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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: Canto presente

Canto presente 62: Emilio Paolo Taormina

26 lunedì Feb 2024

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Canto presente, Emilio Paolo Taormina, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

EMILIO PAOLO TAORMINA

 

dal muro che recinge

l’aranceto

pende un frutto

grande come un sole

così alto

che nessuno può

raccogliere

forse non esiste

è il tuo sorriso

*

s’è cancellato il vinile

della tua voce

ho tirato le reti vuote

dalle acque torbide

del tuo silenzio

mordo il grano

della tua assenza

le tue rose mi graffiano

la fronte

seduto davanti al muro

parlo con la mia ombra

dalla finestra il paesaggio

ha un sorriso amaro

all’angolo della bocca

nei miei occhi conservo

la luce dei tuoi occhi

non proverò a fermare

il tuo volo di farfalla

*

amo il tuo profumo di limone fresco

la luce di dattero della tua pelle

i seni che lottano come polene

contro i flutti

quando cammini tra la folla

amo i tuoi primi capelli bianchi

la tua saggezza di donna

la ruga sulla fronte

come una lucertola al sole

amo il tuo nome

e i tesori che si nascondono

negli accenti

amo il ponte che al mattino

mi riporta sempre a te

*

tutta la notte a sfogliare

la rosa dell’insonnia

con il tuo nome sulle labbra

le stelle stanche di vagare

per le colline vanno a bere

un sorso d’acqua

alla fontana della luna

i campanili in dormiveglia

aspettano i tocchi delle tre

i cipressi dritti come sentinelle

davanti alla finestra

le dita dolenti hanno tirato

dalle corde l’ultimo accordo

il silenzio nella stanza

è una mela di coccio

il tuo nome mi trafigge

come uno scroscio di grandine

tu sei più lontana di un astro

vivo della tua eco

mi chiedo se un barlume di me

è ancora nella tua mente

*

ho imparato a parlare

con l’alfabeto degli aranci

ho rubato i colori

all’aurora e al tramonto

per tessere i tessuti dei tuoi abiti

ti ho trovata in un vagito

nei calendari assopiti

della mia anima

sei nata

nella musica di un verso

*

carezzo il volto del vento

perché da qualche parte

ti ha sfiorato

poggio l’orecchio alla sua

bocca se per caso ha

pronunciato “ti amo ”

io sono quello che la notte

non dorme perché ti vedo

nello specchio delle ombre

scrivo una ad una parole

sulle ali di una falena

perché tu le possa leggere

al chiaro di luna

sono quello che viaggia

con una valigia di piume

in cerca del nido

*

i tuoi capelli

erano così neri

che il tuo volto

sembrava quello

di una morta

non mi sono mai

fatto pensieri

di buona

e cattiva strada

eri una falena

cercavi

nell’ombra del vicolo

la luce

morivi come tutti

ogni istante

*

da quando tu sei morta

è sempre verde

l’erba sulla collina

gli agnelli

sono sazi

delle tue preghiere

io non ho più paura

dei fantasmi

cammino braccio

contro braccio

con la morte

come un’amica

la terra in cui

sei sepolta

ha coperto anche me

tu sei tornata bambina

giochi con la sabbia

in giardino

di notte danzi

con i conigli

intorno alla luna piena

*

sono siciliano

le parole che scrivo

sono bagnate

di salmastro

scivolano sulla pelle

delle pagine come pesci

conoscono

il canto delle sirene

gli incantesimi delle stelle

il mio cuore

è circondato dal mare

all’orizzonte vedo itaca

fuggita da un canto di omero

 

Testi di Emilio Paolo Taormina, tratti da “Poesie scritte all’aria aperta”, Giuliano Ladolfi Editore, 2023.

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Canto presente 61: Luca Crastolla

30 giovedì Nov 2023

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

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Canto presente, Luca Crastolla, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Luca Crastolla

Tra Otranto e Torre Sant’Emiliano

il delfino non allestisce ancora segnali
per gli occhi. Canta lontano dal Ciolo
che la falesia aspra tornerà altissima
a fare un fragore, un’estasi bianca
a ventilare sorde farine per ossidare
senza ansie d’abitato. Quanto sciame
di sentieri tenuti in ordine dalla timidezza
della volpe. Un’eternità d’altomare viene
viene e aumenta molte vele sbrigliando
annuncia minute le caviglie nostre
in coda alle colonne ioniche della formica
che ramifica fra pietre infuocate e mirti.
Importa, non importa, chiede udienza ora
superati i villaggi dei balocchi estivi
a pelo d’acqua: la privata arroganza
il pubblico mortaio. Otranto scollacciata
dal plexiglass dei winebar, dai luoghi fritti
dai souvenir internazionali, è ammonita
dalla Torre del Serpe. Sotto Sant’Emiliano
gettasti tu a terra la croce e la schiena
fino alle lacrime ti facesti feto d’argilla
rossa, aridore di stoppia. In alto erano
i fieni folli, la mistica dei rupicoli ossari
l’emporio dei venti turbinoso e verticale

Punta de lu Pepe

e fu sera alla Punta de lu Pepe e fu mattino.
E sulle soglie, alle primizie del sole
un pomario di luce levava dai Balcani.
Passammo le torri e l’arco: gli smerigli
del mare e del tempo. Affiorava litoranea
la preistoria dei fiumi nostri consegnati
al rapimento minerale, una malìa
una ‘fascinatura e per tutta l’aria poteva
oracolare: come farò a diventare antico?
Un sibilo che scavava sindoni e insenature
E tu sai come qui il sedile dello scoglio s’alluna
nel finocchietto di mare, un turbinio cimando

Note:
“come farò a diventare antico?” riprende un verso di Vittorio Bodini

Torre Sant’Emiliano

se mai ti chiedessero di un monachesimo scalzo
di un’anima ciociara, Eman tu di’ che il mattino
altrove trafilato da crini in fibra ottica
e benzodiazepine, porta nella bocca
qui torre Sant’Emiliano e cola l’oro d’oriente
sulle nostre schiene finalmente medioevali
Dì che a settembre finalmente si è smesso
di lavare i piedi alle orde dei miscredenti
Dì bene che qui, in aprile, il verde libellula in azzurri
quasi che gli speroni non siano litiche ire
geologiche ma docili pettini venuti dall’Irlanda
del nostro sonno adagiato sull’osso della terra.
Dì che qui l’Idrusa si lancia sul petto nostro
con traiettorie sfiocinate di falco che toglie
il fiato e lo aumenta. Alveo di vita, anemone a cui
ci leghiamo stringendo il cuoio ai calzari del cielo
e rovistandolo non cerchiamo annunci. Come biade
ci muove solo un arioso presentimento e il pane
di ieri lo finiamo a morsi di fame più simile alla fortuna
Per darci all’origine. Per disarginarci

Torre Minervino

nel mese di marzo l’alisso di Leuca
incanta le creste iliache delle mantagnate
con molti dardi di giallo rarissimo.
Ma siamo a settembre e più sottovoce
detta per salmi il vasto poema subacqueo
di una pianura, un lucore che annega
nel cuore fauno degli aedi. Mandrie di genti
senza aldilà l’hanno transumata iscrivendosi
alla pietra tarlata con figure elementari
del tempo e indecifrabile lusso di segni
Come a Porto Badisco e fino alle antiche
dolcezze dello scoglio di Capraia. L’alisso
affida l’organo vitale delle remote sponde
un dio silente che solo guardando ci giudica
ancora capaci di erigere piccoli altari
di massi. Ancora nativi, avventori della lentezza
Un nettare d’aria senza stradari

Note:
Alisso di Leuca: si tratta di una pianta rupicola costiera che in Italia è presente solo sulle coste del Salento meridionale, dove si colloca il suo areale principale, e nelle Isole Tremiti, a San Nicola e Capraia.
È una specie antichissima ma in via di estinzione e racconta di quando una paleocosta univa il Salento alle Isole Tremiti dando origine a un’estesa pianura.

Mantagnate: strutture di pietra montate a secco per porre al riparo gli alberi esposti al vento o creare zone d’ombra. Sono molto frequenti nei terrazzamenti che nel capo di Leuca degradano in mare. La parola deriva dal salentino mantagnu: manto, riparo, ma ha una greca: mantoanèmi, riparo dal vento

Santa Maria di Leuca

Lèviche, Leuca, τα Λευκά
De Finibus Terrae. Ammettiamo
però solo lucori, luccicori, lumi
luminarie e bagliori
biancori, brilii e allucciolamenti.
Veemenze di luce solo per tornare
a Tiresia o al dominio del giglio di mare
o agli avvisi lontani di un arrotino, orafo dell’alba

Composto l’areale cinguettiamo i rapimenti
i terrazzamenti, le ripidezze, l’eterno languore
i piccoli fuochi con cui andiamo ravvivando.
Annotai che il nostro petto era una pagghiara a Novaglie
L’ho poi ripetuto per cadere in ginocchio, per cascare
in una spoglia di lupino dalle millanterie della grazia

Note:
Lèviche: è il nome da Maria di Leuca in salentino
Pagghiara: costruzione rurale realizzata con la tecnica del muro a secco tipica del Salento.
Si tratta di edifici simili ai più famosi trulli, ma a forma di tronco di cono, con pianta circolare o quadrangolari. Le costruzioni presentano di norma un’unica camera senza finestre verso l’esterno. Hanno un notevole spessore, che assicura un ambiente interno fresco anche nei mesi più caldi. Tipicamente venivano utilizzate come riparo momentaneo o deposito (il nome li fa ritenere originariamente depositi di paglia), ma di fatto sono stati utilizzati per gli usi più diversi, non ultimo come abitazione dei contadini durante il periodo estivo, allorché essi si trasferivano dal centro abitato per ottemperare ai lavori campestri dall’alba al tramonto

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Canto presente 60: Lara Pagani

15 giovedì Giu 2023

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

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Canto presente, Lara Pagani, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Lara Pagani

un prologo

Come batte, fiacca, la distanza.
Mando i suoi anni a memoria,
luce li dicono e sono notte:
una catena di ossa malandate,
mai spezzate, soltanto corrotte.
Li ripasso dal cuore alle vene,
gli anni luce dell’infiorescenza;
è proprio nella cruda assenza
che traspare come ti avvicini
e si spoglia la trama della storia.
*
Vuotare una lavastoviglie che fischia
dimenticata in cucina, stendere in furia
una lavatrice, lavare di getto una tazza
per l’ennesimo caffè senza zucchero —
le mani mi occorrono affaccendate,
le piante formicolano, i capelli cadono
sulla parte sbagliata del viso.

Penso un’altra: dovrò scoprire quale
delle tante nuove, ricominciare.
Come brulicano, come premono
sotto la pelle le parole non scritte.
*
Francesca, stamattina mi ha destato
una punta di diamante posata in alto
a destra sulla fronte che ora sfolgora

e debolmente duole. Attendo
la tua ultima missiva. Nel bicchiere
dal vetro che risaliva ho versato lacrime
e diciassette gocce di Novalgina.
*
Sentirmi dire che sono malata,
che a volte il mio cervello non funziona
chiuso in cantina a quadrupla mandata
da visioni che nessuno perdona

è storia vecchia, è storia collaudata —
non fosse che ha stancato. Sono buona
da buttare? Non credo. Sono nata
per amarti e smentirti di persona.

Nel mio secondo mondo, come tu
lo chiami passo il tempo a farmi male
ma quello che non vedi, non ancora

è che nessuna tristezza finora
è stata la tormenta del finale.
Sono al sicuro — non salvarmi più.
*
Ogni tanto io ti piango
come si piangono i morti.
Ritento il conto dei torti
fatti e subìti, rimango indecisa
ma rivango, piango in flutti
di mare, a fiotti mi frango –

ma sono momenti anche i lutti
se riguardano te.

Sempre risalgo la riva –
m’accorgo del cielo, i gabbiani
stridenti che odiavi radenti l’orlo
dell’onda, il tuffo della testa
loro spietato e fulmineo –

e m’accordo con me stessa –
ritorno a parlare coi vivi.
*
se non m’amerai più

annuserò quando passo di lì
la corteccia del nostro albero in fasce.
Dove tu piantasti radici io pianto
non verso ma penso: ombra avrò
quanto basta, un posto in cui riposare
per tutta la vita che splende di fronte.
*
se per un giorno nella vita

qualcuno al posto mio, delle mie dita,
agli amati nel tempo riscrivesse
il tonfo della rabbia dentro al pugno
pesante dell’affetto… se potesse
con frasi a effetto ma senza mentire

rammendare gli strappi — come un ago
sutura lembi e stracci, come un medico
o una sarta capace — rammentare
che pur essendo atroce sono stata,
rimasta, ho solamente ingarbugliato
tono di voce e sbagliato parole.

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Canto presente 59: Francesca Tuscano

13 giovedì Ott 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

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Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Francesca Tuscano

Poesie per Agostino

Anche l’amore ha un peso, il
Giusto peso che diventa ombra
Opposta all’assenza di luce. E
Se guardi tra il ramo,
Tutto si fa frammento,
Indispensabile al tutto.
Non si dice la bellezza,
O non è più. Così è per l’amore.

§§§

Ballata della luna nuova

Lei non ricordava più le attese,
il respiro immobile di chi attende la pioggia.

Lui aveva occhi dolci come lo stagno,
le aiuole dei tulipani e la panchina degli errori.

Lei aveva perso lo scialle nero,
e i fiori che nessuno le aveva colto.

Lui fumava per dimenticare
l’ultima sigaretta di una memoria non sua.

Lei guardava il muro rosso
e il soldato con il falcone al braccio.

Lui si innamorava, e ascoltava
musica che nessuno aveva scritto.

La luna li accompagnava
dal lato sbagliato, e il destino ne rideva.

(Sempre ne ride il destino
dei calcoli dell’ombra che si pretende luce)

Ma lei lo vide, quando il tempo
la obbligò a seguire la strada che lui aveva fatto

anche per lei, quando lei non era
che una distrazione legata a un filo di nulla.

La luna li accompagnò dal lato giusto,
e nello stagno il frammento di luce sorrise –

questo è un fatto, e niente è più tenace di un fatto.
Amarsi fu, poi, come sorridere all’ombra che precede la vita.

§§§

Ballatina dell’ombra e del piombo

L’ombra che ci precede è il primo segno,
perché è l’ultimo – gli disse, e gli toccò il volto.

Essere della felicità del piombo,
che non può che cadere diritto

perché attratto dalla perfezione
che costringe a terra, nella forma della radice.

Ti amo – le disse – e la guardò
come chi ha l’ombra in sé e ne sorride.

Lei si piegò, consentì all’ombra
di entrare in lei prima di esprimerla,

e ricordò la forma del piombo
nel bicchiere del tempo.

L’innocenza mi ha portata a te – gli disse
– la tua innocenza, e la tua bocca.

Lui le sorrise come chi non ha mai saputo
e dunque sa. E lei seppe – che non avrebbe mai più

avuto un dio che non avesse le mani di lui.

§§§

La tua bocca sul mio seno tagliato.

(Niente come la luna divisa
sa dei nostri respiri.)

La tua bocca, e la mia,
e i sessi, le mani,
gli occhi. E la grazia
del dolore confuso alla parola
non detta dello stupore
chiamato piacere.

Molte cose hanno un inizio
che ne garantisce l’esistere.

Ma le tue mani tra le mie gambe ruvide
disconoscono il tempo,
che ha in odio
il mio sonno tra le tue braccia.

Il disegno blu del sogno
vive nell’acqua che mi offri.

Nel tuo sesso che è mio
è la ragione della sua esistenza.

(Niente come una stella
conosce il peso della morte,
e di questo vive)

Amore, finalmente sono cosa
senza essere nome.

E le tue mani
mi custodiscono,
come la parola necessaria
e perciò taciuta.

§§§

Ballata a forma di tango, al contrario

La tua mano che mi stringe il polso, senza farmi male,
e io che ti guardo, ancora pezzo di luna mancante,
mentre il mio corpo aspetta il tuo giudizio.

Le mani misurano l’attesa, sui fianchi;
la pelle giustifica il sorriso del ritorno,
e le bocche si attendono al limite, succhiandolo.

Il mio doppio ti offre la schiena come un respiro,
e tu lo prendi piano, per non svegliarmi,
per non dirmi della solitudine dell’ultimo passo
tra le gambe che s’intrecciano nelle pause mute.

Ti avessi amato al tempo del sorriso,
ancora nuova per un corpo non mio,
ancora certa della grazia della mano sul seno.

Mi avessi amata al tempo del ritmo che ora so
e non sapevo, prima di essere uno sguardo
chiuso contro la tua pelle e la mia tristezza.

Ma ora so, e la parola si chiude sul ventre non più sterile,
che attende la tua mano che mi stringe il polso,
mentre io ti guardo nella luna della fuga
per tornare, sempre, e ancora, in una libertà priva di scelta.

§§§

Non c’è altro
che questo sole indecente
su una piana di pale senza mulini
e fili elettrici coperti di storni.

Il giudizio preme sulla storia.
Ne fa cumulo di segni senza codice.

E io penso al tuo sesso
e alla mia bocca.

E il resto, tutto il resto,
è bestemmia.

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Canto presente 58: Cristina Simoncini

20 martedì Set 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

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Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Cristina Simoncini

quando mi osservo da lontano
cercando tracce di un piano nel mio tempo
non vedo un essere compiuto
gli incastri assennati di una vita
piuttosto i pezzi sparsi, il corso sordo delle cose
non una trama ma un vasto repertorio
di me mai state fino in fondo, una babele
di disperse – ognuna intenta a far mondo,
a recitare da sola la sua parte

*
mia madre non è morta in una volta sola
non l’ha spenta un ultimo fatidico respiro
come succede al resto della gente
se n’è andata con calma cominciando dai piedi
che si son fatti duri e gelidi come nelle statue
interrompendo il transito dei passi
poi è toccato al marmo delle braccia
arreso in una croce sul torace
che a fatica sotto quel peso si sollevava
gli occhi impauriti sono rientrati
nell’abisso insondabile dell’interiore
l'ultimo è stato il naso scolorito
che sventolava a mezz’asta in segno di commiato
quel poco di lei che rimaneva
stava intanato nel muscolo cardiaco
diffondeva nell’aria piccole pulsazioni
un alfabeto Morse con cui esortava
le persone amate, Su, fate presto, salutate!

*
giorni severi, eravamo assediati
da sconfitte, eppure proiettavi un sorriso
che avremmo cercato invano sulla bocca:
si riversava da uno scatto – una frattura,
lasciando una coda di luce nella stanza

*
negli occhi di mia madre a giorni
brillava una luce inviolabile
c’è sempre un segreto negli altri
una maniera di mancare
la vedevo affacciarsi a una finestra
e con un tintinnio innocente di parole
scivolare fuori dal suo vero
allontanare il grido dalla bocca

*

lo spazio intorno a te un colmo
ogni punto pervaso di prodigio
e piedi in fila, uno dopo l’altro
un’invasione – l’attrazione esercitata
dal mutare di colpo degli sguardi
quotidiano animato qui e ora

spiava taciturna in controluce
gli occhi puntati sulla filigrana
soffriva del filamento lucente
latenza del vero che in te affiorava
saldatura dietro la trasparenza
sapeva bene che non era sua

*
se non abitavate nella casa
accadeva qualcosa – ogni stanza
restava solidale col suo volto
in quel vuoto la vitalità si attardava
risaliva piano le pareti
piccoli angeli ammassati sulle
mensole cadendo nella memoria
seminavano colori, il tempo stava
nascosto negli armadi, nell’ottusa
misericordia dei vestiti

non è vero che una vita
è una volta sola, una volta
è l’avvertimento del destino

*
adesso prova a immaginare
la bambina che vola
sulla discesa scardinata
niente appigli
la bici senza freni
apre i piedini come ali
su un turbine di sassi
è leggera dentro la paura,
veloce – non ha tenuta
non c’è memoria di vita
che si oppone, il sole
la segue da dietro
prima di sparire

non saprei come chiamare
l’istante in cui la testa
si rapprende in un’ipotesi
di morte – la periferia
inclina verso il niente
fa buio tra gli alberi
educati nei giardini –
se avrai fortuna
dal muro sbucheranno
braccia rampicanti
sarà uno sconosciuto
a rinnovarti il giorno.

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Canto presente 57: Isacco Turina

12 lunedì Set 2022

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Canto presente, Isacco Turina, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

ISACCO TURINA

Tre d’amore

Dimmi il fiore che porti nello stomaco

che porti nella mente.

Fiore scuro di paura

fiore giallo dello sforzo

fiore bianco dell’attesa.

Dimmi l’insetto che ti ronza intorno

la cicala che stride nell’orecchio

la sapienza del ragno che ti abita.

La forma che tu vedi è una follia:

sotto la giusta ombra intimamente

si muovono i giardini inconsapevoli.

Continua a leggere →

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Canto presente 56: Giorgia Deidda

06 martedì Set 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

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Canto presente, Giorgia Deidda, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Giorgia Deidda

Ti sogno con le labbra rosso sangue,
ti sogno assorto nella pioggia.
Il volto livido, benefattore del cielo;
piango carnalmente il figlio perduto,
mi lascia spazio la voracità della luce;
sembra inghiottirmi in una cernita di gole.
Hai le mani bianco latte, screziate dalle gocce di sale.
Verrei a rompere la stasi che ti socchiude
ma non mi è concesso entrare nel mondo dei morti.
Abbiamo bocche terribili e un fagocito di cellule che respirano;
siamo vita mangiata dai cani e siamo affamati.
Deglutisco un cucchiaio di dolore –
lo combino con dell’acqua per mandarlo giù.
È la medicina, presa puntualmente, che regola i ritmi del cuore.
L’aculeo velenoso si conficca tra la mano e la piaga;
non sento niente.
E rimango sola dietro la finestra,
a guardare il tempo soccombere sulla lettiga di velluto,
lo guardo perire e cementare.
I cuscini si sono strappati,
non c’è più posto per riposare –
mi socchiudo il corpo in un ecometro compatto.
E non c’è ginocchio che tenga;
l’osso si distanzia e si deforma, crepa di venature violacee.
Come puntine nella notte accendo il lumicino
che rischiara la stanza;
è l’ombra che mi fa paura, mi terrorizza a tal punto
da farmi smettere di mordicchiare.
La testa del morto è grigia;
si muove a ritmi lenti e mi guarda dormire.
L’entrata della grotta è cavernosa –
tu mi dicesti: “guarda, sembra che il soffitto venga giù”.
Si squarciava il lembo per soverchiare il mare;
una traccia d’azzurro che pareva dire:
“io esisto”.

L’assenza si fa preghiera lontana.
Rannicchiata nel letto, a guardare le incrostazioni del soffitto,
io rivolgo gli occhi lontano,
li rivolgo alla tua mano,
caduca speranza che si fa rantolo di neonato.
Se per esempio tu dovessi esistere,
io annullerei la mia presenza in un turbinìo di vento,
ché non sarei più una cosa compatta,
ma un animale dilaniato dalle carni, senza occhi.
Le ossa bruciano e si spezzano,
ma le mani congiunte deviano la lontananza
in uno spergiuro di colpa.
Quando la notte dormo,
sento il tuo fiato sul collo, il caldo che mi alita vita,
e non sono più un essere dimenticato.
A volte si fa sangue il ricordo,
cola sui cuscini biancastri,
cola dal comodino dove posano gli orecchini.
E il rossetto copre il balbettìo stentato,
la smorfia che fa la mia bocca quando sorrido.
Non dimentico la tua voce;
una raucedine che si faceva poesia,
la mano attenta a sfogliare i libri danneggiati.
E crollo sotto terra,
dentro i vini dolciastri,
tremo il mio ventre in uno spasmo
che si fa colla
un’attaccatura per le cose che penzolano,
per l’afflitto e il ferito,
per il solo e la solitudine.
E urlo in un grido che il mare
Tossisce e trema.

Cammino con i sassi nella pancia;
l’osso sbuca dalle costole,
il cibo che non ho ingurgitato.
Si frappone la pioggia caduca tra la mia mano
E quella dell’altro –
È il verde rigolo che scende nei tombini fognari.
Si chiede qualche minuto in più per parlare,
ma la giornata è occupata come uno stendardo militare.
Le luminose fisse, dalla mia camera sono tutte cascate a terra –
È il segno che l’infanzia è stata recisa,
come coi tronchi degli alberi verdi.
Casa mia è lontana, si è fatta
Puntino di luce bucherellato da cui si intravede,
fioca, la luce delle candele.
Il cielo del terrazzo è diventato un piombo allargato,
pesante e plumbeo.
I tricicli arrugginiti sono sempre rimasti lì.
Ma casa mia non è più casa,
è un luogo sottile di morte,
di cavilli senza senso appiccicati con la ceralacca al frigorifero;
è l’ingordigia che viene bloccata
e al suo posto un passato di verdure,
per entrare nel vestito rosso.
È l’ansia che mozza il respiro,
il litigio nascosto tra le ragnatele ed i cunicoli,
è il cuscino che cola sulle notti d’ipersonnia,
è l’oggetto lanciato sulla fronte,
è ciò che si può dire male in tutte le sue forme.

Scavare l’osso per distogliere la carne;
lo scheletro muto regge il peso della gravità.
Si ascolta fuori come un fruscìo;
sono i monaci che stridono il campanello.
È notte –
Si condensa l’aria in un tono elegiaco,
fanno da coro gli uccelli notturni;
si intravedono solo occhi gialli.
E tira il vento, stira le foglie,
smuove i rami spezzati,
ulula alla luna bulbosa il suo tormento.
Il letto è nido d’api;
ogni notte mi vengono a pungere il cuore
per stillarne miele.
Le lenzuola non sono bianche,
ma di un leggero colore cremisi;
non le cambio da quando sei andato.
La bottiglia di vetro è sul tavolo;
dentro il liquido rosso sangue che cola
dalla saliva fino alla gola,
irretendo i sensi.
Il giorno mi ha sempre disgustata;
un pullulare a frotte di gente dai visi di sifilide,
stanchi e arrabbiati.
I fiori di campo crescono rigogliosi –
Una volta li strappai tutti e li feci cadere sulla tua tomba.
Miagola il gatto in cerca di cibo;
si acciambella sulle caviglie e guarda dicendo:
“sono qui”.

Aspro è il giorno per chi non ha dormito;
si contano le ore lentamente,
sgocciola il minuto sulla fronte,
una bomba ad orologeria –
un tessuto fine.
Si squarcia il cielo da cui sbucano i raggi timidi;
la morte è sorella e amante,
si fa astro nascente quando le cose smettono di respirare,
buca l’inchiostro la luce, i vescovadi cuciono e sfibrano le fila, si affannano i bambini verso il campo.
Nella luna io cerco la tua ombra;
mi è amaro il sapore che mi hai lasciato sulle labbra –
filano dritti i capelli come aghi d’ebano,
compatti.
La malattia sfebbra come neve al sole,
fioriscono i campi dimenticati,
si celebrano le feste pagane ballando
e bagnandosi la fronte benedetta.
L’amore è la culla dentro cui nasce la rosa,
la pietanza assaggiata con palato dolce,
il sorriso inasprito dai nervi contriti,
le mani che faticano il lavoro.
Coltivo piccole manie come neonati impudenti,
le vedo strillare e contorcersi come aborti,
una non essenza del tempo,
una noesi tra paradiso e inferno.
Fratello che non vedi,
ci sono albe misteriose dietro la tua tenda,
ci sono forbici tagliate sulla pelle,
ci sono occhi amari che contemplano l’assenza.
Sorella che piangi,
non vedi come le vesti silenziose ti calzano addosso,
non vedi come ti sei ridotta all’osso?
La tetra salma risponde dalla terra,
ci indica la via verso l’infinito.
E noi corriamo, ignari, sul prato ormeggiato,
calpestando le impronte di quelli che furono,
e che ci osservano dall’alto.
Mi senti forse? Sei sperduto nella notte,
ignaro del fantasma che regnava nella casa.
Io ti chiamo ogni giorno, sussurro il tuo nome al soffitto, in silenzio.
E giuro d’averti sentito in un sogno –
Parlavi al mio orecchio cose indicibili.
E mi sembra d’averti perso nuovamente,
nel grido onirico che resta muto.
Come curare i pensieri ossessivi

Sganciare ad una ad una
Le macchie di muschio
Abbarbicate sui fili nervosi.
Staccarli con cura come si fa con
Le pulci, un animale da compagnia.
Slegare la loro saliva smacchiata su tutti i cordoni e le cellule,
sventrare il nucleo che le tiene incollate
alla corteccia prefrontale.
Badate, non sarà semplice aprire un cranio;
le ossa si tritureranno e scalceranno come bambini capricciosi,
opponendo resistenza.
Ma voi bucherellate ciò che rimane e filtrate
Capienza e lama da taglio.
Tutte le macchie devono essere lavate via,
con un po’ di candeggina i tessuti non ne risentiranno.
L’importante è sgretolare le zampine che trasmettono le stesse immagini,
ore ed ore al giorno.
Disinnescare l’attimo in cui c’è pausa,
pinzare per bene il malfattore e tirare via.
Potrebbe essere necessario un batuffolo,
per tamponare lo zampillo.
Dopo aver rimosso tutte le macchie di muschio,
aver cura di accarezzare le parti lese
e chiedere scusa.
Dopodiché richiudere il cranio,
e godere di tutti i momenti,
la felicità.

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Canto presente 55: Francesco Palmieri

21 lunedì Feb 2022

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Tag

Canto presente, Francesco Palmieri, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Francesco Palmieri

 

Da “Studi lirici (solo parole d’amore)” edizioni La Vita Felice, ottobre 2012

 

QUANDO TI TROVERO’

 

quando ti troverò amore

tu non volterai lo sguardo

da un’altra parte

 

quando ti troverò

tu non mi lascerai solo

nella strada

né ti nasconderai più

perché io ti rincorra

con troppo fiato nella gola

 

quando ti troverò amore

tu non avrai un segreto

da nascondere,

tu non avrai segreti

 

quando ti troverò

tu non giocherai

al gatto e al topo

e non sarai tu il gatto

non sarò io il topo

 

quando ti troverò amore

sarà una giornata d’estate

e ci saranno i fiori nei giardini,

il vento profumerà di rose

e brillerà il sole

negli occhi tuoi d’estate

e di fiori

 

quando ti troverò amore

tu mi chiamerai per nome

ed io ti chiamerò per nome

 

e per tutto il giorno

noi non ci lasceremo mai

noi non ci lasceremo più.

 

 

[ED ORA]

 

ed ora

che mi hai dannato al gelo,

posso stare qui o altrove

sopra o sottoterra,

al centro della stanza

o lungo cento strade,

 

posso respirare

o tapparmi naso e bocca,

uscire se c’è il sole

o buttare via la chiave,

 

posso apparecchiare

o guardare com’è profondo un piatto,

posso sentirmi carne

o solo un po’ di fumo

 

posso coprirmi ancora

o strapparmi anche la pelle,

sentire tutto il tremito

lo scricchiolio del ghiaccio

 

ed ora

che mi hai dannato al gelo,

ho fatto dell’inverno la mia casa,

 

domani in un giardino

io sarò l’albero

e tu la neve.

 

 

Da “Fra improbabile cielo e terra certa” Edizioni Terra d’ulivi, gennaio 2015

 

PASSAGGIO DI CONSEGNE

 

conserva queste mie parole

per quando verrà il tuo inverno

(lo vedrai sui rami

di alberi a fine autunno,

su un’altalena ferma

nei parchi di novembre,

nel freddo sulle mani

e i passeri sul filo

a prendere la neve,

lo sentirai nel ghiaccio

che incrosta a fior di pelle

e non ci sarà più scialle

a trattenere stelle,

non ci sarà più tempo

per altro giro e danza,

e lo saprai per certo

che è solo andata il viaggio

e non c’è freno ai giorni,

non uno che ritorni,

che l’essere felici è stato breve

per noi che siamo ore

ma abbiamo sottopelle

l’impronta dell’eterno),

conserva queste mie parole

per quando verrà il tuo inverno

e un passo dietro l’altro

tu ti farai da parte

a chi chiederà la strada

per le sue gambe forti

per il vento sulle spalle

l’avanzo dei domani

la creta nelle mani

(e non avrà sospetto

che tu hai ancora fame

che spasimo è il suo seno

che aspetti un altro treno

ed è un obbligo di carne

il decreto che tradisce,

un computo di giorni

a fare il vuoto intorno),

non un respiro in più

da questo inverno mio

e neanche una parola

per la consolazione,

sarà solo sapere

che tutto quanto è stato,

 

che sono andato avanti

nel solco di discesa

che fa più estranei i vivi

e meno lontani i morti.

 

 

IL GIOCO DELLA VERITÀ

 

bruciare fino all’ultima scintilla,

questo tocca,

strappare con i denti dalla pelle

la residua piuma che ti resta

 

recidere lo spago ai palloni nella testa,

pungere le bolle per lo scoppio

e sia l’aria e il nulla

l’inconsistente che li tiene

 

domani

al cenno lieve della luce,

riporrò i vestiti sulla porta

e uscirò nudo

al ghiaccio che c’è fuori

 

in cielo

in terra

e dappertutto.

 

Da “Il male nascosto” Edizioni Terra d’ulivi, maggio 2016

 

LA QUINTA STAGIONE

 

ormai non ci credo più, io,

che camminavo con occhi spalancati e luci,

io, che ogni mattina correvo sul balcone

ad aspettare rondini d’aprile

e fiori freschi e nuovi esplosi dentro ai vasi,

 

che a novembre uscivo all’ora dei lampioni

(e piovesse, speravo, quell’acqua venuta da lontano)

e dalle case un chiudersi di porte

le voci dei bambini a chiedere la cena

 

non ci credo più, io,

che ho conosciuto campi a farsi grano

e le cicale pigre nei pomeriggi lunghi

papaveri, rosso e ulivi

e poi l’ottobre e l’uva,

le giacche più pesanti

riprese dagli armadi

 

erano gli anni del rosario a maggio,

del pane segnato dalla croce,

di Cristo che moriva verso sera

e alla domenica campane e voli a riportarlo in vita

(ed era festa nei vestiti nuovi,

nelle cucine accese di mattina presto)

 

era la primavera e poi l’estate,

era l’autunno e poi l’inverno,

era l’attesa certa di un ritorno

e tornavano a novembre anche i morti

quando s’accendevano lumini sotto ai quadri

e si cuoceva il pane con l’uva passa e il vino

 

ormai non ci credo più

e so per certo che nessuno torna

mai niente che ritorni.

 

 

IL MALE NASCOSTO

 

mai ti mostrerò le mie ferite

 

(e il piatto da lavare nel lavello

la polvere che cresce già nell’angolo

il libri aperti e chiusi ad uno ad uno

perché non c’è parola che mi salvi)

 

vedrai con i tuoi occhi il corpo intatto

il nodo fatto bene alla cravatta

il viso che sorride senza barba

ed io che dico in chiaro: tutto bene

 

(e no, tu non saprai

che sotto alla mia giacca

ho sempre una camicia

con uno squarcio netto in mezzo petto).

 

 

Da “Biografie” Edizioni Terra d’ulivi, maggio 2019

 

COME CI SI ACCORGE

 

come ci si accorge

quando l’anima è perduta

e non più ha scosse il sangue

 

e rimane il camminare

dare fuoco al gas

per qualcosa da mangiare

pulire vetri e panni

lavare il pavimento

 

credevi alla scommessa

che dio c’era anche nei sassi

e comunque e in ogni caso

noi si era un po’ speciali

 

(ma non bastò una candela

a fermare il temporale

-fu mia nonna che l’accese

e la posò sul davanzale,

chiamò angeli e beati

martiri e santi in paradiso-

ma venne grandine dal cielo

che spezzò tutte le spighe)

 

si diceva che c’è un fine

al passaggio di noi qui a terra,

che siamo tutti sottopelle

particelle d’universo,

che in fondo al ciclo naturale

cesserà ogni dolore

e senza carne e né più tempo

non avremo noi paura

 

forse l’anima era quella

pensare buone tutte le cose

avere in corpo mille vite

e tu per sempre bella

vaniglia fra i capelli

 

forse l’anima era quella,

quel guardare dietro ai vetri

come scendeva giù la neve

e sentir tremare dentro

quanto bianco, quanto silenzio,

e nessun freddo, neanche un brivido,

 

nemmeno quando senza guanti

prendemmo il ghiaccio fra le mani.

 

 

(A MIA FIGLIA)

 

ricordami come mano

un passo alle spalle

a guardarti il cammino

 

ricordami all’angolo

come una fotografia

tra la mensola e il muro,

come il gattino, l’orsetto,

ora in fondo alla cesta

 

e se ti verrò in mente

qualche giorno o per anni,

tu fammi leggero

scarta errori e dolori

sfoglia il velo di nero

delle colpe a mio nome

poi di quelle accadute

senza averle volute

 

guarda all’attimo puro

quando io padre e tu figlia

stavo avanti nel buio

per le ombre sui muri

l’improvvisa paura

 

e ricordami un breve

ricordami lieve

 

sarò morto due volte

se sarò sulle spalle

un altro peso di croce.

 

 

[IL PASSERO]

 

il passero

preso nella stretta

sembra più domestico

 

mangia

beve

quando è sera dorme

 

solo certe notti

sbatte un po’ le ali

cinguetta dentro al sonno

 

forse sogna.

 

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Canto presente 54: Adriana Gloria Marigo

11 venerdì Feb 2022

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

≈ 1 Commento

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Adriana Gloria Marigo, Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Adriana Gloria Marigo

Poesie scelte    

 

da   Un biancore lontano, LietoColle, 2009

 

*

Tu non hai memoria dell’infinito

al mio sorriderti nella sera d’aprile

alta su Treviso, dopo lo stupore del temporale

che sorprese lo sfarfallio del nostro pensiero.

 

Neppure ricordi la luce intrepida sull’erba

vibrante il fresco dell’acqua generosa,

i petali volati lontani dal fiore,

gli umidi balsami nell’aria, di nuovo azzurra.

 

 

*

Trascorsi stagioni in terra di nessuno –

landa vasta, senza orizzonte

al plausibile, al gioco ermeneutico

o al magico conto che serve

il viaggio fenicio.

 

Il tempo trascorse dalla terra

per verticale di linfe

e nel punto di fuga iniziò – alla prospettiva –

l’evento creatore.

 

 

da   L’essenziale curvatura del cielo, La Vita Felice, 2012

 

*

Attesi l’estate per l’esultanza

della luce, la benedizione

dell’ombra, quando lo zenit

è acceso e tutta l’aria

è ambizione della sera

l’intesa di un intrico

verde pulsato di bianco.

 

Venne invece la distrazione

del prodigio, l’orbita rovesciata

nella gravità dei corpi, l’urto

scomposto alla letizia.

 

 

*

S’inclusero le tue parole

in una perla d’aria

– memoria tenue d’universi –

mentre io sgranavo giorni

nei miei occhi di ninfa

mi feci vertigine d’ala

intesi l’ammanco originale

la tua nascita sotto un graffio di vento.

 

 

da   Senza il mio nome, Campanotto Editore, 2015

 

Amor coeli

Sovrastati dal suono della luce

non ci trattengono basse correnti

dove motteggia sempre vero

il tonfo della specie

bassura transitiva di minimo

non accettabile all’inquieto

malleolo in danza.

 

E s’avvera l’azzurro teso

Stando in maestà la luna

di notte viene un vento raro

ad avvolgersi selvatico

sugli alberi spersi nella brughiera

a sconfinare stelle fino in terra.

 

E s’avvera l’azzurro teso,

la sua pagina infinita.

 

 

 

da   Astro immemore, Prometheus, 2020

 

*

Basterà l’aria levantina

selvatica e scarna di oggi

sull’iperbole stesa del prato

 

il cielo di nubi zoomorfo

a specchiare l’incerta

profusione vegetale

 

imprimere cesura al frusto

mentre ad agresti lunari

ascendono canti alati.

 

 

*

Obbediente alla congiura dei miti celesti

dalle geometrie sassose oltre il lago

irrompe con lama tagliente

il ventoso sterminatore di foglie

piegate alla confisca dei neutrini di luce,

impone tra la dura trama grigia

spore di cielo, notazioni somiglianti

a suoni su pentagramma.

 

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Canto presente 53: Silvana Pasanisi

09 mercoledì Feb 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

≈ 1 Commento

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Canto presente, poesia contemporanea, Silvana Pasanisi

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Silvana Pasanisi

LETTERE DEL DISTURBO

Carissimo amore
figlio di un cane
scendo ora da questo pandemonio
e pensavo di invitarti a leggere qualche rima
quelle storte che non mi mandi più.
Ne ho bisogno
piccolo disturbo solido,
invenzione delle quindici del pomeriggio,
avverto la tua mano esattamente nella sua posa.
Avevi un meccanismo perfetto
conservalo
ne rivedo il ritmo
il ticchettio dell’orologio.
Mio amore d’altre letture
sono la sposa di tutte le tue mani
io
dovresti saperlo,
non ho altro sangue a disposizione
ma qualche immagine si
se vuoi.
Ti ho scritto da dov’ero
ed è qui il punto.
Non c’era arrivo e nessuna partenza,
restavamo attaccati a piccoli fiori botanici
nello stesso posto
confuso
ingrigito da piccoli alveari.
Una lettera non può arrivare cosi.
Ora qui si tratta di partire
da movimento a movimento,
siamo intesi, ci manterremo in piedi con qualche utensile
l’uno con l’altro
un tandem da piccole manifestazioni eroiche.
Ho parlato con gli amici
mi portano alla rotonda
sono cosi perfettamente sincroni.
Tu non hai mai indovinato un accordo
dio quanto eri fuori tono.
La voce però
aveva un’ infinita anima baritonale
diffusa
da Creatore.
Questa è una lettera
si scrive per un motivo,
e io devo riavvolgere un’intera pellicola,
pensa quanto tempo starò muta a riguardare le scene.
Mandami un colore
uno che parta felicemente
senza croci
senza nemmeno la minima alleanza.
Vedrò di farne qualcosa
mi rinvigorisce il pensiero
dare utilità a qualcosa già perfetto
come la somma del viola e del giallo
o il perbene di certe donne
aggraziate
Mi disturba non sentire la tua voce
era nel basso
nella tastiera
nell’orlo del mio vestito
ora è nell’anticamera del mio gelso bianco.
Ora devo andare
scusa la stanchezza
ho usato vigore e pezzi interi di alchimie
devo conservarmi per tutti gli usi
come fai tu.
In calce al foglio trovi tutto
anima
esempio
storia
presupposti
angolazioni.
Ora anche le scarpe mi sembrano appaiate.

IL DISPETTO

Questa va a memoria
per fare dispetto ai morti
va tenuta a mente
va considerata senza discrezione
Se vi pare poi
dimenticatela
o aggiustatela
mentre siete col vostro cane
Vale per tutte quelle trame non scritte
Per tutte le volte che la realtà ha sopraffatto il mezzo
l’unico mezzo che abbiamo
pieno di parole
Per mancanza di inchiostro
Pure
Per arresto cardiaco
Pure
Che strano
Pensavo di poterne salvare almeno una
di donna come me
con gli stessi vermi
con lo stomaco pieno di capoversi
con l’utero assassino
Non è andata così
Con fare recitativo
impiegate tempo ad imparare i nomi
Ma sono morte
e sono insieme
Non chiedo più alle vive
Il mio appello è alle croci
sotto tutta la terra
Rassegnatevi
Li siamo salve
Intere
A memoria
Da tenere a memoria

PIETA’ DI ME

Scusate se insisto
se mi permetto
avreste per me un aspetto di ripiego?
Si
un paio di occhi scuri come la neve
un portamento antico
a spremere fierezza sui fianchi

Come un limone sul balcone di fronte
che non si inchina più alla sua pianta
Scusate
lo so
vi sembreranno richieste fuori luogo
voi siete una platea intera
e io una
ma per sbagliare bene
devo farvi inumidire gli occhi
e ho bisogno di una forma di sostegno
che non mi pianga addosso

Scusate se insisto
tutte le bambine che sono
non fanno una donna sana

Avreste per me
Qualcosa da dire al mio posto?

ELEGIA DEL CONTRARIO

Sei più bella cosi
morta
Appariscente ma giusta
esaltata dai buoni amici
e non da te

Qui c’era un si
deve essere scappato
sulle inconsistenti nebbie dell’accondiscendenza
Ne faremo buona cenere di legna1313
per il primo fuoco

Lo vedevo quel filo che ti legava alla vita
cosi volgare
Eretico

Lascia che arrivi il finale
A chiacchierare poco
A rendere grazia
A eliminare il sospetto
Stai meglio
morta
le mani giunte e il cappello spostato sugli occhi
le lacrime arrivate fino alle ossa
il libro
diviso in piccole parti

Fottili

arrenditi prima
falli pensare

La foto in cui somigli
a quello che vorrebbero dire di te
l’ho messa sulla lapide
ho scritto con la lingua bagnata
Qui non c’è nessuno
potete piangere
nessuno vi vede

APERTURE ORDINARIE

Si apra il ramo
spuntino a modo loro le sostanze impreviste
foglie
argomenti
clave usate sotto dettatura
amori da fame
quello che ancora non è stato detto
Si chiudano i varchi appassionati
non c’è tempo
Ora che ho la tua attenzione
affacciati e segna col dito i tratti
Può funzionare
se tutto è troppo per una valigia
Da qui
in solitaria
passano isole
qualcuna forse la riconosceresti
promontori lontanissimi
non so
mi dicono siano necessari al viaggio.
Che non si dica mai
mai
che lo sguardo non arrivi al pianeta seguente
che non pratichi l’ingordigia
Oseremo chiamare per nome
una ad una
le conchiglie che portano al mare
Gli arcipelaghi no
quelli faranno di noi
esattamente quello che vogliono

LE MIE SORELLE

Le mie sorelle
sono sottili
fogli di pergamena sottili
dalle gambe fragorose di tritolo
che camminano storte
e ti silenziano il sonno
ti operano lo sguardo

Hanno un rumore di fondo
senza ombra
la loro copertura
e’ da ambiente dell’altro mondo
povero poverissimo
come un santuario chiuso
srotolano i capelli
di lunghezza impercorribile
ma loro lo sanno che cadranno
tutti
e sulle loro teste si spaccherà la luce

Sulla copertina della rivista
sembrano spettatrici casuali
iridescenti
Non credere a niente di quello che vedi
hanno rami lunghissimi e contorti
intrecciati
all’interno del libro ispido
troverai cotone da cucire
tra le cosce e le pieghe
e si svuotano le mascelle
di saliva irata

Con un intero mare al tramonto

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Canto presente 52: Anna Maria Bonfiglio

03 giovedì Feb 2022

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

≈ 1 Commento

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Anna Maria Bonfiglio, Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Anna Maria Bonfiglio

CANTO MINIMO

Ora che la vita stride nelle ossa
ammalorate
la viola incide l’arco minimale
del canto che vorrebbe lievitare.
E l’accompagna un suono
come d’incanto
un incendio che esplode e si fa verso.

Venne sull’ala ubriaca della notte
la voglia di cantare
e fu subito festa
distesa geometria di voli
impennati all’albero più alto
un gioco pazzo
di cui t’accorgi tardi e che tradisce
segreto che ti sguscia dalle mani
prima dell’allegria, prima del sogno.

Abiti la più nuda fra le case
vesti la più impossibile menzogna
e ti fai strada chiusa
anello inciso di desideri e date
età del disincanto
stella che irradia inutili bagliori
profeta di stagioni di declino.

ASSENZA

Forse è naturale consegna
quest’assenza che nessuno reclama
l’ombra solo a me visibile
negli occhi di chi mi parla.

L’azzurro è svolato
verso cieli che ignoro
la notte è segreto
che taglia il respiro.

Ovunque, la pena.

Attendere lune chiare
fra i rami secchi del platano
mentre tu navighi altre barche
e tendi a svalutare
l’oro del mio cuscino.

Svegliarsi e sentire
la vita che torna ―
un grembo profondo
per nascere ancora.

IL TEMPO BREVE
(a Carmelo Pirrera, in memoria)

Dicemmo ci sarebbe stato tempo.
Eppure sapevamo
che alle nostre spalle
tramavano i pirati
che i giardini sarebbero sfioriti
e i campi maturato altro grano.

“Che tempo è, signore?”
“Tempo di solitudine, amico”

La pioggia di febbraio
ha sciolto il miele del tuo canto
e maggio sarà un mese come un altro
solo più lungo forse
e un po’ più solitario
senza colombe e glicini sui muri.

“Che tempo ora sarà, signore?”
“Tempo che fa più breve il nostro, amico”.

GIORNO DEI MORTI

Al mattino era la cerca agli angoli
più oscuri delle stanze ―
forse i Morti ci avrebbero premiati
entrando nella notte a piedi scalzi
o tramutati in misteriosi insetti.
La mosca, per esempio, era zio Gino ―
dieci anni ed una polmonite.

La nonna raccontava della guerra
da cui zio Raffaele tornò dopo
tanti anni dentro una teca lignea

(ombre del nostro immaginario
custoditi dai Lari della casa)

Lo scotto era salire alla collina
e pregare in ginocchio ―
mestizia a sacrificio
e per ringraziamento

Ci accompagnano ora altre assenze
brandelli scomposti della nostra vita
che un giorno ― pare ―
saranno ricomposti

nessuno sa se è vero.

IN ALTRO LUOGO
(a mio padre)

Muti d’abbracci i nostri giorni
si persero nel tempo di un respiro.
Vicini nella resa
ci prendemmo le mani
-fievoli le tue, percorse
da ingrossati rivi pallidi,
le mie rapaci, ancora a reclamare
crediti legittimi e insoluti.

E’ un’altra volta autunno
e nell’umida luce
che taglia il silenzio della stanza
torni anche tu
nella quietezza antica che mi manca.
Potessi avere almeno la certezza
di ritrovarti ad aspettarmi
-quando chiuderò per sempre la mia casa-
e insieme finalmente camminare.

L’APPARENZA

Non guardare di me l’occhio che ride
la voce fresca
o l’ilare bocca che adesca.
Nell’atlante che sfiori con le dita
non cercare le alture ardimentose
o le pianure erbose.
Esplora invece i fiumi azzurri
sotterranei che adornano
le mani, le logorate valli
i merletti dei tarli.
Quello che non appare
è l’ago che segna la scissione
fra il viaggio dell’andata
e l’inversione.

MATTUTINO

Sei tornato nel sonno
dell’ora mattutina
-piccolo dono estorto a mani avare-
e avevi sulla bocca
l’oro del tuo silenzio risolino.
Ti frugavo nel cuore con le mani
per trovare di me qualche frammento
una scaglia rimasta conficcata
nella tua carne d’uomo.

Poi ti oscurò la luce
e fu di nuovo giorno.

 

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Canto presente 51: Enrico Cerquiglini

05 domenica Set 2021

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

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Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Enrico Cerquiglini

Li vedi i colori che fanno della collina
la festa dei gabbiani? È una collina
che si alimenta ogni giorno
dei nostri sogni dismessi,
del cibo che non sazia,
delle mode ora derise,
archiviate nel ridicolo dell’anima,
dell’orgoglio d’essere
figli dell’occaso
destinati alla gloria eterna,
promessa da divinità
e mercanti del tempio.
Lo vedi il bosco delle case
come si espande sulla pianura,
sulla collina, sul pianoro
cacciando il verde variabile
di un bosco senza camere
e sale d’intrattenimento?
Lo vedi il fumo nero
che a volte oscura il sole?
È il padre della luce,
delle macchine che vanno
da sole, che vanno ovunque,
che parlano e pensano per noi.
Lo vedi quel serpente che va
rasentando la montagna
portando con sé
il colore della nostra pelle
e il pudore del corpo puliti,
tutto ciò che non osiamo mostrare.
Vedi laggiù, sempre più vicine,
nuvole di fuoco che si nutrono
di vita? Sono i nostri fiati
infernali, le nostre gole fameliche,
le nostre fantasie illogiche.
Dall’altra parte vedi le acque salire
acque salate e calde,
acque che strappano argini
e sommergono i boschi
di cemento, le strade
dei viaggiatori del nulla.

Vedi, figlio mio,
un giorno non lontano
tutta questa distruzione
sarà tua.

*
Ti scriverò un giorno una lettera,
magari in brutti versi,
per dirti in quale modo scorre il tempo
alla periferia della Storia,
in questo angolo di terra
coperto di viti, ulivi e solitudine.
Ti scriverò, senza prentendere risposta
– so che dove sei o non sei
non si è usi alla scrittura –
magari con una patina d’ironia
o con la scrittura asciutta
che preferivi all’incedere barocco
di certe confidenze infauste.
Ti scriverò per dirmi
cose che non mi son mai detto
rimandando di giorno in giorno
il conto da saldare
e le finestre da aprire
per dare aria a questo universo
di parole su carta.

*
nessuno arse con Giordano Bruno
– “quello scelerato frate domenichino de Nola” –
i più scesero a patti con gli aguzzini
con compromessi generando stirpi abiuranti
altri corsero a procurarsi fascine
per approntare il rogo per lo “heretico ostinatissimo”
ignari di eresie e di speculazioni
spinti dal desiderio di vedere tra le fiamme
“nudo e legato a un palo” un frate
da altri frati “abbruggiato vivo”
e raccontar per anni
– con nauseata soddisfazione –
testimonianza di carne umana arrostita
del dolce nauseabondo fetore
– oh l’odore del napalm al mattino
colonnello Kilgore! –

anche la mordacchia per tacitare
prima della morte lo “eretico impenitente
et ostinato” e lordarne di sangue
il volto e il cencioso vestito
da additare come cane al volgo
imprecante orante e soddisfatto
cantando “letanie”
mentre torvo disprezzava la croce
in nome della quale lo si straziava

“e così arrostito miseramente morì
andando ad annunciare io penso
a quegli altri mondi da lui immaginati
in che modo gli uomini blasfemi
ed empi sogliono essere trattati dai Romani” (Kaspar Schoppe)

e nella plebe soddisfatta
della giustizia trionfante
nuove abiure covavano
nuovi roghi nuovi strazi

*

qui la gente è triste
ha paura dei propri pensieri
rinuncia a pensare
per non rischiare di turbare
il passo solenne delle parate

qui la gente è triste e cattiva
si uniforma e non s’informa
urla sbraita maledice
ma in privato nelle sere di gala
piega le jenou e fa il baciamano
come dovuto omaggio di vassallo

qui la gente è triste cattiva e violenta
desidera il sangue nelle strade
odia la gioia che sboccia a volte
sui visi di alcuni bambini e padri
venuti da mitiche terre lontane
dove spontanei nascono i giorni

qui la gente compra il niente
per vederselo svanire tra le dita
e si nutre di un veleno dolcissimo
per morire per qualche ora
ma al risveglio ha la bocca amara
e abbaia randagia alla vita

*
Quando il sole è basso sull’orizzonte,
crescono a dismisura le ombre
di uomini piccoli piccoli.
Sembrano giganti
e sono granuli di polvere
che il sole, al ritorno, schiaccerà.

*
Allenare le parole,
domare gli ulivi,
addestrare le mani al lavoro,
rubare le briciole dalla mensa,
calpestare le foreste di simboli,
farci spiegare i nostri pensieri,
acquistare alimenti a km zero o poco più,
inquinare i torrenti di sudore,
dissetarsi con le parole della messa,
rubare la fantasia ai fanciulli,
invecchiare col cervello in mano,
dissodare i pensieri,
disboscare i desideri,
delocalizzare i cimiteri…

fatto questo puoi anche fermati
ad ammirare lo spettacolo
del tramonto dell’universo.

*
Questa è la mia terra:
aspre mani di gente che insiste
tra pietre e ulivi
a vegliare ciò che va o resta;
assetata, arida, riarsa
fino a spaccarsi d’estate
aprendo abissi d’infinito,
fino a separare radice da radice,
zolla da zolla,
prima di richiudersi
avvolgendo misteri insondabili.
Questa è la mia terra:
violenta, respingente,
dura, avara, avida di sudore,
distesa di stoppie e cardi,
di istrici, cinghiali, lupi e volpi,
di uccelli di rapina,
di inquietanti canti notturni…
Questa è la mia terra:
inclemente, spietata a volte,
senza rimorsi…
ma quando s’accende di verde,
quando gli ulivi danzano al vento,
quando la macchia respira
e tutte le voci
si fondono in un coro di secoli,
quando la quercia ti avvolge
con la densa sua ombra,
il vino ti scivola in gola
– sangue di oscure radici –,
allora, solo allora ti accorgi
che questa terra nutre
la tua vita, la tua morte
dal tempo in cui le rughe
divennero calanchi
impressi nei gesti.

*

poi sentivi sul calar della sera
ronzare le api – come una preghiera

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Canto presente 50: Enrico Marià

18 lunedì Gen 2021

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Enrico Marià, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

ENRICO MARIA’

 

Le mani tese

verso un oltre

che non posso

guardarlo negli occhi

ferita longitudinale

è la mia bocca che succhia

assi marcite, il vuoto incorniciato.

*

Le protesi

per le onde mutilate

che la boscaglia

del mare calmo

si fa spalto

a scovarmi

sangue acciaio.

*

La vasca quella

col sangue dei detenuti

e l’esistenza attesta

il male oscuro

questo desiderio

la rivincita dei corpi

il nome breve.

*

La superficie l’acqua immota

percorsa dagli animali feriti

che mai torna a casa

la complessità di questa luce.

*

I bambini

è questione

di odori buoni

di corpi caldi

amati il tempo

per il tempo

giusto per venire

un container

dove provvisorio

è il bestiame spostato.

*

Stefano è morto giovane

e io la piango ancora di nascosto

la famiglia slogata

la ricerca della colpa

e il non toccarmi mai più carne

se non treno fucile in faccia

che non voglio sia colpa tua

il ritorno di me

nel bianco del lenzuolo.

*

È il gesto che mi dice

che non so più essere

che quell’angolo incontrollabile

dove la lontananza mai raggiunta

il tempo scorso.

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Canto presente 49: Ivano Mugnaini

07 lunedì Dic 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Ivano Mugnaini, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

IVANO MUGNAINI

 

Quale amnistia?

 

Quale amnistia? Per quali peccati mortali?

È cosa da poco, in fondo, la morte, banale,

veniale o giù di lì, di sicuro scontata,

garantita come una sentenza, o un elettrodomestico

Philips con controllo illimitato di qualità.

Perché tarda allora l’indulto al vizio comico

del vivere? Qualcuno lo disse “assurdo”,

questo abuso, tale misera esuberanza, ma

fu solo mirabile tautologia.

Almeno allora uno sconto di pena alla pena

dell’essere, una via di fuga, d’ingresso, d’uscita,

il lusso di un carcere aperto alla speranza

della redenzione, il crimine antico di ritrovarsi

colti clamorosamente sul fatto, nel sacco entrambe

le mani, in piena flagranza di reato, nell’atto doloso,

e recidivo, di essere ancora vivi, ancora umani.

 

* * *

 

Il mondo non ha angoli

 

Ci ritroveremo, mi hai detto,

in qualche angolo del mondo.

Ma il mondo non ha angoli,

ogni punto equivale a tutti

e a nessuno, la curva del tempo,

ferro, graffio, veleno,

traccia di sogno, linea di una mano.

Ci ritroveremo, certo, e ci accorgeremo

che è gravido di altre carni, di altri

semi, il ventre del destino.

Ma ancora, tenace, avido,

partirà lo sguardo verso un lembo

di pelle, l’occhio, il collo, il braccio,

il seno, e di nuovo sarà immagine

del mondo, spazio di luce agibile,

abitabile, l’attimo in cui, ridendo,

ci diremo che non è possibile.

 

*  *  *

( poesie da La creta indocile, Oèdipus edizioni, 2018)

 

Nei tropici si deve anzitutto mantenere la calma.

Levò un indice ammonitore. Du calme, du calme. Adieu

 

J.Conrad, Cuore di tenebra

 

 

   Conradiana

 

Voi che vedete solo la misura,

dello scheletro, il calibro

delle ossa, i numeri dell’Iban

e delle estrazioni del lotto,

i grattaevinci e la polvere grigia

sul bancone dell’immensa tabaccheria,

sappiate che anche qui,

nei tropici franosi del Bel Paese

traforato come un Emmentaler

di tragiche farse

reiterate ad libitum,

perfino qui

conta e necessita

anzitutto mantenere la calma,

du calme, du calme,

e qualche attimo vitale

di tenerezza strappata all’acciaio

e al cemento

dei nostri cuori di tenebra

prima del giorno d’aprile

da sempre agognato.

 

 

*  *  *

 

 

Lui soltanto

 

Siate gentili! Tanto, alla fine,

adesso e domani,

in ogni frammento di tempo,

altro non siamo che aliti impuri

nella trama perfetta di un cielo

cieco a cui non apparteniamo,

ragni impettiti inghiottiti

da uno sbadiglio.

Siate gentili, non vi agitate,

fate conto di essere ramarri

tramortiti lungo un ripido

pendio con cui gioca un gatto

tignoso in un afoso giorno

d’estate.

Solo l’amore,

quello che non siamo e non abbiamo,

si può permettere di essere

frenetico e crudele, perché lui,

lui soltanto,

è essenziale.

 

*  *  *

 

Ipotesi

 

Che poi in fondo,

niente è cambiato;

già prima ci scrutavamo

l’un l’altro di soppiatto

la forma degli occhi, la bocca,

le mani, il colore della faccia

e delle parole e ci lavavamo

con cura le mani scordandoci

di disinfettare

il cuore.

Ci osservavamo a tradimento,

eterni stranieri in una sala

d’aspetto o sui divani

di un locale, passeggeri

sulla panchina di un tram

ognuno verso il suo deserto

o la zona rossa della sua sera.

Forse la vera sfida, a ben vedere,

non è non ammalarsi

è guarire.

     

               ( inediti da libro )

 

 

 

 

 

 

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Canto presente 48: Andrea Castrovinci Zenna

30 lunedì Nov 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Andrea Castrovinci Zenna, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

ANDREA CASTROVINCI ZENNA

 

Non così – propriamente così, come credevi

remota ipotesi non vomitarlo

tutto quel bene, “alcolico dimentico

ristoro, i suoi capelli nel castano

ondeggiamento lucevano d’oro” – e così

scindono scissi, accecano lucendo

e tu, tu, per spogliarmi così

non tu (o sì?) potresti ricompormi?

 

Sveglia da sempre in te dormivo

un non innocuo incubo d’amore.

 

*

 

Probabilmente

niente ho da dirti in aggiungere

forse in levare sarebbe ancora dire

al punto tale che tacerne è amarti.

 

*

 

Novembre sgelami dall’ansia acerba

per non averla in casa in fretta,

oltre presenze dubbie di timori;

lascia traspaia

come in lei amante

una tremenda primavera.

 

Epicedio a Romeo

 

Come chi piange e non sa ricomporsi,

così tu piangi e nulla ti conforta…

 

Ripensi a quando docile

si accoccolava tra le tue lenzuola,

tra le vesti leggere, sul tuo petto?

E nulla nel dolore ti è più abietto

che ricordare le felici cose…

Ma il tuo pensiero disperatamente

torna a quei gesti, alle gioiose fusa

svola sugli occhi, sui baffi, risente

morbido il morso (un solletico appena!)

su le punte dei piedi

quando d’inverno, tremendo e non scorso

ancora, nera la coda, il nasino,

dolce ossimoro tra il bianco dei plaid,

la carezzavi, gli smeraldi intenti.

 

Oggi entri in casa, non la trovi in giro;

di quelli il vuoto e il morso assenti, provi:

frugano gli occhi trepidi il divano

cercano invano grigia la figura.

Rubescono gli occhiucci, l’aria è tremula:

alla tua mano lesinando il pranzo

con animosa leggiadria discreta

più non si ammusa micia.

Nella tua stanza, tra lacrime chiusa,

è solo un gatto! segreta ripeti…

Ma fiele bevi riguardando foto

un tempo liete e ti avveleni a un fato

che tutte le creature fece carne

più o meno gravi o consapevoli.

 

*

 

E ti rivedo, in certi giorni grigi

tra le mie poche cose care e chiare;

come l’aliare bianco delle strigi,

impercettibile, crepuscolare.

 

*

 

Ma così biondo il mio tesoro mai

da illuminarmi ancora adolescente,

catartizzato in musica,

stordito, etilico!

Gioivi stretta al fianco mio bambino

nella solare gloria del tuo riso chiaro.

 

*

 

Bionda di grano il mio tesoro, docile

come la spiga al vento lieve; avorio

ha nelle dita cesellate e sfioro

un’altra volte te, suprema gioia.

 

 

 

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Canto presente 47: Davide Cortese

31 sabato Ott 2020

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

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Canto presente, Davide Cortese; poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

DAVIDE CORTESE

Mi soqquadra
il tuo sguardo.
Dice un blu
che cielo dopo cielo
è stato azzurro
e bianco nuvola
per tornare blu
fino a me.
E i miei occhi nero rondine
ti volano dentro.

*
Non siamo che reduci dal più abbagliante degli splendori.
Tutto ciò che di più saggio abbiamo detto,
noi lo abbiamo detto da bambini.
La più alta vetta dell’arte,
l’abbiamo toccata da bambini.
La gloria a cui aspiriamo da grandi,
noi l’abbiamo posseduta da piccoli:
ed era soltanto l’umile tappeto
davanti al tempio sfavillante
della nostra gioia.

*
Tra i fiocchi di neve che cadono
ce n’è sempre uno,
non visto,
che risale il cielo.
Ogni autunno ha una foglia segreta,
che rimane salda all’albero.
C’è sempre tra gli uomini
un uomo che non muore.
Egli attende
che quelli che lo conoscevano
si siano tutti spenti.
Resta acceso
a illuminare
un’eternità che non so.

*

Disfare una barchetta di carta
per scrivere sul foglio marezzato
versi che hanno sete d’avventura.
Rileggere parole migranti
che salpano per sempre lontano
muovendo con la mano un addio.

*

PRIMA DI PARTIRE PER LA NAMIBIA

Cosa cerco laggiù nel deserto
(laggiù: polvere e sole,
grembo dolce della madre nera)
che non sia già qui nel mio petto?
Cos’è che mi chiama a sé?
di chi, questa voce antica?
Da lontano e da vicino
io rispondo: “Sono qui”.
Eccomi al cospetto
del silente deserto.
Non mi nego, no, al tuo richiamo.
Io vengo a te
a camminare sulla pelle di un dio.
Non un solo granello andrà perso.
Non un solo granello.
Sul sonno della tua pelle
muovo i miei arcani passi.
Tu sei deserto se solo io sono qui.

*

Mi basta il sole, adesso
e saper vivo il tuo respiro
pensare che da qualche parte
scintilla il tuo sorriso
e c’è a vagabondare nell’aria
un atomo della tua luce.
Sei un pensiero felice.
Tu non farci caso se ti amo.

*
Ecco il corpo
con cui compio il mio destino.
La mia innocenza
ha toccato la tua innocenza.
E non siamo mai più
stati innocenti.
In noi vita e morte
nel gioco nudo
di fare l’amore.

*

Crollano l’una accanto all’altra
tutte le estati segate dalle cicale.

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Canto presente 46: Nicola Grato

06 lunedì Lug 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

NICOLA GRATO

e mia madre pregava a bassa voce
si faceva la croce ripulendo
il tagliere di legno dalle bucce
di zucchine, melanzane, cipolle;
credo sperasse in qualcuno o qualcosa,
forse anche in una povera salvezza
in una brezza fina e senza corpo
nel canto corroso del corvo nero
nelle spine in fiore del maggio pieno.

*

tra le tue cose una rosa
secca di santa Rita –
tra i medicinali scaduti
le ricevute di cambiali
gli incartamenti colorati
dei regali, biglietti
d’auguri per Pasqua e Natale
spediti da Forlì;
una rosa, povera cosa –
riposa da lungo tempo
tra le pagine gialle
di un libretto delle ore:
passita nel silenzio
nel bruno del tempo
passita povera cosa
in una giornata di giugno
afosa,
fiore devoto –
la vita dei vecchi,
al suono dei tasti
una Olivetti
nei cerchi di fumo del tempo.

*

la pazienza dell’insetto
o della pietra all’acqua
dei millenni nello sguardo
tuo al mattino;
concia di guerra e fame
di pane duro e asciutto
d’aria chiusa nel rifugio
antibombe – e i tuoi morti
teatralmente in posa
sul palcoscenico del comodino.
Chiama da un altro dove
quel marinaio fuggito
– tu attenta e sognante
sulle carte bollate,
sulle bollette pagate –
m’insegnavi pietà
per le cose perdute.

*

Peppino, nome di un ragazzo
di due secoli fa:
Palermo di miseria,
di bombe, di pane duro
e cimici: tessera annonaria –
un punto al giorno come un colpo
al cuore, gli occhiali
di tartaruga fissi sulla settimana
enigmistica. Ti ricordo senza
averti conosciuto, ventura
dei poeti: esisti nei versi,
apostolato delle vite di dura scorza,
mercede della memoria –
storia che si fa soffio di canto,
quiete di un giorno di luglio.

*

canto e accompagnamento,
tempo che dalla prima
fessura del mattino
è cammino, mungitura
fino a che scura –
ma la sera Fanuzzo
suonava la cromatica
e nessuno sa che lui esiste
che la musica la sognava
di notte e l’amava
sulla tastiera; lui è un paese,
un volo di rondini
nel maggio… Erano
primavere mesi anni
di fatica: la faccia
gialla d’una spiga non matura
se non accalda,
se non la guarda
l’occhio dritto del sole.

Testi tratti da Inventario per il macellaio, Interno Poesia Editore, 2018

*

restare qui 

la lumaca

il bambino ha schiacciato la lumaca,
lava e stende lenzuola la signora
sulla strada; qui in paese passa il tempo,
passa quello della verdura e grida
cacuocciuli chi su belli. Il bambino
la guarda la lumaca che ha schiacciato,
gli fa pena, ritorna col sorriso
di chi l’ha combinata molto seria.
Violenza è questo fare
finta che non sia successo nulla,
abbozzare, chiudere le persiane
spegnere lumi e occhi, dormire a sonno
pieno. Ma no, non è così, perché Sara
difende un’idea, quella di passeggiare
a schiena dritta e sguardo fiero
di andare a letto col cuore leggero

*

un paese, anni fa

 

gli innesti che portava

nel tascapane verde

e una lepre raminga –

tempo al tempo, luce

del cosmo in un secchio

di plastica sbiadita;

il pruno attecchì a fatica,

non il mandarino nano

dono di Enzo che se ne andava –

una spiga il ricordo,

una canzone antica

*

lettera a Nino

 

come quell’ombra scura, quel pensiero

di te e di tuo fratello, era l’estate

forse l’inverno ma ora è un pensiero

di lui al bar o in campagna, la zappa

sulla carriola a fine giornata.

Per le tempeste le donne gettavano

pezzetti di panuzzo benedetto

sui tetti, forse sperando al bello,

a un cielo terso e fino, profumata

l’aria come la manta della babba

santa nelle domeniche d’aprile.

La morte, caro Nino, è quando uno

che prima c’era al bar ora non c’è –

l’uomo col gilet da cacciatore

non ritorna più dalla passeggiata,

hai buttato la domenica quiz

ritrovata tra giornali e scartoffie.

La morte fa l’inchino, guarda dalla

buca quel vecchio pazzo che non ha

lasciato casa dopo l’alluvione;

gioca con gesso e stecca, lo prepara

bene il tiro: occhio, sponda, palla dentro –

ride il bambino al sole di novembre,

sempre canzoni alla radio al pomeriggio,

chi non c’è fa ressa nel nostro cuore,

hai le parole ma voti al silenzio

il giorno, l’ora trascorre sui nidi

sotto i balconi di rondini e cade

dove non sai. C’era tuo fratello,

vita in borgata, poi la limonata

del pomeriggio: il corno che suonava

era il segnale, tutti aspettavate

l’uomo coi baffi e col grembiale bianco,

avrebbe dato il gelato, il biscotto –

mentre accendeva l’orizzonte il faro

del porto, tanto lontana nel sole

era Palermo: acceso spento acceso,

e tuo fratello scappava nel vento.

*

domenica a Polizzi Generosa

i nati sono pochi, i morti aumentano,
Polizzi Generosa è foglie e vento –
da un bar coi fiori nuovi e le piantine
La cura di Battiato, dai saloni
Proraso e brillantina. Le persone
però quelle non ci sono, fa vuoto
il vuoto di parole nei paesi,
sui calendari il mese resta fermo,
lo scemo col vestito cerimonia
sorseggia la gazosa al tavolino,
il pomeriggio
sa di insegne antiche e di limone
e acqua per combattere calura
e sangue amaro. Ma fa male il cuore
se domani uno parte e uno muore.

*

il tramonto a Punta della suina

 A Danilo Lupo

il tramonto a Punta della suina

colora di rosso e blu sabbia e scogli:

trema di voci, conchiglie, posidonie

questo mare –

davanti alle prime luci di Gallipoli.

Qui penso a mio padre: lui che al mare

non voleva mai andare, che amava

il silenzio ciarliero dei boschi

le poste all’alba a conigli, lepri, pernici.

Ricordo quando stava lungamente

in silenzio in queste ore che le parole

non possono dire, ma le campane –

e passi incerti, ché l’ombra s’allunga

in ogni dove, e già ci sono le stelle.

 

Nicola Grato, testi inediti

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Canto presente 45: Gianpaolo Mastropasqua

27 lunedì Apr 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Gianpaolo Mastropasqua, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

GIANPAOLO MASTROPASQUA

Introduzione e poesie tratte dall’introvabile DANZAS DE AMOR Y DUENDE (Editorial Enkuadres, edizione bilingue a cura di Julio Pavanetti y Francesca Corrias – fotografia di Dana De Luca, Valencia, prefazione di Luis Miguel Rubio Domingo, 2016)

 

ANTICHISSIMO E FUTURO AMORE

Amare è fermare il rumore del tempo, distendersi, fingersi morti nell’erba di una millimetrica nascita, porgere l’orecchio alla terra per ascoltare il battito del cuore del mondo, per sentire il soffio della profezia delle primavere e il grido di tutti i dispersi, all’unisono. Rialzarsi, innalzarsi a stento come neonati con l’attinta consapevolezza negli occhi e una nuova lingua da combattimento per rubare il frammento di futuro prima che diventi annuncio di maceria. L’uomo che sopravvivrà alla storia sarà l’uomo dal linguaggio ultimo, primordiale, l’uomo che avrà attraversato l’ustione dell’epoca rimanendone marchiato e indenne. Egli fonderà una nuova lingua, rapida come le nuvole, profonda come un oceano, danzante come una danza. Un essere che è ragazzo e abisso, poesia incarnata di alfabeti estremi, destino e duende. Egli sarà pontefice dall’uno all’altro da sé. Egli sarà poesia, egli sarà poesia perché non sarà più egli, sarà risonanza universale con l’anima degli uomini che hanno l’anima. Essere in poesia è penetrare l’oltrefemmina per entrare nel suo più intimo abbacinante segreto, amandola con tutto il corpo fino a perderlo, domando la materia fisica e metafisica anche a rischio di sprofondare interamente nei suoi lidi quintessenziali, anche a costo di farsi divorare intero dalla sua fame arcaica.  Giungere dunque, dove nessun altro è giunto, per allenarsi nella sua vertigine più numinosa, nel suo limbo più inaudito. Salire, risalire folle e sacro, atleta dell’ignoto nei piani dell’esistenza, per fuoriuscire olimpico, novella di massimi sensi, dinastia di ultime labbra. Essere il suo amante assoluto per essere il definitivo amore. L’unico a cui pur dettando ordini nuovi lei obbedisce costretta nel giogo di forze, nel campo stremato delle grammatiche dove ogni silenzio è una gravidanza, dove il suo letto d’inchiostro e biancofoglio è un regno trasformante, un patto metamorfico. Divenire, attraversando quelle lande mirabili e urlanti per essere il suo strumento sonoro e corporeo, la sua lingua traducente, il suo oltrepoeta. Tu, solo nel fuoco dell’essere libero, solo non temendo di scomparire vivo o riemergere morto tra le sue spire ancestrali potrai essere, solo non temendo la solitudine o l’isolamento dalla superficie del visibile lei potrà amarti e donarti il primo verso nell’arsi di un colpo d’ali spezzate. Non ci sono altre vie, altrimenti non esiterebbe un solo istante a divorarti, abbandonarti o tradirti e scomparire per l’eternità. Io che non sono io non scrivo per gli uomini, io scrivo per gli déi.

 

GGM – Siviglia, Via Alvarez Quintero 44, Venerdì 12 dicembre 2008

 

Labbra di Maiorca

Se non fossi pura come il nettare

delle ninfe terrestri, affamata

come la luna che divora i raggi

delle notti bianche, risveglierei l’alba

in un corpo d’acque semplici,

invece tu lama nel petto vibrante

accarezzi le corde più inaudite

del vento lirico, soffi nelle vene

con le tue dita d’arpa corrente

generi pianeti, occhi felici,

passaggi celesti, furie perdute

in taciturni di sguardi audaci

e poi baci sull’anima tremula

fino al tramonto irraggiungibile

dei sensi viandanti, sei il calice

ricolmo di primavere dove attingo

foreste di notturni e sillabe verdifoglia,

sei terra o volo dove voglio distendermi

e rotolarmi poema nudo della pioggia

per addormentarmi tra le lenzuola intime

del tuo sudore, con la faccia nel raccolto

dei tuoi monti negromanti lucidi

tu dell’universo il buio.

 

Ora catalana

Facemmo sogni definitivi e volgari

come figli o feti dalle vetrate

alzammo mondi circolari, tombe

a orologeria, genocidi apparenti

con mani predisposte o pazienti

come ladri vani, con case curate

fino al furto, fino alle rate.

E il mio amore giocherà a carte

con la morte, senza barare

tra le bare, amore amore

cosa rubo se non il tuo nome?

Ci stenderemo nel fiato delle strade

nelle volte delle chiese che respirano

nella quiete catenaria, come minerali,

come michelangeli d’aria tra le arcate

tra i colori monumentali di una specie

con le finestre più nere della pece.

 

Lamento della musa innamorata

Tu non sei fatto come un poeta,

mi prendi a calci, all’angelo

hai strappato le ali, tu vivi con i falchi,

della Grecia possiedi il corpo

senza fare nulla, e il sangue selvatico

dell’impero, occidentale e furia

tu non nasci nei cimiteri impolverati

e non hai dèi, né padri, né madri

giungi dalle strade tra i sud e la polvere

ora per riposarti vieni, in battaglia

come un capriccio nel mio letto

e mi fai fuoco con la tua fame di canti

mi prepari cospargendomi di aromi

e incensi, mi fai lucida, un altare

serri le vie di fuga con il tuo corpo

a corpo, mi uccidi di bianco

per farmi rinascere, senza tregua

e danzi perché danzino i millenni

nel mio ventre, ti fai spazio, paesaggio

e pietra, campanile, cappella, guglia

tu ripeti le architetture fino a Dio

volteggiando nelle cose, fai pioggia

col tuo duende, dissemini gli antenati

con il tuo battere oscuro, entri adulto

e non hai mai avuto paura del buio

tu non parli, hai una lingua ignota

vuoi scrivermi, mi apri libro e muori dentro.

 

Benedetta

In te si chiude la giovinezza come un libro

tra le palpebre dell’ultima pagina

mentre danzi perfetta e folle

con tutte le lettere degli alfabeti

e doni la scienza inconoscibile

della profezia, a queste mani

che devono tradurre presto

o morire, perché non sono più mani

e non più sono all’altezza di colpire

la luce, nel punto estinto dove la mente

diviene colpo di coda, arto, atto.

E tu non comprendi l’amore delle pareti

perché sei la casa dell’essere

la domanda abitata da tutte le risposte

come una figlia in gravidanza che ride,

sei tu la ferita da cui nacque il mondo

tu atomica e acerba, tu sei benedetta.

 

Karmica

Tu sei la mia anima e mi tocca

vivere senza, come una tomba

che cammina, un vizio vuoto.

Tu sei il mio corpo illuminato

e ora spento, nel sudario del letto.

Vago senza pupille nell’estate autunnale

nella schizofrenia delle stagioni

come una foglia volata

tra i piedi di Dio. Dove sono

i tuoi occhi neri e le dita rituali

che mi cullavano fino all’estasi?

Nessuna creatura comprenderà mai

i tuoi cento travestimenti, il respiro,

la strage dell’amore e del dolore

a ore, in quale celeste cantano

la tua voce di violino in fiamme?

Ritorno ogni resurrezione

al cimitero, raccolgo un fiore

di vento per Amelia e attendo il bacio

marziale, quel tocco illimitato

nel punto sciolto dove giace l’uomo

il cui nome fu scritto nell’acqua.

 

(Roma, Cimitero Acattolico)

 

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Canto presente 44: Giovanni Ibello

13 lunedì Apr 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Giovanni Ibello, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

GIOVANNI IBELLO

Da “Dialoghi con Amin” (plaquette fuori commercio stampata dalle edizioni del Premio Città Fiumicino, 2018)

*

Utero incendio

Amin, il volo a trapezio dei cormorani è un alfabeto senza luna. Avrai una stella di cenere sul fianco, uno stecco di mezzaluce. Una spilla conficcata nel cuore di neve, la tua parola sarà l’inganno, la Mesopotamia dell’invisibile: uno che batte furiosamente il viola dei polsi sulla rena. Fermati, fermati primavera.

 *

La parola era il nostro Yucatan.

*

 Sonno pulviscolare

Sei smarrito nel cimitero della sete. Amin, sei solo come la sfinge. Devi scornarti con l’assoluto, con il rinoceronte nero. Troveremo il dio delle cose lontane, troveremo una foresta di spine nel buio oltremare. Notte di canicola e di antenne. Sei smarrito nel santuario delle nebbie. In un rammendo di secondi luce ti pieghi sulle ginocchia, mescoli il sangue e l’acquavite. Dicevi: “Verrà la fine, verrà… la chiromante delle ustioni.”

 

Da Turbative siderali (Terra d’Ulivi, 2017)

 

Di quello che sognavi veramente

non resta che un silenzio siderale

una lenta recessione delle stelle

in pozzanghere e filamenti d’oro,

il riverbero delle sirene accese

sui muri crepati delle case.

Così dormi, non vedi e manchi

il teatro spaziale delle ombre.

Il desiderio è l’ultimo discanto.

Ma quanti gatti si amano di notte

mentre l’acqua scanala nelle fogne.

 

*

 

Anche tu la chiami morte

questa armata silenziosa senza lume?

Questa rete di spade

incrociate sopra i corpi,

l’antilope che si ritira tra i canneti.

La preghiera del giorno: siamo muti.

Tutto si separa per venire alla luce.

 

Giovanni Ibello (Napoli, 1989) vive e lavora tra Napoli e Lucca come avvocato. Si occupa di privacy e diritto informatico. Nel 2017 pubblica il suo primo libro, Turbative Siderali (Terra d’Ulivi edizioni, con una postfazione di Francesco Tomada). Nello stesso anno l’opera vince il “Premio internazionale di letteratura Città di Como” come Opera Prima, risulta finalista al “Premio Ponte di Legno Poesia”, al “Premio Poesia Città di Fiumicino” (come Opera Prima) e al “Premio Camaiore Proposta – Vittorio Grotti”. Il lavoro è stato recensito su diverse riviste letterarie e lit-blog italiani. È redattore della rivista «Atelier» (sezione online) e collabora con il blog di poesia della Rai di Luigia Sorrentino. I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue tra riviste, blog e volumi antologici di poeti italiani all’estero. Nel 2018 vince il “Premio Poesia Città di Fiumicino” per la sezione “opera inedita” con il poemetto “Dialoghi con Amin”. Il poemetto è stato tradotto e pubblicato in Russia nella collana “Contemporary italian poetry” diretta da Paolo Galvagni per l’editore Igor Ulangin.

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Canto presente 43: Marcello Buttazzo

03 lunedì Feb 2020

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Tag

Marcello Buttazzo, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

MARCELLO BUTTAZZO

A te

ho donato

le mie virtù di sogno

le ansie palpitanti

la carità di suono.

Timorosa

questa luna errante

nascosta dietro coltri che non so.

Trepidante il mio cuore rosso marezzato.

A te

ho donato

le mie incertezze

le stagioni inquiete

e questo sangue imprigionato.

Benigna

questa Natura

assetata di visioni

e d’ebbrezze.

Impaziente

questa vita

che non conosco.

Sulla mia terra

c’è ancora

il tuo nome.

Il cielo

nell’azzurro

infinitamente

l’ama.

*

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