciatevi sopraffare

dalla sua ferocia.

Un fiume è solo un fiume

finché non sfocia.

 

Amuleti magici per sconfiggere l’oscurità

  

Amuleti magici

per sconfiggere l’oscurità,

i nostri canti militari di felicità;

psicomagia per guarire dalla malattia

di non riuscire a vedere l’infinito;

stadi di calcio come cattedrali,

pellegrinaggi domenicali

nella speranza di un miracolo;

felicità sotterranee nelle metropolitane,

due persone che viaggiano velocissime

per riabbracciarsi;

fiori sottopelle e primavere interiori;

cuori passaporti per altre dimensioni,

per andare oltre l’altrove;

migrazioni verso nuove terre emerse

tra un battito e l’altro;

meditazioni e mantra

nei ritornelli delle canzoni;

danze primitive per celebrare gli abbandoni,

perché ogni abbandono è un ritorno a casa

e se non trovi più la strada

significa che il posto in cui sei ora è tuo;

souvenir spaziali,

da Marte arrivano delle fotografie;

poesie, incantesimi e profezie nascoste nei baci;

costellazioni di cicatrici

all’altezza del cuore;

sciamani insospettabili,

pericoli benedetti, sbagli perfetti

e cieli stellati indimenticabili.

C’è un’alba in ogni cosa.

Siamo ancora nel mese di gennaio

della storia dell’umanità.

Chissà che bella sarà

l’estate che verrà.

 

Stefano Colucci (22 settembre 1995) nasce ad Avellino e vive a Roma, dove si è laureato in Arti e Scienze dello Spettacolo presso l’università Sapienza. Si fa conoscere come poeta grazie a Youth Symphony – Sinfonia della giovinezza, esordio suddiviso in tre parti tra il 2016 e il 2020 in cui racconta con la poesia l’adolescenza e la post-adolescenza. Dopo varie esperienze come attore sia in teatro che in televisione, nel 2019 debutta come autore teatrale con “Invisibile”, testo drammatico sul bullismo e l’omosessualità tra gli adolescenti che gli permette di farsi notare come drammaturgo dalla critica di settore. Nello stesso anno il suo progetto di visual art Breath, Earth è esposto a New York presso le Nazioni Unite, in occasione del summit giovanile sul cambiamento climatico, e successivamente a Tokyo presso la sede della Soka Gakkai. Collabora negli anni con nomi importanti come Treccani e Roma Pride, ed è inoltre regista di cortometraggi. Nel 2020, in piena pandemia, fonda Wonderlart, cantiere artistico e culturale. Attualmente ricopre il ruolo di art director presso il festival cinematografico Queer Days. Nel 2022 pubblica il suo nuovo libro di poesie intitolato Abbi cura del tuo infinito.

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Paulo Leminski “Distratti vinceremo”traduzione e cura di Massimiliano Damaggio

16 giovedì Giu 2022

Posted by emiliocapaccio in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Tag

Distratti vinceremo, L'Arcolaio, Massimiliano Damaggio, Paulo Leminski

Damaggio ha una bella confidenza con la parola, o meglio con “questa cosa inutile, che è la pura bellezza del linguaggio”, per dirla come Leminski. Leminski, chi? Già, ecco un’anima, un nulla, un prodigio, che “questa cosa inutile” ingrandisce, getta oltre l’ostacolo e vi tende. Paulo Leminski, uno delle figure più influenti della poesia d’avanguardia e sperimentale brasiliana della seconda metà del secolo scorso, poliglotta, traduttore e critico letterario, pressappoco sconosciuto anche ai più accorti naviganti nell’ars poetica dell’anziano Belpaese, si fa spirito e voce in lingua italiana nella sedicesima uscita della collana “L’altra lingua”, diretta da Lorenzo Mari, edita da “L’arcolaio”. Si fa verso e significato per intercessione dell’opera meritoria di Damaggio che a “questa cosa inutile” ci crede e vi si tuffa, e nell’arco di sei anni ha tradotto di Leminski quasi tutti i componimenti, una biografia, Vida, e due libri di articoli per riviste e quotidiani, Ensaios e anseios crípticos. Ha letto una ventina di pubblicazioni universitarie sull’autore, due biografie ufficiali, diversi saggi e traduzioni in varie lingue. Il volume, di cui ha curato anche la scelta dei testi oltre che la traduzione, prende il nome dall’ultima opera pubblicata in vita da Leminski nel 1989, e ha avuto la supervisione della figlia Áurea e di alcuni amici dell’autore.

Emilio Capaccio

Como abater uma nuvem a tiros

sirenes, bares em chamas,
carros se chocando,
a noite me chama,
a coisa escrita em sangue
nas paredes das danceterias
e dos hospitais,
os poemas incompletos
e o vermelho sempre verde dos sinais

Come abbattere una nuvola a fucilate

sirene, bar in fiamme,
auto che si scontrano,
la notte mi chiama,
la cosa scritta a sangue
sui muri dei locali
e degli ospedali,
le poesie incomplete
e il rosso sempre verde dei semafori

Razão de ser

Escrevo. E pronto.
Escrevo porque preciso,
preciso porque estou tonto.
Ninguém tem nada com isso.
Escrevo porque amanhece,
e as estrelas lá no céu
lembram letras no papel,
quando o poema me anoitece.
A aranha tece teias.
O peixe beija e morde o que vê.
Eu escrevo apenas.
Tem que ter por quê?

Ragion d’essere

Scrivo. La cosa è questa.
Scrivo perché ho bisogno,
bisogno perché gira la testa.
E altra gente non c’entra niente.
Scrivo perché in cielo schiarisce
e le stelle rassomigliano
alle lettere sul foglio,
quando la poesia m’imbrunisce.
Il ragno si tesse la rete.
Il pesce bacia e morde ciò che vede.
Io scrivo, e questo è.
Ci dev’essere un perché?

Voláteis

Anos andando no mato,
nunca vi um passarinho morto,
como vi um passarinho nato.

Onde acabam esses vôos?
Dissolvem-se no ar, na brisa, no ato?
São solúveis em água ou em vinho?

Quem sabe, uma doença dos olhos.
Ou serão eternos os passarinhos?

Volatili

Camminare anni nel bosco
e mai vedere un uccellino morire
come vederlo nascere.

Quei voli, dove vanno a finire?
In aria, brezza, atto si disfanno?
Solubili in acqua o in vino?

Che sia un malanno agli occhi
oppure è eterno l’uccellino?

Massimiliano Damaggio vive in Grecia da molti anni. Ha studiato lingua e letteratura portoghese. Si occupa di scrittura e traduzione di poesia. Ha pubblicato alcune raccolte, poesie e traduzioni in rete. È tra i fondatori del blog “Perìgeion” e redattore della “Dimora del tempo sospeso”.

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Roberto Crinò, “Verrà ottobre”, Eretica Edizioni, 2021.

06 lunedì Giu 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Roberto Crinò, Verrà ottobre

 

“Verrà Ottobre” è una silloge composta prevalentemente, ma non esclusivamente, da liriche scritte durante i tempi della “distanza pandemica”, che pressoché ovunque si è stati chiamati a vivere e che si continua ad esperire da più di un anno a questa parte, con repentine quanto fugaci variazioni sul tema della quarantena o della chiusura (chiusura per carità e non lockdown!) La silloge raccoglie poesie che sono state scritte dall’autore dall’ottobre del 2019, l’ultimo scorcio quindi di vita ante quam, fino a giungere ai tempi attuali per proiettarsi verso un ipotetico post quam individuato nell’autunno prossimo, e più precisamente nel mese di ottobre 2021. Senza possedere una chiara consapevolezza della reale durata di questa condizione di distanziamento collettivo forzato, che va oltre dei semplici termini di legge, poiché ha e avrà delle ricadute psicologiche e culturali, per chissà quanto tempo ancora, l’autore ha scelto questo titolo nella speranza di un dopo, non troppo lontano, in cui sarà possibile riprendere una vita “normale”, con tutto ciò che, forse o di certo utopisticamente, questo termine in positivo veicola e insieme, come opposto, ad esorcizzare tutto ciò che esso significa in senso negativo, laddove “normale” fa rima con “ordinario”, “abituale”, “convenzionale”. L’autore auspica, sotto certi aspetti, l’inizio di una vita nuova. In tal senso la congiuntura pandemica non deve colmare di sé tutto l’orizzonte esistenziale e insieme compositivo. Non è solo la diffusione di un virus patogeno a diventare occasione di ripensamento, ma questa assume un ruolo paradigmatico, poiché la vita è piena di “occasioni palingenetiche”, le quali per loro stessa natura passano dalle “strettoie” del dubbio, della paura o del timore. E così il mese di ottobre, l’autunno diventano il tempo di una seconda opportunità, una “seconda primavera”, una seconda fioritura, stagione di rinascita consapevole e matura, come appunto sono i frutti autunnali. In fondo anche i colori autunnali hanno una loro precipua e inconfondibile bellezza, tenue, lieve e pacificata.

 

Soffro di umanità

 

Ti ho osservata,

quasi tutta la sera,

gli occhi rivolti verso il basso,

non del tutto aperti

– che peccato, che spettacolo

negato al mondo –

come diretti su te stessa,

le tue profondità,

schermata da un velo

di assenza, di altrove.

Il tuo sorriso

alla mia frase

“soffro di umanità!”

è stato un lampo,

un richiamo,

un immediato riconoscersi

e non è vero,

non andavi

solo in avanti,

ma anche indietro,

ondeggiavi,

come in balìa

di spumosa risacca

in una vita di

coste,

approdi,

partenze,

mancanze.

 

 

Verrà ottobre

 

Verrà ottobre

e sarà fragranza

di tempi lenti

e buoni venti,

la cicala ancora canterà,

mentre gli ulivi,

carichi di antichità,

riveleranno

consapevoli verità.

 

Verrà ottobre

e avrà del canto

eburneo manto,

foglie rosse vino

di pace e sincerità

riposeranno,

gravida vitalità,

e la luce lieve

notti afose disperderà.

 

Verrà ottobre

e saprà di quiete,

matura onesta requie,

dopo rancorose

canicole e immobilità

d’onuste stagioni

d’accecante aridità,

ritorneranno

raccolti di nuova intimità.

 

 

Invero volare

 

La strada all’improvviso

mi condusse di notte

nel bosco, luogo inviso,

delle storie interrotte.

 

Una pioggia

di foglie stanche,

manto del sentiero,

rotta soffice di passi

e monumenti di sassi,

ammassi di possibili

trionfi finiti in tonfi.

 

Intonsi giorni

lasciati disadorni

in castelli ghiacciati,

aspettano parole

dimenticate da suole

use alla marcia,

prone al marcio

di spiriti avvelenati.

 

Non è sostanza

l’umbratile parvenza

di fatui fuochi,

di suoni rochi,

l’emozionale paccottiglia

dell’ansia insana figlia.

 

Allontanarsi

dall’inganno

che non è,

non è stato,

 

non sarà,

rivelarsi

in nuovo

dipanarsi,

amarsi,

davvero amare

e così finalmente

invero volare.

 

 

L’essenziale

 

La vita scorre

su lastricati d’azioni

compiute a malincuore

e poi restano porzioni

di rimorso e sordo livore.

 

Sbadiglia solo

quando hai sonno,

che tutto il resto è gioia

scambiata per viziata noia,

capricci di puerile affanno.

 

Di venti in venti

diventi ciò

che t’inventi.

 

Di canti in canti

decanti ciò

che t’incanta.

 

E non rimane che

una sagoma algente,

cristallizzato profilo

di ardore rovente,

di legame potente,

nel cuore trova asilo.

 

 

 Anime guerriere

  

Così è quando spiove,

il cielo s’apre,

le nuvole cedono

il passo ai raggi

d’un sole tenue,

re rosso nel suo trono

blu, siderale sede,

firmata una tregua

tra il buio e la luce,

risplendono d’acqua

atomi di mondo nuovo

e l’eco della tempesta

si placa nella risacca

di anime guerriere.

 

 

Rampa di (s)lancio

 

Oggi nascevi

a vita nuova,

che male non fu

quel dolore

che ti partorì

e vigore ti diede

quel baratro

che ti ghermì.

È lancio alle stelle,

rotte d’asperi astri,

ciò che sembrava caduta.

È ascesa dall’altra parte

del mondo sorgente,

del vagito potente,

inconsapevole sé

nascente,

presente,

nuova-mente.

 

 

Giorni senza ritorni

 

Nostalgia di giorni

appesi su fili di

biancheria al sole,

caldo tepore di

brezze e leggerezze

d’istanti distanti,

nel tempo remoto

d’erose risa rosate,

di vini veri avìti,

effluvi d’ore a venire,

non ancora avute,

come succo spremute.

Resta una sete d’attimi

a colmare arsure di

giorni senza ritorni.

 

 

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Francesca Innocenzi, “Canto del vuoto cavo”, Transeuropa, 2021.

03 venerdì Giu 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Canto del vuoto cavo, Francesca Innocenzi

 

Canto del vuoto cavo è una plaquette di 60 componimenti brevi, che adottano la metrica dello haiku e delle sue varianti; precisamente, 40 haiku doppi (6 versi) e 20 tanka (5 versi). Ma la metrica è un mero contenitore rispetto a svariate tematiche attinenti realtà umane; gli elementi naturali, tradizionalmente in rilievo nello haiku, restano sullo sfondo. L’unico tratto coerente con il genere è l’assenza della prima persona: si evita di dire io e noi e di utilizzare verbi alla prima persona singolare e plurale. Il titolo, incentrato intorno al concetto di vuoto, intende portare l’attenzione sulla bivalenza insita nello stesso: vuoto come lacuna e mancanza, ma anche spazio fertile di nuove possibilità. I vari componimenti possono essere letti come un itinerario in versi, che temporalmente si avvia al compimento dei quarant’anni: si susseguono immagini e ricordi di un vissuto recente o remoto, come pure riflessioni suscitate dalla pandemia e punti di vista sulla società in genere: nel dittico del dio estremo si propone la tematica dello sfruttamento nel mondo capitalista, mentre le tre elegie dell’uomo comune vertono sulle variegate forme della “banalità del male”. Il mito occupa un posto di rilievo per la sua valenza universale, in grado di svelare l’umano di qualsiasi luogo e tempo. Nel trittico per Medea, in particolare, lo sguardo dell’altro si rivela essere una condanna, marchio del pregiudizio che colpisce inesorabilmente chi è «donna, straniera,/ pazza incantatrice». Dal punto di vista lessicale, si rileva una tendenza alla sperimentazione, con l’utilizzo di vocaboli in diverse lingue: il tedesco, l’inglese, il francese, il latino, il greco antico; una trasversalità dei codici linguistici che insegue l’utopia di una lingua poetica, che comprenda tutte le lingue, per una comprensione profonda tra gli esseri umani.

 

[tre elegie dell’uomo comune]

I.

inoculando

banalità del male

l’uomo comune

si dà un senso

il covid non c’è, però

i negri lo hanno

 

*

 

II.

i mantenuti

dallo Stato negli hotel

con cellulari

costosi – gabbie

di sproloqui su mondi

che non si sanno

 

*

 

III.

gli zingari, i rom

pensa che sono ladri

e delinquenti

pensa che sono

cromosomi erranti

alla deriva

 

*

 

quando la pioggia

si frantuma sui coppi

e cade in basso

l’eclissi di te

si inacqua e dona luce

alla grondaia

 

*

 

[dittico della puella]

 

I.

un grande buco

vuoto l’adolescenza.

come perversi

cenni di vita

gli attacchi di panico,

unica nota

 

*

 

II.

il greco antico

fu un amore saggio

e corrisposto.

un miracolo

di aoristi a sanare

solitudini

 

da Cerimonia del commiato, Transeuropa 2021

 

Francesca Innocenzi è nata a Jesi (Ancona). È laureata in lettere classiche e dottore di ricerca in poesia e cultura greca e latina di età tardoantica. Attualmente insegna nella scuola secondaria di secondo grado. Ha pubblicato la raccolta di prose liriche Il viaggio dello scorpione (2005); la raccolta di racconti Un applauso per l’attore (2007); le sillogi poetiche Giocosamente il nulla (2007), Cerimonia del commiato (2012), Non chiedere parola (2019), Canto del vuoto cavo (2021); il saggio Il daimon in Giamblico e la demonologia greco-romana (2011); il romanzo Sole di stagione (2018). Ha diretto collane di poesia e curato alcune pubblicazioni antologiche, tra cui Versi dal silenzio. La poesia dei Rom (2007); L’identità sommersa. Antologia di poeti Rom (2010); Il rifugio dell’aria. Poeti delle Marche (2010). È redattrice del trimestrale di poesia «Il Mangiaparole» e collabora con vari siti letterari. Ha ideato e dirige il Premio letterario Paesaggio interiore.

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Massimiliano Damaggio, “Edifici pericolanti”, Dot.com Press, 2017. Nota di lettura di Deborah Mega.

30 lunedì Mag 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Recensioni, Segnalazioni ed eventi

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Edifici pericolanti, Massimiliano Damaggio

 

Massimiliano Damaggio

Edifici pericolanti

Dot.com Press 

Postfazione di Fabio Franzin

Nota di lettura di Nino Iacovella

 

La poesia è “una mosca tossica / che depone nel corpo le uova della solitudine” scrive Massimiliano Damaggio in Edifici pericolanti, silloge curata da Giusi Drago per Dot.com Press, ai tempi del compianto Fabrizio Bianchi. Nonostante l’uomo sia un animale sociale è isolato nel mondo, cristallizzato in una condizione di sostanziale incomunicabilità con i suoi simili. L’opera, pubblicata nel 2017, si presenta attuale, originale e compiuta, dalla scelta del formato digitale scaricabile, che mette in evidenza la generosità dell’autore purchè si legga poesia, all’architettura ripartita in sei sezioni di poesia, i cui titoli non compaiono su ogni testo per non interrompere il flusso narrativo ma sono ripresi dalle sei prosette di commento contenute nella seconda parte. A conclusione di ogni sezione appare, come in un refrain, uno slogan pubblicitario dall’effetto straniante e dissonante, con piccole variazioni sul tema. La plastique c’est chic! […] Ti senti spensierata? Immergiti… e poi Lasciati ammaliare! E ancora Sarà easypink o chicblack l’estate?

Le sei parti poetiche recano titoli significativi: Sell-in, sell-out che tratta il tema del lavoro alienante, spersonalizzante, coercitivo, che allontana dalle giuste priorità; Sette tentativi di salvezza che raccontano altrettanti tentativi di resistenza e di dare ordine al caos del reale; Ultime dall’iperghetto su chi assiste impotente allo sfacelo; Sarà la bellezza la nostra vendetta in cui si torna a parlare di resistenza; Cinque simulazioni, in cui si descrivono cinque simulazioni di realtà, infine … E una risposta, in cui si è proiettati in una rassicurante condizione di non tempo. La poesia è potente, caustica, asfittica per chi si pone empaticamente in ascolto. L’uomo vive, lavora, produce, e in questo processo capitalistico di produzione e trasformazione che investe oggetti, persone, sentimenti, emerge il dolore, la pena da cui non è possibile fuggire. Si procede su un terreno insidiosamente minato, costantemente tesi alla ricerca dell’equilibrio mentre si tenta di sopravvivere. La terra è inquinata, defunta, l’Italia, la Grecia, dove vive il nostro autore, non fa alcuna differenza precisare il luogo, perché a causa dell’alienazione a cui ci sottopongono la logica del mercato e le esigenze del processo produttivo, ovunque ci si trovi, siamo vittime di un processo irrefrenabile, squilibrato e inarrestabile di sovrapproduzione, destinati a perdere la nostra natura umana e ad estinguerci. Siamo uomini dismessi come oggetti in disuso, siamo uomini in affitto, mercificati e in attesa dell’accredito mensile. Questo è quello che resta di ideali, speranze, sogni, illusioni. La società contemporanea è sempre più frenetica nel suo consumare tutto in breve tempo, travolgente perché di forte impatto ambientale, invivibile, caotica, e riflette la crisi gravissima dell’uomo e della natura. Gli edifici pericolanti diventano metafora esistenziale della condizione umana, corrispondono alle foglie autunnali di Ungaretti con tutte le loro caratteristiche di precarietà e provvisorietà. L’equilibrio è una condizione interiore, raramente programmabile, scrive Damaggio. Peccato che molto spesso agiscano forze avverse, traumi, dispiaceri che violentano la condizione umana, ne logorano l’armonia e la bellezza e ne compromettono la stabilità. I più compromessi risultano le persone sensibili, senza pelle, troppo permeabili al dolore. Questa è, oltre ad equilibrio, l’altra parola-chiave più ricorrente. Esistono due modi per non soffrire: accettare l’inferno, fingere di non vederlo e accettarlo fino a non vederlo più oppure riconoscere e cogliere persone e sentimenti positivi a cui dare spazio nella propria vita e nel proprio cuore. Fortunatamente, per dirla con Quasimodo, di tanto in tanto appare uno spiraglio di luce, un raggio di sole che rende la condizione umana appena più sopportabile. Ma a volte ci amiamo, nelle pause / piantiamo nel solco un feto ancora, scrive Damaggio. La sua poesia ricava molti elementi d’ispirazione dalla realtà. La osserva, la indaga, la racconta. Per amore di verità il poeta supera il suo isolamento e si mette in contatto con il mondo: il dolore personale diventa compianto universale e la rappresentazione di eventi e stati d’animo si fa sempre più rassegnata, distaccata e obiettiva. L’apertura tematica in direzione civile si accompagna a un linguaggio epico-lirico, il tono diviene disteso, comunicativo, tendente all’oratoria in alcuni punti, ma sempre costantemente pervaso da una incantevole grazia. “Apro le mani, piene di dita inutili / che sanno solo scrivere parole.” Occorre saper osservare e saper raccontare al mondo, con generosità ed empatia. Forse è questa la via di fuga, la soluzione che Damaggio, forse inconsapevolmente,  suggerisce. E non è poco.

 

© Deborah Mega

*

Da Sell in, Sell out:

Le cose con le dita

 

Transitiamo nella zona industriale

su questa terra defunta riposano

nomi di cose in disuso

gonfi di piogge oblique fioriscono

gli uomini dismessi

 

Aspettiamo, alla fermata dell’autobus, la sera

 

Sono piccoli vegetali oscuri

dove immergere la mano

è questo rumore senza forma

sono le cose con le dita

impermeabili fiori all’incontrario

 

corpi scivolati nell’ingorgo

di acque inquinate defluiscono

in esistenze decimate

un nome dopo l’altro, dentro i tabulati, fino all’estinzione

 

In questo modo precipita la notte

Un alito assente scivola fra i denti

Aspettiamo l’accredito sul conto corrente

 

Poesia della forza vendita

 

Esiste il tempo degli uomini in affitto

ripiegati in due dentro il contratto nell’atto

di spalancare la bocca

per ingoiare la moneta: Complimenti

mi dice il manager, Lei è in progressione

tuttavia non sa gestire le risorse:

ci vuole la carota, e ci vuole il bastone

 

Esiste il tempo dei ruminanti

che sanno l’intimo piacere del bastone

il Suo scopo è essere una molla

caricare il significato dei corpi: Lei

deve scavalcare la catasta dei giorni

sopra cui sta un obbiettivo,

che ci segna

 

Il materiale

 

È molto il materiale, che risale

fino alla superficie: del tuo giorno

del passante, di quest’animale

sull’asfalto, aperto in due

all’eccessivo sentimento

per un solo corpo, questo

 

sopravvivere, gravido di cose

da fare, da acquistare

un articolo, questo conviene

il calcolo del margine, Guardi

non vedo margini di manovra

 

Eccessivo il materiale

che acquista, che figlia, che insiste

nell’avventura umana e dura:

la nessuna avventura

 

Risale il materiale

fino al sorso delle mani:

non potabile. Una mano

nella serra dei corpi

raccolti a fatturare

chiede due ore di permesso

per andare a riprodursi

 

Io non posso tradurre tutto

questo pianto, tutto

in parole, non posso

tracciare il grafico esatto

della produzione di massa del dolore

 

Da Otto tentativi di salvezza

Bambino

 

Mi guardi dalla fotografia

ma io non so scrivere nella tua lingua

di ciò che si chiamava bambino

ed era viaggio di vento, irruzione

nel nuovo giorno, al calendario

scandalo

 

Incontrarti oggi in uno specchio di carta

mi ha fatto tremare le mani

perché ti ostini ad accompagnarmi di nascosto

all’uscita di ogni galleria

 

quando insieme per la sorpresa ridiamo

di fronte a un’improvvisa voragine di luce

 

Sulla statale per Killini

 

Ma io alla fine è con l’aria che combatto

e levo in alto le braccia per tradurre

una carne in una frase, un risorgere impossibile

e così torno al volante, così incontro

il cane morto per la strada

 

Se la tua parola era di inciampare nella ruota

e il vuoto che hai lasciato è ignorato da ogni cosa

con che grammatica interrotta chiami, ora

quelli che passano, e non si fermano

perché di te hanno paura

tanto terribilmente presente sei in tutta la tua assenza

 

 

Da Sarà la bellezza la nostra vendetta

Starsailor

 

Siamo qui per la bellezza, ma

come rifugiati fra due porte

in attesa di un fuoco qualunque

che commuova il calendario

 

In questo venire e andare di corpi

non hai nemmeno il tempo di dargli un nome:

lanciano sul tavolo poche parole, si alzano

 

Siamo qui per la bellezza, ma

come pieni di linee scure

che potevano essere albero, nuvola: attendiamo

 

nell’apnea delle disattese

è tua la voce a filo d’acqua

che modula una fiamma

per chi, liquido, sta

 

 

Giulia 

 

Ogni cosa mi fa a pezzi

e non basta averti accanto, come hai capito

perché un morso di vita residuo

ritorni al concreto di un sapore

 

Questi i fogli di carta

con il numero del giorno

che ho buttato senza sosta nel cestino

 

Li cerchi, li raccogli, insisti

a vivere, del nostro calendario

la pagina strappata

per lasciarmi quella intatta

 

Testi tratti da Edifici pericolanti di Massimiliano Damaggio, Dotcom.Press, 2017.

 

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Michela Zanarella, “Recupero dell’essenziale”, Interno Libri, 2022.

27 venerdì Mag 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Michela Zanarella, Recupero dell'essenziale

 

Dopo il fortunato “Le parole accanto” pubblicato con Interno Poesia nel 2017, a distanza di cinque anni esatti, Michela Zanarella si presenta ai lettori con una nuova e insolita raccolta edita con Interno Libri, progetto editoriale di Interno Editoria, casa editrice che ha fondato e gestisce il marchio Interno Poesia Editore. ‘Recupero dell’essenziale’ prende forma dal mistero delle coincidenze. Il libro è il frutto di un recupero di poesie andate perdute, ritrovate con l’aiuto di alcuni amici dell’autrice. La raccolta, con prefazione di Dante Maffia e postfazione di Anna Santoliquido, è dedicata all’amica Marcella Continanza, voce nota della poesia contemporanea, ideatrice del Festival della Poesia Europea di Francoforte sul Meno, scomparsa il 29 aprile 2020. Con una scrittura densa e viva, la poetessa ci accompagna nel suo cammino di ricerca e riflessione sui grandi temi dell’esistenza fino a condurci nella dimensione del sogno, della memoria, della bellezza, in piena comunione con l’universo. Attenta scrutatrice del mondo, Zanarella si lascia trasportare dagli elementi della natura che regolano la vita sulla terra, si pone in ascolto rivelando al lettore le infinite voci del cosmo.

 

Cosa resta di un’estate
 
 
 
Cosa resta di un’estate ormai finita
 
il corpo del mare visto di sfuggita
 
la memoria di un sole che non si è mai arreso
 
e l’asprezza delle cose inattese.
 
Ci ha preso alla sprovvista il dolore
 
è sceso a mutare la luce negli occhi
 
a disorientare gli equilibri del tempo.
 
Settembre ha le sembianze di un sudario
 
la cura è la pazienza ardente tra le viti
 
l’amore che resiste a pugni chiusi.
 
 
 
 
 
 
Chiedere riparo alla notte
 
 
 
Chiedere riparo alla notte
 
per tutto il dolore vissuto
 
respirare un buio che sa di luce assorta
 
ne scuotono il rumore le stelle
 
ed è come se accadesse un sussulto
 
al cielo di novembre
 
l’autunno prende fiato nei sogni compiuti
 
e la luna pare un segreto di sole
 
rimasto impigliato tra i rami
 
un destino immutabile
 
uguale al colore di albe già viste.
 
 
 
 
 
Da questo tempo
 
 
 
Da questo tempo dove la vita si attorciglia
 
come un’edera che sale sui muri
 
si farà notte come ogni notte
 
e sarà un andare incontro alla luna
 
a colpi di sogno – percorreremo la memoria
 
delle stelle fino a rivederne l’infanzia.
 
È ancora estate e diamo un nome diverso ad ogni cosa:
 
le nuvole si chiamano isole
 
il sole è un pensiero di luce espresso sottovoce,
 
quasi l’amore.
 
 
 
—
 
 
Michela Zanarella 

 

Michela Zanarella è nata a Cittadella (PD) nel 1980. Dal 2007 vive e lavora a Roma. Ha pubblicato diciassette libri. Negli Stati Uniti è uscita in edizione inglese la raccolta tradotta da Leanne Hoppe “Meditations in the Feminine”, edita da Bordighera Press (2018). Giornalista, autrice di libri di narrativa e testi per il teatro, è redattrice di Periodico italiano Magazine e Laici.it. Le sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, arabo, spagnolo, rumeno, serbo, greco, portoghese, hindi, cinese e giapponese. E’ tra gli otto co-autori del romanzo di Federico Moccia “La ragazza di Roma Nord” edito da SEM.

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Riccardo Mazzamuto, “Tredici giorni al rifugio”, Eretica Edizioni, 2022.

23 lunedì Mag 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Riccardo Mazzamuto, Tredici giorni al rifugio

 

sfollamento da livorno e il primo bombardamento a castelnuovo

 

 

livorno città piana

mare distesa

anticipa addii

da sabbia ordigni

di onde alte nel porto

e gente gente

 

il vento porta anglo

americani sbarcati

in sicilia – anzio –

 

sorvolano piccoli aerei

e palle di fuoco

con scopo

d’avvilire verde

la campagna rivale

e fredde rive

senza verdi acque

 

spaventando terrore

grida certezze

di piccoli episodi

a – castelnuovo della misericordia –

paura dei vivi

rabbia dei popoli morti

 

l’avanzata degli anglo – americani e le case in fiamme

 

millenovecentoquarantaquattro

primavera rosicata

infrante le foglie

resistenza tedesca

in combattimento

e\a luglio pian di – vada –

– castelnuovo della misericordia –

retrovia

rilevante per ritardare

l’avanzata

 

iniziano a devastare

il paese

fuoco paglia case

chiome di alberi

dai colori ingannati

semi morti che forse

ri-diventeranno erba

 

successivamente

spento

da noi uomini donne giovani

dal vento che non soffia

con pompe a zaino

da ramato acqua

 

portiamo via

sacchetti farina

bianca gialla

il mugnaio del paese

– marino ciampi- l’aveva occultata

 

in casa

da – giuseppa ceccanti-

per necessità

quella riserva in deposito

che solo i vecchi

antichi sapevano fare

con semplicità

 

il ritorno al rifugio

 

 

se dobbiamo morire

moriremo al rifugio

 

dai campi incolti

vigne uliveti

i miei figli mia moglie

mia nonna – emilia –

e famiglie

l’avevano pensata come noi

 

noi uomini – tordi

dai turni di guardia

per difenderci

da attacchi

 

nascosti tra i cespugli

attigui come insetti

armati muti

di bombe a mano

da fucile modello 91

 

le donne sistemarono

poche vettovaglie

sedie

panche carrozzine

per farvi dormire

i bambini e la magnolia

sembrava spingersi in cielo

con un aereo

da ricognizione da noi

chiamato – la cicogna –

volteggiava

malinconicamente

sulle nostre teste

 

 

le SS a castelvecchio

 

 

vennero a – castelvecchio –

un gruppo di soldati

appartenenti

alle famose SS

armati di mitragliette

bombe a mano

 

incontrate alcune donne

chiesero

loro da mangiare

 

una di queste – gelinda pagliai –

venne al rifugio

a chiedere che qualcuno

andasse a parlare

con quei soldati

 

tutti avevano paura

perché sapevano

che in certi casi

uccidevano

 

decido a malincuore

di parlare con loro

per evitare il peggio

uccido un coniglio

poi cotto

e divorato

dai quattro militari

 

durante il pranzo

parliamo gesti

e al meglio

della guerra in corso

in cambio del mangiare

ci offrirono dei sigari

la natura

non avrebbe voluto questo

 

volevano entrare

in casa per riposarsi

lì indirizziamo

verso la stalla

di proprietà di – sirio morelli-

detto – gigino –

e con grosso respiro

torniamo al riparo

 

viva la libertà

 

 

in festa

abbandoniamo il rifugio

lungo le strade

ad accogliere con gioia soldati

che ci avevano liberati

 

con loro nella piazza

del paese

oltre gli abitanti in festa

partigiani che avevano

operato contro i tedeschi.

 

Ora il rifugio è ancora là

e vi rimarrà per sempre

a testimoniare ai posteri

che lì soffrirono

e sperarono nella pace

e nella libertà gli abitanti

di castelvecchio

 

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Mattia Tarantino, “L’età dell’uva”, Giulio Perrone Editore, 2021.

09 lunedì Mag 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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L'età dell'uva, Mattia Tarantino

 

Vorrei conoscere il mondo dei morti,

reclamarlo in una lingua senza storia

che non abbia una grammatica, ma possa

avverare tutto ciò che si pronuncia.

 

Mi usano per parlare a chi è rimasto,

vogliono che dica, rovesciandola,

la parola che non hanno mai trovato.

 

*

 

Rovesciata nel sangue una preghiera

indecifrabile rimane nelle vene:

nessuno ha mai saputo pronunciare

la parola con cui inizia: pare venga

dalla lingua dei morti, e rivelata

li farebbe ritornare al nostro mondo.

 

Il segreto è che se bruci

i fiori che ti ho dato troverai

nel fuoco i segni per comporla.

 

*

 

I bambini giocano a intrecciare

le storie dei morti: hanno mille

voci in una sola lingua.

 

Conoscono la linea tra il mondo

e la sua conclusione; intuiscono

che le cose non durano e bisogna

piangere per tutto e per tutto

strillare, agitarsi, poi ridere.

 

*

 

E poi cammini con un cero

sciolto in bocca per ripetere i proverbi

con fatica, e tutti i nomi

comuni delle cose; oppure quelli

che di inverno reciti allo specchio.

 

Sarà che non conosco i segni

né l’Arcano della Luna, e non ho mai

saputo interpretare le stagioni;

 

sarà che ho in gola antichi canti

in una lingua incomprensibile di vento

e di fortuna, tra ostie sparpagliate,

 

ma l’ho stretto il patto con i morti,

esausto nella stanza, con un libro

lasciato sotto al letto, rovinato.

 

*

 

Vedi, non restano che i nostri

frutti sulla tavola:

mia madre che li sbuccia; i loro

nomi che pendono dall’orlo

e cadono tra il pavimento e l’invisibile.

 

Ora all’uva basta un soffio per marcire

in fretta e diventare una preghiera.

 

*

 

Dammi la cenere, la sorte

rovesciata dei morti che ridono

in cerchio attorno al fuoco; che bevono

per varcare ubriachi la soglia.

 

Alla festa non hanno invitato

chi ha sofferto la caduta del cielo;

chi ha corrotto con la lingua la voce

udita alla fine del sabba:

 

un giorno ciò che intendono i morti

a tutti sarà rivelato.

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Alle madri

08 domenica Mag 2022

Posted by Deborah Mega in ARTI, Segnalazioni ed eventi, SINE LIMINE

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Masaccio e Masolino da Panicale, S,Anna Metterza

 

Vergine madre, figlia del tuo figlio – Dante Alighieri

 

Vergine madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’eterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti si’, che ‘l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

 

Nel ventre tuo si riaccese l’amore,

per lo cui caldo ne l’eterna pace

così è germinato questo fiore.

 

Qui se’ a noi meridiana face

di caritate, e giuso, intra mortali,

se’ di speranza fontana vivace.

 

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre

sua disianza vuol volar senz’ali.

 

Gustav Klimt, Le tre età della donna

 

A Mia Madre – Edmondo De Amicis

 

Non sempre il tempo la beltà cancella

o la sfioran le lacrime e gli affanni

mia madre ha sessant’anni e più la guardo

e più mi sembra bella.

 

Non ha un accento, un guardo, un riso

che non mi tocchi dolcemente il cuore.

Ah se fossi pittore, farei tutta la vita

il suo ritratto.

 

Vorrei ritrarla quando inchina il viso

perch’io le baci la sua treccia bianca

e quando inferma e stanca,

nasconde il suo dolor sotto un sorriso.

Ah se fosse un mio prego in cielo accolto

non chiederei al gran pittore d’Urbino

il pennello divino per coronar di gloria

il suo bel volto.

Vorrei poter cangiar vita con vita,

darle tutto il vigor degli anni miei

Vorrei veder me vecchio e lei…

dal sacrificio mio ringiovanita!

 

Edward Munch, La madre morta e la bambina

 

A mia madre – Eugenio Montale

 

Ora che il coro delle coturnici

ti blandisce nel sonno eterno, rotta

felice schiera in fuga verso i clivi

vendemmiati del Mesco, or che la lotta

dei viventi più infuria, se tu cedi

come un’ombra la spoglia

(e non è un’ombra,

o gentile, non è ciò che tu credi)

chi ti proteggerà? La strada sgombra

non è una via, solo due mani, un volto,

quelle mani, quel volto, il gesto d’una

vita che non è un’altra ma se stessa,

solo questo ti pone nell’eliso

folto d’anime e voci in cui tu vivi;

e la domanda che tu lasci è anch’essa

un gesto tuo, all’ombra delle croci.

 

 

 

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Guglielmo Aprile, “Sinfonia del mare”, Il Convivio Editore, 2021.

06 venerdì Mag 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Guglielmo Aprile, Sinfonia del mare

 

 

 

Mi parlarono le onde

 

Risuonano tra le onde eco disperse di

altre voci, di uomini

vissuti in altre età, boati e gemiti di

Atlantidi dimenticate, il rombo di

uragani e naufragi

anche se per la distanza smorzato si

prolunga nel rantolo

della risacca che cresce dal largo

e che parla alla spiaggia, e le confessa il

remoto martirio di qualcuno

che si annegò, e di cui si ignora il nome; e

brandelli riemergono

di rotoli e di codici, in un vortice

di spume, avvolti dalle alghe, cocci

alla rinfusa, formule sbiadite

da acqua e sale, di rune e di saghe,

e tavole ma infrante tra gli scogli

e pagine di silice ma in pezzi

con sopra incise e quasi cancellate

le prime leggi e stralci del racconto

di come ebbe origine il mondo;

e sull’acqua prendono forma a volte

i tratti di quello che sembra un volto.

Mare, di fronte a te, sulle tue sponde

a lungo siedo, da solo, in ascolto.

 

Soglia

 

Il mare piange un figlio mai tornato:

ascolta, invoca un nome

e lo ripete a vuoto

fino allo sfinimento, tante volte

quante le onde che fanno al suo grido

una ironica eco,

e andare in cerca sembra

anche se esausto, in una via deserta, da

solo e scalzo, sotto il temporale, di

qualcuno, chiamandolo

a piena voce: implorante orfeo

di un volto che le ombre reclamarono,

troppo presto rapito

da un Averno che ha lungo la battigia la

sua soglia vorace.

 

Rapsodia marina

 

Le galassie raccontano

alle conchiglie il proprio lungo viaggio;

e lui, il mare, raccoglie e poi disperde

l’eco di quella lunga confessione:

 

dissipa sillabe d’alghe e di schizzi

sopra la pergamena delle spiagge,

senza posa versifica

perduti amori e la storia del mondo

 

e quella del gigante senza nome

che espia una certa colpa

da quando in tufo si mutò il suo corpo, in

sbraccianti scogliere;

 

mare, ossesso in catene

che sbraita e strepita, voce straniera

che innalza la propria preghiera

e le distanze scavalca e le ere.

 

“Ama celarsi, parla per enigmi…”

 

Metamorfico mare, ha molte maschere

ma una sola anima: suo è il dono

di mutare, di assumere

 

qualunque profilo, a capriccio,

quando l’onda disegna sulla riva

ora un cavallo, o un’idra, o una fanciulla,

 

ma sempre confonde i suoi esegeti

e dei loro pronostici si beffa,

e il suo vero volto non mostra

 

a chi si affacci sul suo specchio; mare, a

ogni nostro bussare il tuo silenzio è la

sola risposta.

 

L’azzurro rotolo della sapienza

 

Quanto per te è dio, per me è il mare;

è il gelsomino che soffoca quasi

chi il suo alito esali, tanto è dolce,

ed è il fabbro operoso delle ere

che lascia su costoni e rupi traccia

della sua mano d’acque e venti e lave,

è il fremito che percorre il fogliame

ed è il boato che stacca le frane,

il ronzio in mezzo agli steli dell’ape

e l’eco montante delle risacche,

la chiocciola che su un tronco o su un muro

impercettibile all’occhio risale,

la lunghissima marcia dei ghiacciai

che il calcare scavò con la sua unghia

tracciando corridoi, gole dai fianchi

a precipizio invase poi dai laghi,

le piste che i capodogli tramandano

alla ricerca di plancton ogni anno

sulle mappe delle correnti oceaniche,

le orbite che gli infuocati globi

attraverso distanze buie battono;

è come una colorata voragine

che sul proprio orlo srotola una danza

di corpi che un solo brivido infiamma,

è quel trasalimento dello sguardo

che allo scoccare del fulmine segue

o quando spiega il suo incendio il tramonto e

allestisce la sua coreografia

fastosa drappeggiando con le nuvole

vascelli in fiamme; è la prima fonte

di meraviglia e di angoscia di fronte

ad ogni epifania dell’esistenza,

è la terribile magnificenza

che non si sa come chiamare, e a cui tu

dai nome di dio, io di mare.

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Johanna Finocchiaro, “Clic”, L’Erudita, 2020.

02 lunedì Mag 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Clic, Johanna Finocchiaro

 

Resta lei

 

Non dissi una parola.

Non disse una parola.

Non sapevo.

Non sapeva capire.

Il tempo a grandi passi;

È oggi, o poco fa.

Adesso cosa resta?

La strada, resta. Resta lei.

E noi, che non possiamo sapere.

Luoghi lontani e calmi. Vicini.

Proprio qui.

Stanze da esplorare senza luce.

Pareti di roccia rossa. Oscure.

Pulsano.

Le parole non sempre parlano

e i fatti non sempre gridano.

A volte sì.

Tentano.

 

Alla finestra

 

Appendo le dita alla finestra

L’aria fresca sfonda lo spazio

e arriva placida fin qui

Gli occhi alti, integri

alla notte

di piombo e d’argento

Do le spalle a una camera anonima, alle cose

 

La luna è velata

Nuvole nere ne corrono i confini

Non più sfera, non più luna

Mi sporgo audace e attratta

 

La tocco e lei si sposta

La bramo e lei si mostra

Protendo anche i pensieri, anche quelli

I più celesti

 

E mi lascio trovare

 

Ma si fa tardi e chiudo la finestra sul mondo

Il freddo ha scaldato il mio fiato

Gli occhi meno alti ma più distanti

Un’altra nuvola nera sulla luna.

 

La danza

  

Le stelle filanti danzano,

nuotano libere di vanità.

Sono pesci in una boccia,

un palco antico di verità.

Il vetro si è scheggiato

ma ne riflette ancora l’ego.

Impronte di marmellata;

calco quella terra, incantata.

E lì annego.

Senza sosta e senza veleno

sbattono i piedi le stelle filanti.

La testa si stacca:

voglio danzare con loro

il tempo di un attimo.

 

CLIC

 

Ho una madre. Un padre. Un fratello. Un nipote. Un tetto, un libro in testa, un libro in mano;

ho due mani.

Un gatto, grande e robusto, nero, un letto, tre sogni a dir poco.

Quattro o cinque a dir il vero.

Ho un Dio che mi ha creata a Sua immagine e di cui non ho sembianze.

Ho un tamburo che danza rituale e sbraita meschino di notte.

Ho un mondo. Il più delle volte, le volte buone.

E ricordo a me stessa quel mondo. Dovrei amarlo. Dovrei sentirlo. Dovrei staccarmi da terra,

messaggera alata

e trovarlo.

Il panorama autentico, scevro d’egoismo. Mio. Mitologico.

Volare sopra di me, senza di me, concentrare la vista sul fuoco.

La scintilla: palesemente necessaria.

Ma proprio non può, no, prendersene merito. Della luce.

Che da quella partenza cresce e muta e si

ribella. E va, evaporando.

Io, io non lo posso fare. Non più. Comincio a capire.

E a fuggire dalla luce, lei, mia, che rendo buia perché buia

sono. Ancora senz’ali.

Non sento niente e non so perché.

Umana compassione cercasi.

E le tragedie, anch’esse, non turbano. Non urtano. Le viscere non mi pungono.

Ma neppure son pazza, oggi, non son io quella pazza.

 

Un clic. Qualcosa in me ha fatto clic e non ritorna. Indietro.

Sciolgo i capelli, fili spezzati di un nastro nero alla luce di luna.

Dicembre comincia e prosegue la nenia.

Anemica di cuore, anemica d’amore.

La rima non è originale. La rima non era prevista.

Frugo e scavo e graffio ma non trovo. Quel geniale modo,

il migliore, di confessare. Confessare.

Confessare che non sento niente e so perché.

Clic

 

Tregua

 

Il vento sa di mare, oggi. Sento la salsedine del mare nel vento.

Sto bene, sì.

Mio padre parla e poi pensa.

Faccio così anch’io.

Dice: magari è qualcuno che sala la carne. Nessuna salsedine, bambina.

 

Sorrido amara della sua dolce semplicità.

Me ne rendo conto negli anni, che ci vive.

E forse lo invidio, forse lo sfido.

 

Mi lavo la faccia.

Usciamo?, pensa e poi chiede.

Prendono il ritmo del volere, i movimenti;

è sabato e sono le 10 circa.

S’intrecciano poi le nostre mani,

quelle di mia madre vivace,

quelle della bambina che cerca il rossetto, che possa colpirla.

Quelle dell’uomo che guarda.

 

Tra poco usciremo.

 

Il vento sa di mare oggi. E di pepe.

Va bene, penso e non dico: somiglia a una tregua.

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Per i morti della Resistenza

25 lunedì Apr 2022

Posted by Deborah Mega in Segnalazioni ed eventi

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Giuseppe Ungaretti

Qui

Vivono per sempre

Gli occhi che furono chiusi alla luce

Perché tutti

Li avessero aperti

Per sempre

Alla luce

Giuseppe Ungaretti

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Doris Bellomusto, “Fra l’Olimpo e il Sud”, Poetica Edizioni, 2021.

25 lunedì Apr 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Doris Bellomusto, Fra l'Olimpo e il Sud

 

Afrodisiaca

 

È la vita degli dei

e degli eroi

e dei poveri

diavoli

che siamo noi,

venuti

al mondo

nell’età dell’incoscienza.

Di Afrodite,

è tutta la bellezza

di questo gioco mortale

e, forse, immorale.

È avida

la dea.

Inganna i cuori

e non concede

sazietà ai desideri

sempre accesi

nelle nostre viscere.

Siamo figli suoi

e di Efesto.

E concepiti nelle viscere

di un vulcano

siamo condannati

a sentirlo

nelle nostre stesse

viscere

il fuoco sacro

dei desideri

che fanno la vita

così

afrodisiaca.

 

Argo

 

Aspetto

una carezza,

so che verrà

dal mare

e avrà sapore

di salsedine.

Aspetto

una carezza

che accenderà

la mia consumata

speranza di rivedere

Odisseo,

il più audace degli uomini.

Abbaiando amore,

gli racconterò

che cos’è

la fedeltà.

 

Medea

 

È abusato il tuo nome,

incompreso il tuo dolore,

troppo stretto

il nodo

che ti legava

all’amore.

La tua lucida follia

si annida

nel mio cuore

di madre.

Sciolgo il nodo

se stringe,

stringo al cuore

il tuo dolore,

non pronuncio il tuo nome,

ho paura

che tu mi risponda

con la mia incerta

voce.

 

Audace allegria

 

Ospite

del mio corpo

sono il tempio

e l’altare,

sono l’altro,

sono il pellegrino,

sono il sacerdote.

Sono la sposa

senza dote.

Sono Atena,

sono Venere Citera.

La mia pelle

ruvida

si fa pergamena.

Sono l’oracolo

e la Sibilla.

Afferro

gli arcani

segreti

dei venti.

 

L’audace allegria

del mio sangue

canta preghiere

profane.

 

Autogrill

 

Viaggio

nel meriggio

assolato,

bevo cielo,

mi nutro

di imperfetti

miracoli.

A Sud

si va leggeri

con le tasche

piene di miraggi,

il cuore vuoto

di chi ha fame

e mangia

pane e ricordi

d’infanzia.

L’amore

si fa

ritorno,

canto,

incanto,

Autogrill.

 

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Paolo Castronuovo, “La croce versa”, Effigie, 2022.

18 lunedì Apr 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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La croce versa, Paolo Castronuovo

 

A chi illumina

 *

 

La poesia è come l’acqua nelle profondità della terra.

Il poeta è simile a un rabdomante,

trova l’acqua anche nei luoghi più aridi e la fa zampillare

 

Alberto Moravia

 

La croce versa (o il tentativo di cambiare)

 

la croce versa nell’uovo

è il frassino nel cuore del conte

la cellula che purifica l’etichetta

battezzando la fede in scienza

 

un simbolo che impongo

per cambiare le immagini

tagliare il ciclo e aprirne un altro

in un rivolo di sangue blu

 

un punto e a capo che serve

all’interlinea stretta della vita

per respirare il diverso

e chiudere le oscurità nel guscio

 

vergere la croce portata

farne posata o fionda

per debellare la malattia del verbo

con la pietra della negazione

 

vorrei cancellarti dalla mia fronte

lo sfregio di caino che mi addita nella folla

accresce il tuo ego

nelle fauci dell’adorazione

 

potrei morirti sui piedi se mi lasci respirare

e dirti quanto sei immensa sarà un gioco

come scagliare la biglia dal pollice

mentre le ombre lasciano le case alla sera

 

ma devo eliminarti

macellarti in una mole fine

farne polvere e bagnarla per non respirarla

affinché ogni odore di te si estingua

 

cambiare ossessione per quanto possibile

dimenticarti fluire come un pesce rosso

morto nel pozzo della tazza scarica

dicendomi che ora andrai nel mare con le altre

 

l’essere tuo mi annulla

e una poesia è troppo rapida

per un lungo addio

che garza il distacco netto

 

starò a contemplare alla finestra della memoria

mentre scagli quella croce

sull’uovo che si cuoce

e io non avrò più nulla da dire

 

*

 

è inutile il tramonto

per addormentarsi sull’amaca delle tue ciglia

per ondeggiare fino a cadere sui listelli del molo

dove tra i nodi del legno spiccano le conchiglie

allineate su una spiaggia desolata di inverno

mentre la pelle è livida dal freddo

le corde che ti ormeggiano la colorano

e io ti guardo in questa cornice descritta

mentre i primi gabbiani si affacciano alle nuvole

e la spuma del mare mi porta

sempre più vicino

sempre più lontano

al tuo profumo bronzeo

 

*

 

la rima

baciata è uno stupro

preferisco sguinzagliare canneti

dalle sponde della spiaggia

farne falò di notte per lo spiedo

di un bacio atteso a ruminare

lungo le vie delle barbarie

 

strapparti i vestiti con le forbici dell’attenzione

sregolare l’attrito di un catamarano

staccare la dinamo dalla graziella

e scaraventarla nell’oltremare

non scrivere per compito

ma solo per amarti

 

*

preghiera nera

 

regalami le tenebre del tuo bosco

fiore dal polline nero

 

inquinato dal battesimo perché l’ateo è il vero puro

senza decaloghi da infrangere

bagnato solo della placenta di sua madre

 

non meritavo gli inferi alle porte

o le spinte col forcone

una nascita bastava

 

voglio togliermi il mantello acqueo

– di sacro preferisco il fuoco almeno arde

uccide le spore disinfetta

 

non certo aleister mi regalerà la felicità

con la sua disobbedienza a cefalù

 

ma tu donna scarlatta

sorridimi ancora – amami

in pozioni che mai berrò

sacrificherò il mio vuoto

 

non sarò sabbatico adepto

alla cena dei bottoni

dell’antitesi del bianco

né all’altare di cognac e coca mi prostrerò

 

/ non fa per me /

 

ma tu sei maga

nera – strega

pallida in viso

 

ti salverò da qualsiasi inquisizione

tramandata nel tempo

tra un affresco stilizzato e l’altro

mi battezzerò solo della tua bellezza

 

non avremmo crocifissi né esagrammi da adorare

calici e pissidi saranno vecchi inesplorati

ti sposerò all’abbazia di thélema

tra finestre di jimmy e ruderi d’edera

 

nel nome del tuo nome

 

amen

 

 

il flusso nel volo

 

ho perso punti virgole capoversi nel volo dove ho incontrato te tra le anime esiliate finalmente qualcuno poteva vedermi le labbra divennero amaca alla tua vista perdendo vizi tumorali alla presa della mano in caduta poi abbraccio ancorato alla schiena dal rostro scarlatto dell’unghia impiantata lasciando divenire la mia futura cicatrice la più lucente tu affascinante anche negli sfregi dell’anima anonima amo le sfaccettature della lettera x incisa perché misteriosa incognita pacifica parità all’estremo eliminazione di paure libertà voglia costringere il bacio labile tagliente impiastrica le pelli di sapori pioventi bagnati da bava di chiocciola di cui non necessita la tua bellezza ancestrale squarcio labialinguinale nell’accartocciarsi al fiato aumentato dalla diminuzione dello spazio scosso dal tuo seno nell’intreccio cauto avvincente sì è il momento dopo il blocco consumato dal silenzio troppo lungo prima nella ventosa chiusa negli sguardi dai polpastrelli clitoridali voluta sempre in queste vesti aperte noi chiusi in un involucro bambagia di carezze sul naso indiano bucato dai tuoi occhi sentiti nel buio luce del nirvana dottrinale disseminato dopo il mio ateismo come petali confusi sparsi al tuo cammino i nostri sguardi scettici d’amore ora baciano la terra che arriva a ovattarci al suolo ancora in morte nel nulla del vuoto esplorato dal silenzio nel tuffo dove non riusciamo per via dei nodi a urlare lì nei flashback della vita

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La vendetta non mi interessava

27 giovedì Gen 2022

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Giorno della Memoria, Primo Levi

 

La vendetta non mi interessava; ero stato intimamente soddisfatto dalla (simbolica, incompleta, tendenziosa) sacra rappresentazione di Norimberga, ma mi stava bene così, che alle giustissime impiccagioni pensassero gli altri, i professionisti. A me spettava capire, capirli. Non il manipolo dei grandi colpevoli, ma loro, il popolo, quelli che avevo visti da vicino, quelli tra cui erano stati reclutati i militi delle S.S., ed anche quegli altri, quelli che avevano creduto, che non credendo avevano taciuto, che non avevano avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi, di gettarci un pezzo di pane, di mormorare una parola umana. Ricordo molto bene quel tempo e quel clima, e credo di poter giudicare i tedeschi di allora senza pregiudizi e senza collera. Quasi tutti, ma non tutti, erano stati sordi, ciechi e muti: una massa di «invalidi» intorno a un nocciolo di feroci. Quasi tutti, ma non tutti, erano stati vili.

Primo Levi, I sommersi e i salvati, 1986

 

Il brano “Il Giorno della Memoria” è tratto dal volume “Noi e la Musica 5” di Lanfranco Perini e Maurizio Spaccazocchi © 2013 Progetti Sonori

 

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Valerio Succi, “Subcultura”, Terra d’ulivi, 2021.

04 lunedì Ott 2021

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Oggi

… È che comprendo, sebbene non riesca a trasmetterlo. È cupo, seppur diurno, ma questo è: la vita immine. Sono ancora vivo! Come narciso che spira non per il proprio viso, bensì per approfondir l’abisso. E lo si capisce bene, dato che basta un attimo, soltanto uno, un singolo momento, per accorgersi che tutto ciò che è contenuto qui dentro si rivela vano, e un’ardua fatica, vana anch’essa, il suo accumularlo, un solo istante, un singolo momento –dico! – per prendere in mano l’accendino, e dar fuoco a ogni minimo libro abitante quest’umile edificio. La guerra non è che silenzio e triste scempio, in confronto alle grida di gioia che emetterei: come arde! Scadendo il cielo, scandalo di me stesso.

Oggi

La guerra, che comincia ogni giorno dopo, ha sviluppato un collerico collettivo, per il quale la maggior parte degli umiliati, subendo il timore atroce della morte, cerca, qualunque esso sia, un metodo per scampare alla propria scomparsa. Decidono di, in massa, recarsi in Biblio, per consegnare – o come dicono loro: «per donare» – le loro
memorie, le riflessioni personali, i diari quotidiani e tutti quei romanzi che custodivano, gelosamente e pudicamente, nel cassetto del comò di casa, da chissà quanto tempo:
ludica fatica ben spesa dietro a un’utopia. Ho iniziato a rifiutare molte di codeste copie, poiché, oltre a giungermi in numero esagerato – qualcuno è arrivato addirittura a redarre interi tomi consegnandomi una vera e propria collana enciclopedica sulla sua stessa vita –, troppe sono rilegate semplicemente con lo spago o tenute assieme tramite graffette scarse, dimostrando il poco senso al loro interno, come quella di chi ha portato un manoscritto senza un rigo scritto e un valido motivo. Ma quale valore gli attribuiscono?
Loro non comprendono, però, e allora mi fanno trovare, già stamane, davanti all’uscio chiuso della bella Biblio, plichi di fogli e pile di quadernoni parenti protocolli da smantellare, realtà malgrado: son ondate di menti traviate – o subisso, sinonimo di… I maggior scaltri, credendosi poi i minor corti, mi spediscono i pacchi via posta, con i quali allegano pure una lettera di ringraziamento, che è precisazione delle motivazioni di tale scelta. Così, posto in difficoltà, non ho la benché minima possibilità di ridare tutto questo indietro: indifeso, m’hanno reso! Evito infatti di buttar nel rusco l’intero gruppo: ricompenso – ma con quale pazienza! –, riconoscendola, la giusta inventiva.
M’incammino dunque: destinazione il magazzino, con lo scopo di trovare uno scaffale vuoto nel quale collocare l’intero materiale, pensando già, nel mentre, a una nuova possibile catalogazione, data la straordinaria occasione. Niente mi viene però in mente: anche solamente il diario di quest’umiliato, che stringo in mano, muta nel suo essere inconsistente. A un certo punto, attirata la mia attenzione, lo scaravento sulla scrivania, già invasa da pendolari petenti il treno diretto agli scaffali, e la scala prendo, perché noto un libro che sporge molto, forse troppo, rischiando di far cadere tutti gli altri, quei suoi compagni dell’ultimo ripiano, quell’alto. Piazzo la scala, ma provo prima, comunque, a raggiungerlo, alzando giusto dei piedi le punte. Non ci arrivo, come del resto ogni singola volta.
Torno dalla scala, sulla quale salgo, nonostante m’intimorisca: sono in balìa d’un caso vacillante, e, sbilenca, mi ricorda ancora l’angusta figura, che, diventandola, mi si manifesta quando m’addentro, ancora oscuro, del magazzino costume e uso. Raggiungo finalmente il volume, ma, nello spingerlo indietro, mi si rivolta contro, gettandosi per terra. Lo fisso per minimo un minuto: combattute, tutte queste vite vissute, per dì marcenti, nei pressi di giardini adiacenti, mi ribadiscono, infastidite, che le ho lasciate troppo a lungo al soliloquio del loro eloquio, infimo destino. E proprio non posso nemmeno asserire, per farmi meglio sentire, che dormano tranquille, poiché seppellite, malnutrite: nessun lume conduce luce, come il segreto cielo non si introduce.
Loro fine, mi perplime. Chiedo perdono, non per questo o quel coso, ma per ciò che realmente sono: bevuto di gusto il succo, ne ho goduto giusto il dubbio. Ma perché parlo, mi perdo, sbando? E con chi piango? Perché abbandonarlo? Seduto, vuol ritornar volume? Perché ambiscono, gli umiliati, a prender parte a questo cimitero e a mischiarsi con quest’altri astanti, i quali, oltre a esser gravidi dei loro stessi anni, hanno anche assaporato, portandoselo in seno, l’amaro dell’assoluto, compiuto dell’incompiuto? Come convivranno se comunicano diverse lingue? Già loro s’oppongono, noto… Ignorano coloro che sono destinati a un oblio ben peggiore rispetto a quello della rete o della scomparsa in quanto tale, perché sì – finalmente l’infine della stessa fine? –, decido di non catalogarli, né d’archiviarli, semplicemente posarli qua, dove nessuno viene, e mai verrà a conoscenza della loro esistenza. Nessuno rimpiangerà il racconto e il dettato costante della propria e solita pratica, atroce e vera vita, che si differenzia, in loro e per loro, soprattutto per le mansioni specifiche che svolgevano a lavoro: due automi, dopotutto, si mimano a vicenda dopo gli ordini ricevuti. Anzi, ad armi pari non han bisogno nemmen degli umani. Ma per le idee? Le stesse, essequie genuflesse: medesime per ogni essere presente in queste povere pieghe, già di polvere piene: tutti attori del proprio evo, presenti mai assenti al proprio tempo; falla qui vi manca.
Scendo dalla scala. Prendo tra le mani il libro che si è gettato a terra. Lo sasso in uno scatolone, tumulo inodore: lo metterò, domani, già a posto? Mentre ritorno, stanco e sporco, alla mia postazione, «Odio l’oblio» sento sentire.

Oggi

Basta dormire: è l’ora! Dolorose tentazioni, seguirò le mie ambizioni. Finalmente darò vita a un epos d’eros che finora ha albergato la mia mente e non vede l’ora di evadere.
Sento già un motivo, anzi: una sinfonia leggiadra e candida, dispersa nell’eremo del mio cervello, che migrerà sulla carta, mai sazia, mai paga! Condividerò con la cruda realtà questa mia sciagura, la mia intima natura, vera e unica paura, e dovrà accettarlo, il mio canto, come un «sono» pari agli altri. Parto ora dal porto e mi perdo cieco alla sua ricerca, fino a quando ogni sarto occupantesi di canto non sarà trasportato al foglio, e il proprio corpo mostrato, con tanto ardore, e sul comodino di chi ha capito, e qui in Biblio pervertito. Fioriranno, e sì, gli alberi abitanti la solitudine – sede di sete – che gorgoglia, come noia, tra questi libri e umiliati, i quali proferiscono ciò che non comprendono.
Le giornate, sembranti pegno dell’eterno e dentro le quali m’abbandono come un corpo morto fluttuante tra le correnti dei lenti letti, ignorando il luogo in cui posarmi e riposarmi, godranno, perciò, di un tramonto favoloso. Ne ho e ne avrò, e del tempo e del suono.

 

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“Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020”: una galleria di ritratti dal 1945 ad oggi.

27 lunedì Set 2021

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Recensioni, Segnalazioni ed eventi

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Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020, Mario Fresa

 

Che cosa può catalogare un dizionario critico della poesia italiana? Certamente le principali manifestazioni della nostra poesia, nei luoghi e nei tempi in cui essa si è manifestata. Il Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020, edito lo scorso maggio per i tipi della Società Editrice Fiorentina, nasce con l’intento di effettuare un’analisi sistematica della poesia italiana del secondo Novecento, da un archivio del curatore Mario Fresa, schedario costituito da ricerche, recensioni, appunti, saggi, interventi dedicati a moltissimi poeti italiani, in particolare a voci immeritatamente dimenticate o trascurate dalle antologie più note e diffuse. Si tratta di un’opera ambiziosa, coraggiosa e di ampio respiro, teniamo conto che il Novecento presenta un panorama ricco, variegato, fluido e inesauribile, che offre sempre l’esca per le polemiche, perché qualsiasi campionatura non risulterebbe mai esaustiva e completa, del resto redarre un dizionario così come un’antologia non significa compiere una selezione in base all’eccellenza estetica. Quella proposta da Fresa e dai collaboratori che hanno partecipato alla stesura degli interventi critici è solo una prospettiva di indicizzazione e di storicizzazione. Il Dizionario critico vuole essere, infatti, uno strumento di ricerca, consultazione e approfondimento sulle figure, sulle opere e sulle correnti più significative della poesia italiana contemporanea, a partire dal 1945 fino ai nostri giorni.

Qualche dato più preciso. L’opera, rivolta a studenti, a specialisti, a cultori della poesia, ma anche al lettore medio, contiene duecentocinquanta schede redatte da cinquantatrè redattori compreso lo stesso Fresa. Non è un’antologia nonostante compaiano molte citazioni di versi e non è un repertorio bibliografico nonostante siano menzionate le più significative opere in poesia e in prosa degli autori trattati. Nella Premessa dello stesso Fresa è specificato che il Dizionario prende avvio dal 1945 con l’inclusione dei poeti che abbiano esordito ufficialmente in volume a partire da quella data. Il curatore è consapevole che “ogni selezione implica, di per sé, una forzata, inevitabile componente di arbitrarietà” e che la campionatura dedicata alle nuove generazioni, poeti nati fino al 1979, è ancora parziale e provvisoria. I commenti critici mirano a offrire i dati necessari alla comprensione: dati biografici e bibliografici dei poeti, riferimenti intertestuali esterni (fonti) e interni (temi, motivi, figure, scelte stilistiche all’interno dell’opera del poeta), citazioni dei testi ma anche valutazione, commento, interpretazione di poetica, stile, opere. Ai collaboratori inoltre si è lasciata la libertà di scegliere autori e testi per empatia, affinità culturali, estetiche, stilistiche.

Un Dizionario di poeti, mappati regione per regione, presuppone un amore forte e incondizionato per la ricerca, la lettura, l’analisi, lo studio, la documentazione della poesia, talvolta di testi di autori poco conosciuti ma non di minor valore. La realtà geografica trattata è la nostra nazione con ricorrenze più numerose per Lombardia (43 poeti), Lazio (33), Campania (28), Emilia Romagna (27) e a seguire tutte le altre.

Non è presente un indice degli autori trattati ma, armandomi di certosina pazienza, ho annotato nomi noti e meno noti, sorprendendomi talvolta, della mancata trattazione di qualche grande autore. Ma ripeto, le opere di questo tipo, in nessun caso riuscirebbero a evitare omissioni anche perché il mondo poetico è un territorio magmatico, in perenne dinamismo, che prevede improvvise emersioni e sparizioni. Non va dimenticata la specificazione essenziale evidente nel titolo stesso: dizionario critico, non storico. Ho colto, in alcuni casi, brevi menzioni e, in altri, trattazioni articolate e molto dettagliate, ma questa disparità è dovuta al fatto che le analisi critiche sono state redatte da una pluralità di critici, non certo alla validità o meno della voce poetica trattata. Un’ultima considerazione prima di concludere quest’intervento, su duecentocinquanta schede solo cinquantasei sono dedicate a figure femminili. Da questo emerge il mio augurio alle future compilazioni di dizionari e antologie affinchè possano superare davvero limiti e assenze secolari e ingiustificate: approfondire e divulgare maggiormente la conoscenza della produzione letteraria femminile, sempre più notevole e degna di nota, attraverso la trattazione di autrici validissime che abbiano manifestato itinerari profondi di ricerca e di riflessione.

Deborah Mega

*

Segue l’elenco dei collaboratori: Alberto Bertoni, Andrea Caterini, Barbara Pietroni, Carlo Cipparrone, Cecilia Bello Minciacchi, Daniele Maria Pegorari, Daniele Santoro, Davide Morganti, Davide Rondoni, Diego Conticello, Domenico Cipriano, Emilio Risso, Enzo Rega, Eugenio Lucrezi, Francesco Iannone, Franco Bruno Vitolo, Franco Dionesalvi, Gabriela Fantato, Giancarlo Alfano, Gianluca D’Andrea, Gianni Turchetta, Giovanni Perrini, Giuseppe Manitta, Giuseppe Marchetti, Grazia Fresu, Ivano Mugnaini, Laura Garavaglia, Luigi Cannillo, Luigi Carotenuto, Luigi Fontanella, Marco Corsi, Maria Borio, Mary Barbara Tolusso, Mario Fresa, Massimiliano Manganelli, Matteo Bianchi, Matteo Zattoni, Maurizio Cucchi, Maurizio Spatola, Michele Paoletti, Monia Gaita, Monica Venturini, Plinio Perilli, Roberto Maggiani, Rosa Elisa Giangoia, Rosa Pierno, Sandro Montalto, Sebastiano Aglieco, Simone Zanin, Tiziano Rossi, Tiziano Salari, Ugo Piscopo, Vincenzo Ostuni.

Gli autori trattati sono: Accrocca E.F., Aglieco S., Agustoni N., Alaimo F., Alborghetti F., Amendolara M., Anedda A., Annino C., Artoni G.C., Azzola C., Bacchini P.L., Bagnoli C., Bàino M., Baldassari T., Baldini R., Balestrini N., Bandini F., Bàrberi Squarotti G., Baroni G., Bassani G., Bellezza D., Bellintani U., Bemporad G., Benedetti M., Bergamini G., Berti L., Bertoldo R., Bettarini M., Biagini E., Bisutti D., Blotto A., Bodini V., Bonacini G., Brandolini d’Adda, Bregoli F., Bruck E., Bufalino G., Buffoni F., Cacciatore E., Cagnone N., Calandrone M.G., Caldelli A.P., Camon F., Campo C., Canali L., Candiani C.L., Cannillo L., Cantarutti L., Canzian A., Capasso F., Cappello P., Cara D., Caratti S., Cascella Luciani A., Catà A., Cattafi B., Cavalli E., Cavalli P., Cavallo F., Ceccarini R., Ceni A., Cepollaro B., Ceronetti G., Cerrai G., Cesarano G., Ciabatti G., Ciancio M.P., Cini M., Cipparrone C., Cipriano D., Conte B., Conte G., Corbo P., Coviello M., Cucchi M., Dal Bianco S., D’Andrea G., D’Angelo E., De Angelis M., De Lea E., D’Elia G., Dell’Arco M., De Luca R., De Palchi A.,  De Signoribus E., De Vita N., Di Fusco G., Di Maro V., Di Natale S., Di Pietro B., Di Spigno S., Dolci D., Donini P., Doplicher F., Drudi G., Erba L., Faggi V., Fantato G., Fasano A., Ferrari I., Ferraris A., Ferri G., Finiguerra A., Fiore E., Fontana G., Fontanella L., Fortini F., Frabotta B., Frasca G., Frezza L., Furia M., Gaita M., Garavaglia L., Germani M., Giovenale M., Giudici G., Giuliani A., Guglielmin S., Guidacci M., Insana J., Isella G., Kemeny T., Krauspenhaar F., Lamarque V., Lambertini S., Landolfi T., Leronni G., Leto G., Loi F., Lolini A., Lucrezi E., Lunetta M., Macciò F., Maconi M., Maffeo P., Maggiani R., Magrelli V.,  Majorino G.,  Maleti G., Malfaiera A., Manzoni G. R., Marelli P., Maroccolo A.N., Martini S., Massari S., Mauro C., Menicanti D., Merini A., Mesa G., Minore R., Moccia F., Moio G., Molinari M., Monreale D., Montalto S., Morante E., Mugnaini I., Munaro M., Mussapi R., Mussio M., Neri G., Nessi A., Niccolai G., Nunziata N., Ortese A.M., Osti F., Ostuni V., Ottieri O., Ottonieri T., Pacilio R., Pagliarani E., Pagnanelli R., Parri M.G., Pellegatta A., Pennati C., Perilli P., Piazza R., Piccoli G., Piccolo di Calanovella, Piemontese F., Pierno R., Pierro A., Piersanti U., Pontiggia G., Porta A., Prestinoni G., Pusterla F., Quadrelli R., Quintavalla M.P., Raboni G., Ramella Bagneri G., Raos A., Ravizza F., Rea D., Rega E., Rentocchini E., Riccardi A., Ricciardi J., Ripellino A.M., Ritrovato S., Rivera F., Riviello V., Rondoni D., Rosselli A., Rossi T., Ruffilli P., Ruggeri C., Saffaro L., Salari T., Salvaneschi E., Salvia B., Sanguineti E., Santagostini M., Santoro D., Scandurra A., Scialoja T., Scotellaro R., Serricchio C., Sica G., Sicari G., Sissa G., Socrate M., Sollazzo L.,  Spagnuolo A., Spatola A., Spaziani M.L., Tavan F., Testori G., Teti R., Tolusso M.B., Toni A., Travi I., Trucillo A., Trucillo L., Turoldo D.M., Urraro  R., Vaccaro A., Valduga P., Vallerugo I., Vetromile G., Villa C., Villalta G.M., Violante S., Vit G., Viviani C., Voce L., Volponi P., Zanzotto A., Zeichen V., Zinetti L., Zinna L., Zizzi M., Zuccato E.

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Alessandro Trasciatti, “Acrobazie”, Il ramo e la foglia Edizioni, 2021.

28 lunedì Giu 2021

Posted by Deborah Mega in I nostri racconti, LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Tag

Acrobazie, Alessandro Trasciatti

 

Le brevi storie di questa raccolta sono spiazzanti racconti del quotidiano, miniature curiose e circonvoluzioni della mente. Con abilità funambolica Alessandro Trasciatti scatta istantanee a partire da intuizioni e stravaganze, indaga le svirgolature dalla normalità, ritrae situazioni al limite del paradosso in cui convivono ironia e humor nero, erudizione ed esigenze corporali, aspirazioni letterarie di giovani bohémien e assurdi dialoghi con la mobilia della giungla casalinga.
I personaggi di Acrobazie si muovono trasognati e in precario equilibrio sulla soglia del verosimile, cercano un senso che dia forma al vuoto, «un punto fermo da cui ripartire».
Nella variopinta rassegna di sogni, amori giovanili e fantabiografie, si avvicendano affetti asinini, matrimoni unilaterali, violinisti sordomuti e inferni da Commedia.
Colpiscono i toni teneri e buffi e la scrittura tersa: con queste polaroid del possibile, Trasciatti propone l’autoironia come soluzione di fronte all’incomprensibile e le fantasticherie del passato come rifugio dal mondo. Acrobazie esplora i pertugi tra veglia e sonno, attraverso carambole stilistiche che fluiscono lievi e lasciano spazio al tepore di un sorriso.

*

1
Sterilmente ricerco da anni il mio luogo più integro e segreto, il mio centro nascosto, ma non trovo che angoli parziali e periferici. Del più recondito dei miei spazi ho tentato di parlarti in più d’una veglia, scarsa di luce ma gremita di parole, coi termosifoni spenti e noi avvolti in coperte di lana. Sedevamo sul divano giù al pianterreno. La “stanza del computer” la chiamavamo, perché era lui l’unico inquilino permanente di quelle quattro pareti fredde, dipinte di celeste chiaro. Su un lato una libreria folta di volumi di mio padre: riviste di elettronica, manuali di pedagogia, fotocopie rilegate, confusioni in varie fogge. Nel mezzo una scrivania cosparsa di penne e pennarelli, squadre, righelli, viti e dadi erranti, piccoli ordigni fuori uso in attesa di riparazione. Sulla scrivania il computer, appunto, avvolto in fogli di nylon trasparente a difesa dalla polvere, col suo ronzio insidioso – una volta acceso – e la sua luce raggelante.
Non c’era altro posto nella casa per parlarti. Non di sopra, coi genitori persi in perenni tenzoni da dopocena sull’uso dell’aglio negli intingoli, smodato secondo lui, appena percettibile secondo lei. Non di sopra, con i gatti acciambellati ovunque, i fratelli pacifisti in corteo contro la guerra, le sorelle aspiranti veline a controllare i fianchi negli specchi.
Non di sopra, nella mia camera che non avevi mai amato, piena com’era di cianfrusaglie colorate, ricercate con perversa cura, leziosamente giustapposte con tardivo gusto surrealista per l’inutile. Forse i libri ti piacevano, ma t’impedivo quasi di
toccarli per paura – fondata devo dire – che tu ne scambiassi l’ordine e infrangessi l’equilibrio di quelle teorie coscienziose di Einaudi, Sellerio, Adelphi, Gallimard. Non lo facevi, lo so, per cattiveria e nemmeno per eccessiva sciatteria, ma solo perché non arrivavi al fondo della mia minuzia maniacale e affettuosa al punto che riservavo ai miei volumi l’ultima occhiata prima di dormire. Come spiegarti la voluttà di guardarli e riguardarli, di verificarne le simmetrie, di constatare il loro numero accresciuto? Come farti capire, senza cadere nel ridicolo, il piacere materno di riordinarne le file e di reperire nuovi spazi quando gli scaffali traboccavano?
Non c’era altro angolo per parlarti se non la “stanza del computer”, inaccogliente e sottilmente ostile, ma silenziosa e lontana dai locali più abitati. E poi non era solo più facile chiacchierare senza timore di essere interrotti, potevamo anche leggermente amarci. Con le orecchie tese, è vero, ai rumori di eventuali avvicinamenti, ma in verità i passi erano benevolmente lenti – ovvio che tutti sapessero di noi – ed avevamo sempre il tempo sufficiente per ricomporci. Ci piaceva però pensare di essere davvero esposti alla ronda serale di chiusura delle porte, alle paternali, ai castighi espiatori, desideravamo anacronistiche punizioni corporali che nessuno ci inflisse. Ci piaceva pensarci come frutti proibiti l’uno all’altra, così non arrivammo mai ai limiti d’amore, anche perché era sempre tardi, faceva freddo ed il divano era scomodo. Meglio fermarsi, dunque, e rimandare le effusioni ad altra data.
Non c’era davvero altro anfratto per parlarti del più segreto dei miei luoghi, quello che, malgrado le approssimazioni, non ho mai trovato. Ti parlerò, allora, degli altri piccoli
recessi in cui mi sono rintanato in questi anni.

9
Sulla mia scrivania ho posto un foglio rigido di plastica trasparente per poterci mettere sotto qualche reliquia iconografica in cui specchiarmi ogni volta che mi siedo. Sono immagini di attori, tessere di associazioni, santini e, soprattutto, foto di te, foto di me.
Ero ansioso aspettandoti l’altra sera. Fumavo sigarette, mi sudavano le mani. Un mese era passato senza vedersi. Pensavo già che ti avrei detto: “Scusami se sono agitato, non posso farci niente”. Accesi la TV. Guardai distratto. Spensi.
Mi cosparsi la faccia col dopobarba che mi avevi regalato per Natale: “Dono di fidanzata”, sussurrasti. L’ho sempre usato poco, in verità, sono rimasto attaccato al mio. Non offenderti per questo. Riconosco che il tuo era un’essenza fine, ma sono pigro nelle mie abitudini olfattive. Giravo per la casa. Non arrivavi. Alle sette e mezza avevi detto. Erano quasi le otto.
In cucina mia madre stava terminando di preparare la cena. Non avrei potuto trattenerti a lungo, non avevi mai mangiato qui, nemmeno nei momenti migliori, figuriamoci ora. Finalmente suonasti. Al citofono dissi: “Sei tu?”. Infatti.
Scesi di corsa le scale. Aprii, eri lì e per me fu confusione. Come fosse tutto come prima e niente come prima. Entrasti. Eri di fretta. La tua fretta solita a cui ero affezionato. Mi dicesti di essere in ritardo, di dover fare presto. Non credo che fosse per difenderti dalla mia presenza, no. Eri sempre stata così. Era il tuo lato attivo, questo. Mi parlasti di assemblee, di presidi pacifisti in città (la guerra del Golfo, qui da
noi, era ancora fatta di scontri verbali e servizi televisivi), di sorelle che ti aspettavano, di professori. Volevi salire? Ti sfiorai il braccio in una stretta incerta che avrebbe voluto essere ospitale, affettuosa e riparare l’amore che ti avevo tolto, ma che pure non voleva darti l’impressione di un ripensamento, una stretta lieve che era paura di ferirti ancora e, soprattutto, paura delle tue reazioni, dei tuoi lucidi rimproveri, paura di te. Durò un attimo e ti accompagnai in fretta su in camera. “Ecco il libro”, dissi, “questo è quanto”. Eppure non era vero, non era quanto. Così continuai: “Posso darti qualcuno
dei regali che non ti ho portato per Natale?”. “Così, in fretta e furia?” rispondesti. “No, hai ragione, un’altra volta con più calma”. Mi accorsi di temere un tuo ritorno, sarebbe stato un sollievo consegnarti tutto in quel momento. Avevo paura sul serio. Perché eri bella. Parlavi, parlavi. Non ti sentivo, riuscivo solo a guardarti. Come avevo fatto a lasciarti? Ero stato davvero io? Dal mio reliquario sulla scrivania prendesti alcune foto, non feci in tempo a chiederti quali. Uscisti sempre rivolgendoti a me. Ti replicavo a mezze frasi. Ti domandai qualcosa che non avevo capito. Pensavo alle foto. Erano di certo le mie che ti eri portata dietro. Mi attraversò un filo di compiacimento. Eri già fuori. Faceva freddo. Ti salutai restando sulla porta. Tornai in camera per verificare quali foto avevi scelto per ricordarmi. Non compresi subito quello che vidi. In quella vetrinetta di memorie il volto mancante era il tuo.

 

*

 

ALESSANDRO TRASCIATTI è nato a Lucca nel 1965. Francesista di formazione, ha lavorato prima come archivista e postino, poi come editore dei Libratti, collana di letteratura illustrata nata dal blog Il Trasciatti – lunario inattuale di letteratura e desueta umanità. Tra le sue pubblicazioni troviamo Prose per viaggiatori pendolari (Mobydick 2002), Il dottor Pistelli. Una vita in ritardo (Garfagnana 2013), Avevo costruito un sogno. Storie e fatiche di un postino artista (Ediesse 2014), Scampoli (Oèdipus 2017). Negli anni ha scritto per diverse riviste letterarie e non, tra cui Il Grandevetro, Sinopia, Poesia, Paragone, Gente Viaggi; suoi testi sono apparsi anche su spazi online come La Balena Bianca, Altri Animali, NiedernGasse. Attualmente
collabora con Nuova Tèchne – rivista di bizzarie letterarie e non (Quodlibet).

Hanno detto di lui:
«I modelli di Trasciatti potrebbero essere due autori come Antonio Delfini e Robert Walser, al netto delle distanze; lo fanno pensare la sua misura, la prosa limpida e allegra, la presa soggettiva sulla realtà, e la levità con cui tocca la disperazione facendola subito evaporare.» – Andrea Cirolla, Doppiozero

«A suo modo [Trasciatti] è uno Cheval-Fitzcarraldo.» – Nazareno Giusti, Avvenire

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Zahira Ziello, “Sibilla”, Terra d’ulivi Edizioni, 2021.

15 martedì Giu 2021

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Tag

Sibilla, Zahira Ziello

 

Zingara

Al campo attorno al fuoco piovono foglie.
Mi ha partorita
la zingara del fiume,
è andata via per dell’oro
e un tozzo di pane.
Correva scalza
la zingara ubriaca,
mi ha ripresa
suonando l’armonica,
mi ha seduta sul Golgota,
ora mi guarda pregare.

 

Cielo

Cantando al vento
Intagliatemi la pelle
Avvolgetemi nell’edera
Appendetemi a testa in giù
E lasciatemi morire.

 

2020

Vedo sangue affluire a riempire
le fosse, come a redimere
dalle mancanze.
Per i troppi intrighi
Il sangue è ormai malato
E sibila che per mille secoli almeno
Noi tutti non ci saremo.

 

Sibilla

È sibilla
i satiri che le marciano in testa,
ha la violenza dei padri:
un bastone fra le mani
È blasfema
nonostante faccia l’amore al dio
tutti i giorni
ha l’odore di orchidee morte secoli fa.

 

Rapide

Ero io quella forte fra noi due,
se avessi ceduto
tu saresti rotolata giù
e io per la fretta di rincorrerti
ti avrei preceduta
come a farti da cuscino all’atterraggio.

 

Mondo

Altrove, c’è un pescatore
che annuisce alla luna,
che spacca la bocca
a chi lo guarda.
Altrove, c’è una zingara
che battezza corpi morti
nel Tamigi.
Altrove, c’è un passero
che sputa ai cani
che vogliono mangiarlo.
Altrove, ci si bacia i piedi
per avere equilibrio.
Altrove, si piange
quel che non si ha,
qui si dice solo sì.
Altrove, c’è una donna
che canta alle teste sui piedistalli,
bacia le loro mani mozzate
poi mette le sue dita
nei loro occhi e canta,
canta, che questa sarà la fine.

 

Gioventù

Vi auguro di non nascere
Di ignorare viscere e cordoni
Di seppellire i padri
E di rendere serve le madri
Vi auguro di allontanare le inibizioni del sangue
Il bastone degli antenati
Le catene dei morti
E le tombe di chi crede
Slanciatevi giù
Dove le vene scorrono
E le voci cessano.

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