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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: poesia contemporanea

Canto presente 40: Massimo Botturi

08 sabato Giu 2019

Posted by Loredana Semantica in Canto presente

≈ 3 commenti

Tag

Canto presente, Massimo Botturi, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

MASSIMO BOTTURI

A MIA MADRE

 Quasi cadesse ancora quel filo d’erba nuova
dalla tua mano e hai appena due anni
ora che in fila, aggiusti il borsellino
per quando sarà il conto.
Le poche tue cibarie, un flit per i mosconi
galanterie portate da casa in questo uffizio
dove le giovinette sistemano scaffali
e taciturne vanno alla pesa.
Sempre attenta, io t’ho veduta in queste faccende
un soffio d’aria, versata d’innocenza sui vortici del mondo
tra le rotonde e i clacson sguaiati
luminarie, file di denti come promessa.
Ora sei china
non più al figliolo nudo dai gomiti incrostati
ma alla severità delle vene, delle ossa
di ciò che ti sorregge a fatica
senza un pianto.

QUANDO POI SMETTE DI PIOVERE

Quando poi smette di piovere, fa strano
e sembra che più niente ci sia a volare intorno.
Ti sembra d’esser mai esistito, e che le foglie
si chiamino a custodi del mondo
con le leggi
le regole non scritte che spingono le verdi
e annullano le gialle alla fine dei respiri.
È come avere te, un foglio bianco, sesso aperto
per contraddire Darwin in sette giorni solo;
è come avere letteratura, mani e bocca
volume in edizione extra lusso.
Gli occhi, ancora
come dei secchi d’acqua con dentro le tue lune
le tue mammelle poco educate
il tuo ombelico, sporgente come un pesce
alle briciole del pane.

L’UOMO ACCANTO

Quando dormo profondo allungo il corpo
come l’acqua dentro il vino
come i sogni, che odorano di more e tempesta.
Torno al Vico
a quel trasloco di San Martino, alla maestra
che m’educò all’amore per libero pensiero.
Ritorno al lume, chiuse le imposte
e al libro nuovo. Sulla credenza via dallo sporco
perché oro, sarebbe stato i giorni a venire.
Dormo e sboccio
maturo come il fiore di pero e di genziana
tra i tiri dello schioppo nel bosco e altri lamenti.
E quando dormo profondo
in altri mondi, poi getto le mie viole a ricordo;
ho calze corte, un piccolo maglione sfibrato
ma sorrido. Sì forte che del sangue poi m’esce
e mostra il segno
sul labbro un bacio pronto a venire
l’uomo accanto.

ROSSA

Là, una rosa
ha già varcato il limite imposto di un cancello;
la debole ed inutile leggina che la vuole
di proprietà a un’anziana signora.
Ma n’è nulla
ciò che la vanità scrive in calce, lei si fionda
accetta il rischio d’essere scissa;
che so io, da uno innamorato prima che torni a casa
da una ragazza mentre l’annusa
e trova pari, al seno suo lavato di fresco.
Eccola china
del peso di rugiada scolpita, come vena
varice della terra ghiaiosa
Dio inventore.

INTERMITTENZE

Questa mia stanza ha un occhio a est, piccino.
Davanti un sortilegio di foglie, a inverno coppi.
La luna ci sghignazza minuti, forse un’ora
poi gira il culo e va verso il Michigan, Milano
o una città che adesso mi scordo.
Sembra niente, ma a me vien su il magone
perché è una bella donna che sfugge, come gli anni
Allora viene in mente quando prendevo il treno
e tra una riga e l’altra di un libro salutavo
le amiche pendolari di stessa mia premura.
Nemmeno un caffè insieme;
garretti, borse, corse
e metropolitane d’ogni colore, e tram.
Mi viene anche in mente la mia morosa mora
le uscite di nascosto dal padre che dormiva
le scuse alla sorella portata per candela.
E allora penso, porca miseria, è proprio vero
son attimi che passano svelti quelli belli
ma restano che sembrano secoli, ciao amore!

 

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Canto presente 39: Pasquale Del Giudice

30 giovedì Mag 2019

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, SINE LIMINE

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Canto presente, Pasquale Del Giudice, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

PASQUALE DEL GIUDICE

Dal corpo.

Avere un corpo, zampe e zanne, trascinare
in giro un guscio, al guinzaglio
della coscienza, un ordigno in prestito,
oscuro oggetto di studi, provvisorio
intrico, ferraglia che stride
il proprio involucro, ignorato
dall’altezza degli occhi, delle analisi sommarie
indagini sulle superfici, sui paesaggi
terrestri, dal taglio della propria
inconsapevolezza, inconsistenza conoscitiva,
dal corpo scavare il corpo della terra
concentrato di lesioni, assimilate
ferite, cancellazioni e stratificazioni
scendendo con la penna, ribaltare
il progetto degli appezzamenti, la cartina
delle proprietà, delle vene, delle strade
lasciandone emergere il risvolto,
il lavorio sotterraneo di gallerie,
funzioni, formiche, avi che trasportano briciole
ossigeno, monumenti alla debolezza di tutti,
col corpo rinvenire genealogie
verticali e parentele orizzontali,
tra ulivi bisnonni e piante neonate,
essere un corpo é non avere corpo,
l’illusione di un giorno, servire
il destino della storia e l’ordine del discorso,
avvenire nei sensi, consumare il gioco
di stare al mondo, prescritti, urbanizzati
urtando altre parti di mondo,
riproducendolo, nei fraintendimenti,
nei dialoghi della bocca e delle braccia,
desiderando il mistero di un altro corpo,
dall’enigma del proprio, esposti e difesi
nella carne, cartapesta di pori
e vespaio di cellule altrui, con cui
guerreggiare a nome di un altro,
nel solo corpo che hai e che non ti appartiene
a nome tuo e di nessuno che moltiplica i giorni,
le scuse, i passatempi per restare in piedi
tra gli altri, contro gli altri,
avere un corpo, un materasso su cui morire,
deteriorarsi, contando, misurando
parole tra sé e la propria carcassa,
oscurarsi tra le coperte, in nuovi
anfratti, pieghe, lasciando cadere sillabe,
come squame, pelli secche, cicliche mute
come distanze cadute, di pareti e mura di sé
anni, crolli, avvicinandosi alla polvere,
dal corpo sentire i gradi, il calore,
signore crudele al giuramento degli alberi,
col corpo tornarsene a casa, nell’altra gabbia,
torcendo il capo tra gli archivi,
mentre la città muove strumenti, apparecchi
macchine, motori, alla finestra
guardare la pace estiva, le cattedrali,
gli edifici, la miseria, l’asfalto,
le televisioni che parlano a vuoto, i ritagli
di giornale, le scadute politiche del mondo,
dalle vetrate degli occhi, vedere chi vince
più vicino alla morte, la vita di ognuno
una storia di commiati diretti al comune,
all’ultimo congedo, mentre si cerca
invano la particella neutra, il volto dell’altro,
il laccio, l’accordo a quella frequenza monotona
neutra, sottopelle, dove non termina il filo
e una testa, una cellula si lega all’altra,
occhi di tutti i colori, corpo di Dio,
corpo di tutti i corpi, tutto il dolore del mondo
vedere con tutti gli occhi del mondo,
soffrire la sincronia delle piaghe mentre
si diffondono, si ripetono, ognuno
portatore sano di ferite, che arreca agli altri,
disperdendo il primo trauma, dal corpo.

Ipotesi sulle aule studio.

Geometrie che si ripetono
in un’armonia predisposta di sedie
banchi e postazioni computer,
rigidità inflessibile
di architetture razionaliste
composizione minimalista,
patria di zaini, occhiali, matite
occhiate, effetti personali, segreti amori
mondo sottomarino, enorme
acquario di pesci boccheggianti, di pazzi
che parlano da soli, macchine
che borbottano in parallelo, di sottolineature
di sacrifici di parti di testo espunte dal testo,
di testi messi insieme, stuprati e riassunti
passati da una bocca all’altra, fabbrica
di impuniti travisamenti,
le aule studio rivelano l’interesse
la curiosità verso l’altro e il fastidio
l’attrazione e la repulsione del diverso
origliato nel proprio universo,
le biblioteche sono allevamenti
intensivi della specie, in cui la scrittura
passa il testimone filogenetico
mentre si gonfia e si rigonfia il palloncino
solipsistico degli scopi personali,
l’illusione dei propri obiettivi,
la prefigurazione degli esami
mettendosi alla prova
ognuno nutrito dalla benzina del suo fine,
le aule studio sono palestre di boxe
sale d’addestramento
dove ognuno si prepara alla gara
prendendo a pugni il suo sacco, il suo libro,
camere iperbariche, anticamere
d’arrivismo sociale,
in questi luoghi amo i distratti,
chi fissa un punto a caso della stanza,
chi incrocia uno sguardo fuoriuscito
dalla sua bolla d’attenzione
chi è incapace di concentrarsi su di sé,
chi si annoia di sé, chi è innamorato
della fisionomia dei corpi, del mondo
che gli passa vicinissimo nelle sue forme
e sta attento a non approfondirlo,
amante della superficie, del gusto del vedere
divinità innalzatasi a contemplare
l’ansia dei suoi figli sfiniti e contratti dal lavoro
al di sopra o al di sotto dei suoi doveri
del suo debito nei confronti della vita,
in una via di mezzo, nel possibile
tra il conosciuto e lo sconosciuto,
ognuno in attesa dell’evento, dell’impatto
effettivo, eterno riscaldamento
nelle aule studio si fanno ipotesi sui freni
sulla tenuta del motore, officine
in cui si eseguono rituali, prove
sulle gomme, crash test, cercando di coprire
e prevedere le domande, di mangiare
l’intera torta del programma
in vista dell’esame che forse non si terrà mai,
studiare per un esame è un esercizio chirurgico,
un’ossessione della prestazione,
leggere è guidare a caso per le strade del mondo,
conoscere cose per il piacere di farlo,
nelle ore o nei giorni di festa
le aule studio sono ospedali senza pazienti
reparti dormienti, letti vuoti, corridoi spenti.

Volti prismatici di un mocio.

Polipo addomesticato, sbattuto sulla pietra
sulle superfici di casa,
piste d’atterraggio o da pattinaggio
per curling amatoriali
per parrucche di treccine idroassorbenti,
scettro delle signore di casa
migliore amico, fucile delle casalinghe,
alghe redivive a contatto con l’acqua,
teste schiantate da un battiscopa all’altro
maltrattate da donne frustrate, sottomesse
alla gerarchia patriarcale
allo scazzo di badare a figli, mariti e amanti,
futuro strumento di rivolta,
arma con la quale i lavoratori domestici
otterranno l’indipendenza,
un mocio è una lattuga dalla facile usura
un sommozzatore col fiatone
un ragazzetto bullizzato
col cranio nel cesso, torturato,
immerso e strizzato più volte;
dovremmo lasciarlo prosperare
nel suo secchio specifico, in ammollo
come una creatura marina
una medusa di listarelle nel suo acquario,
senza farlo disidratare,
imputridire nel lercio del passato,
ogni tanto versando dell’acqua fresca
della vita nuova o del detersivo
come forma di premio, come dental stick,
come dessert, come bevanda
analcolica bluastra allucinogena,
il mocio è un regalo, un prestito di Zeus
alle faccende domestiche
ballerino provetto, come tutti
inizia a perdere pezzi, a puzzare di marcio,
a soffrire di calvizie, lasciando in giro
ciocche, parti di chioma,
la sua arte è trattenere il fiato
la giusta misura d’acqua
per affrontare le insenature, i rischi
e le strettoie quotidiane della vita,
sapendosi sporcare e ripulire,
rimettendosi nuovamente in gioco;
uno e molteplice, questo straccio sofisticato
è un esemplare di Komondor
tenuto in un angolo o in un ripostiglio
dal temperamento notoriamente
equilibrato, affettuoso, indipendente
gentile e tranquillo, rasta con asta
un mocio non è altro che un omaggio
divino alla testa danzante di Rud Gullit.

La manutenzione.

Sono vivo, un cantiere aperto,
una macchina usata, un mostro precario
civilizzato, puntualmente i peli mi rispuntano sul viso,
il sebo si accumula nei pori,
il mondo è la criniera di un cavallo,
ogni cosa necessita di manutenzione e del suo stalliere,
della sua lametta e del suo giardiniere,
di revisioni, di versioni, di una controllatina
ai freni, alla tenuta dei bulloni
la vegetazione, le unghie ricrescono, la pelle decade,
ciclicamente sono necessarie
radiografie, controlli delle pompe
del sistema e del livello di putrefazione raggiunto,
è opportuno ridurre ad ordine umano
la matematica delle sterpaglie,
più cresci più muori, più muori più cadi a pezzi,
più perdi illusioni, più i tuoi gesti
si sommano negli errori degli anni,
hanno avuto incidenza, hanno ferito e perdonato,
hanno deluso e smentito se stessi,
esposta alle intemperie e alla consunzione del tempo
la vita è un cadavere sezionato
dunque le cose muoiono con gusto
e ogni giorno implica lo sforzo
di tenere a bada il loro disfacimento,
la loro fuga, la loro tentata ribellione
rimandando la loro fine,
ritinteggiando le porte e i capelli, le pareti,
la manutenzione tiene sveglio il mondo
il suo bisogno di cure, morte che ci tiene in piedi,
che stimola, smuove a mettere in ordine la stanza
a usare il tempo nel migliore
o nel peggiore dei modi, sperperando
quello che resta in affronto al tempo
e a se stessi, costantemente ridare senso
dove si era dato senso, nei rapporti sociali
nei propri spazi, nel cassetto
delle delusioni, opponendosi alla forza
centrifuga che mette in moto la macabra pantomima,
bisogna immaginare Sisifo barbiere,
crollare è darla vinta alle liane, alle piante rampicanti
quando ti sommergono i piatti da lavare,
quando la tua casa si arrende
alla forza riassorbente dell’edera
e del muschio, delle erbe infestanti, dei nidi di ragno,
dei topi, delle formiche, dei rifiuti dei passanti.

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Canto presente 34: Leopoldo Attolico

29 venerdì Giu 2018

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

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Leopoldo Attolico, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

LEOPOLDO ATTOLICO

MITICO PEPPINO

“Quando il pettine si riempirà di nodi
vorrà dire che tutti i nodi son venuti al pettine!”
vaticinava acutamente Giuseppe Conte
di fronte a una platea che pendeva dalle sue labbra
tutta tesa a capire dove andava a parare
la latitanza di quel significante
travestito da espressione figurata
non precisamente affascinante.
Ma il mitico Giuseppe
non amava decriptare le sue agudezas desultorie.
Una scontrosa passione per la condizione umana
gli dettava allarmanti così è se vi pare
da esplicitare solo alla fine
nei tempi lunghi dell’altrui pazienza;
e passò oltre, lasciando lo scoppio ritardato
drammaticamente in balìa di matasse di sebo
gordianerie e untuosità varie

IL ROSARIO DELLE VECCHIETTE

Se nunc et in hora
diventa ‘ncatanòra
è scorbuto celeste
ma anche picco Dada di grande suggestione.
Lo sanno le fiammelle delle candele
nel divertito tremore
che sposa il fai da te del latinorum
al top dell’invenzione verbale
(s)conciata per le feste

CRISI DI COPPIA A CANALE CINQUE

Il plusvalore è evidente:
la terapia del valzer travolgente
è avallata dalla brava presentatrice (?!)
e il tubo catodico è il garante

Ben venga quindi la metafora della danza
per proporre una strategia di coppia:
danzare insieme
tra comunicazione conflitto e mediazione !

(Se proprio non funziona
c’è la Sacra Rota di Sua Santità
che risolve
con la modica quantità
dell’obliterazione)

PRECARIATO E PRODUZIONE DI REDDITO

Anche se è un segnale (non positivo)
di contaminazione dal basso
di pensieri e parole che dovrebbero volare alto,
l’ultima ratio declinata da Celeste
ha margini d’inchiostro inattaccabili:
-non si può continuare a infiorare di addendi la morale.
Bando a prospettive opache e ansiogene.
Il mio fondoschiena vale più di due lauree

GRANDE STATISTA

Con il bon ton municipale
del buon padre di famiglia
ha depenalizzato il falso in bilancio.
Ma non è più creatività d’alto profilo
il fai da te quando consuona
con la questione morale arresa all’elettronica:
se un tempo si parlava con la propria coscienza
oggi ci trovi la segreteria telefonica

IN PARADISO SENZA REDENZIONE

No, non ho il destro
per denuncià ‘sto sinistro;
non ho cuore, davvero.
(Ma lei, il bolide trasgredente
che ci faceva piangente
bellissima e senza patente
a quell’ora di notte?)

Ora che nel cotidie
la menzogna macchia le parole
e tutto sembra fugace e feroce,
può anche accadere che una inezia di dismisura innocente
mi mandi dritto in Paradiso
senza soste intermedie:
“perdono,signore…”

In “La realtà sofferta del comico”, Aìsara, 2009

 

 

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Canto presente 33: Christian Tito

18 lunedì Giu 2018

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Christian Tito, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

CHRISTIAN TITO

 

Facebook mi informa che a Nizza

i miei amici sono vivi,

i morti e i feriti sono altri

 

a Manchester  la posizione dell’ordigno

conferma che il bersaglio erano i bambini

 

“Dio voleva questo” dice spesso chi uccide,

qualcun altro invece afferma

che è Satana a volerlo

 

difficile capire di chi sia l’intelligenza delle bombe

 

un giorno un uomo ha scelto di guidare un camion

per schiacciare altri uomini  intenti a passeggiare

un altro giorno un altro uomo ha scelto

di costruire un ordigno pieno di chiodi

per fare a pezzi dei bambini

 

che siano riferite a Dio o al suo Nemico

niente appare nuovo sotto il sole.

*

Fermato in Viale Stelvio angolo Farini

molestava peruviana dicendo bella troia

lo portano in reparto alle quattro del mattino

urla gobbi di merda brutte merde bianconere

 

due infermieri lo cingono decisi

scalcia morde urla forza Milan

gli infilzano una siringa di aloperidolo nel fianco

forza Milan forza Milan merdosi gobbi di merda

 

ferma le gambe

poi le braccia

poi i pensieri

spariscono i cattivi bianconeri

 

“ho detto solo bella troia

non brutta troia

brutta lo dicono i cattivi

sono loro che dovete fermare”

 

si mette a dormire

 

io non dormo più.

*

Da dove sto scrivendo

Nel ginepraio di via Dino Villani numero 3

cerco Alessandro il matto

quello grasso e le infradito anche in gennaio

 

lo cerco quando è sera

e il fiato fuma

e i nomi sui citofoni sono segni fracassati

allora entro

tento dentro

ogni scala è un segreto che collassa

eppure chi cerco esiste

e quello che cerco per esistere

vuole essere cercato

 

salgo ad ogni piano e busso

“Alessandro, sono il farmacista

abbiamo sbagliato a darti le compresse

dobbiamo cambiarle Alessandro”

 

lui apre al sesto piano

coi piedi scalzi e le caviglie gonfie

con le unghie nere e un Modigliani al muro

e c’è odore di brodo

e ci sono macchie rosse sulla canottiera

sarà sugo spero

“Alessandro è sugo, vero?”

 

è vero

è tutto vero

lo capisco qui

qual è il mio mestiere:

sbagliare per uscire

per entrare nelle case

per uscire dalla casa

 

a fianco a Modigliani una donna

– è la mamma era qui

ora è sul muro

ora

incastrato tra le mura ci sono io-

“sì ci sei tu Alessandro

non io

non più

ciao Alessandro

vado”.

*

Da bambini giocavamo a calcio dappertutto

spostavamo persino siringhe

temendo unicamente di bucare il pallone

 

in campagna con Nico finivamo spesso

coi ginocchi insanguinati,

ma eravamo felici

 

il nostro gioco non poteva finire

 

ricordo Emanuele, lo stopper,

non era un fenomeno

se non nel tenere alto il morale di tutti

 

prendeva in giro anche il padre eterno

 

il fruttivendolo un giorno non l’aveva capito

così prese un peso da un chilo

e gli sfondò la testa

 

il gioco di Emanuele finì così

il nostro dura tutt’oggi

talvolta ancora sangue

ma non dalle ginocchia

 

certe volte, ancora oggi, siamo felici.

*

Forse noi no, ma lo sanno i nostri corpi

della violenza imposta su di tutti

 

lo sa bene la pelle

che si sfalda in mille croste

e le nostre colonne e le vertebre e i dischi

che tentano la fuga persino dalle ossa,

ne hanno forte percezione i nostri stomaci

bucati dagli acidi in eccesso

 

non esagerava il poeta nell’esporre le sevizie,

la merda ingoiata per il piacere dei mostri.

 

Forse voi no, ma io so cosa compriamo

per mettere tutto a tacere,

come si usa la chimica

sulla coscienza dei corpi,

 

come  spegniamo la luce ai bambini

quando hanno ancora gli occhi aperti.

*

Ti daranno infinite occasioni per piegarti

e tu non ti piegare,

basterà uno sguardo a certe facce

per sentire minacciata la tua fede,

ma tu credi, credi sempre figlio mio,

e non credere che ogni credo poi non muti,

ma dentro quel mutare qualcosa si conserva:

quel passarci dentro agli occhi un po’ di luce,

quel dirti a bassa voce solamente che ci siamo,

che per te volevamo solo esserci

e, miracolosamente,

nel miracolo della tua vita,

per un po’

ci siamo stati.

*

Oggi diciassette febbraio dell’anno duemilaquindici

la terra ruota sotto le nostre suole

e mentre gira e tutti noi giriamo

sento il battito del mio secondo figlio

 

perso dentro quel ritmo penso al mio amico

ha un tumore al di sotto del cranio

 

perso

penso

prego che tra non molto

mani di uomini esperti,

ma spero anche buoni,

estraggano la vita dal ventre di mia moglie

e la morte dal cervello del mio amico

 

lui di figli ne ha già due

e i padri buoni sono pochi.

 

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Canto presente 32: Iole Toini

05 giovedì Apr 2018

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

≈ 2 commenti

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Iole Toini, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

IOLE TOINI

Giallo e pastore

Lo abbiamo incontrato dove il sentiero si apriva,
l’uomo delle pecore ci ha detto “è uguale”
potevamo passare davanti alla sua cascina
o prendere l’altro appena sotto,
“portano tutti e due dalla stessa parte”.

Poi  ci ha raggiunto più in alto.
Stavamo raccogliendo tarassaco per farne miele.
Ci ha salutato come ritrovasse vecchi amici;
ci ha chiesto cosa ne facevamo di quei fiori così
ovvi per il prato, speciali per noi che avevamo
quel dolore nel petto. “Il miele” ho risposto
“e come si fa poi questo miele…?”
era una cosa che proprio lui non sapeva, ha detto.

Intanto gli alberi ingrandivano il pensiero
che credeva alle parole dell’erba e delle pietre,
dicevano “senti?, lo senti quanto è
poco ciò che vedi?
”… e una folla di sangue si accalcava
verso l’altro posto.
Per quanto cuore cercassi, non ne avevo abbastanza
per tutto quel blu, per i prati, le foglie
e rami e rovi e girandole di bene
mi fischiavano nel petto come frecce.

Il sole cadeva dalla cima di cose altissime
e cadeva dalla croce del petto del pastore,
gialla come il tarassaco e lui era vero
bene che potevo vedere così
di terra e odore di pecora
che mi faceva gran male il cuore.

Scendendo a valle di nuovo ci siamo salutati ormai amici.
Piovigginava; aveva la gerla a spalle;
le pecore sono scappate come ragazzette,
“… fanno così …non sono abituate a vedere gente …”.
Gli ho chiesto se potevo scattare una foto,
lui ha alzato lo spalle e si è girato verso le pecore.
“Pensavo che la facevi a loro …”,  “a te”, ho risposto,
ha sorriso con la sua bocca sdentata e si è messo in posa.
Poi ha alzato il braccio in segno di saluto, è corso dalle sue pecore.

Ciao pastore, ciao.

 

*

 

8 dicembre

Mio padre cammina davanti a me.
Piove, l’acqua gli gocciola sulla giacca. Nell’atrio se la scrolla.
Poca gente. È l’Immacolata e i parenti sono a casa,
i piedi allungati al divano. Spenti, ciechi, morti. I corridoi
degli ospedali sono immensi. Hanno passi di colpe antiche.

“Che corridoi!”, fa mio padre con l’ingenuità che
riconosce potenza allo spazio. Una donna in vestaglia
ci spia dall’angolo della sua camera.

L’azzurro dei muri sfila come una diapositiva.

Mia madre ci viene incontro; sembra felice.
Mi abbraccia e mi bacia.
Due giorni che è qui e tutto il male si è sciolto
sotto i piedi, la paura sturata via dal midollo.

Reparto psichiatria.
Quattro letti in una stanza.
Niente cucchiaini dentro al bicchiere del te, niente
maniglie alle finestre, cinture nelle vestaglie.
Cotone che vola.

Nel letto di fianco dorme una ragazza.
Ha il viso macchiato di acne.
“Non vuole andare a casa…”, sussurra mia madre,
“È straniera…” , “…una rumena…”
Ed  è come dicesse una puttana.

Di fronte, un’altra donna. Leggera. Bianca.
Si muove fra la stanza e il bagno.
La tristezza le scende dai capelli.
“E’ la terza volta che la ricoverano… “
“… a casa ha un uomo… ““… che la picchia… “
“… ma torna da lui ogni volta…” .

Guardo a terra come cercassi oro.
Mia madre sorride, si aggiusta le lenzuola.
Mio padre schiarisce la voce, le chiede delle sue cure.
Lei non è malata nella testa, dice, non è “tocca”, e ride
mentre si picchetta le tempie, ride come uno scoiattolo.

La guardo; penso che il suo male si è perso dietro il ventricolo destro,
dopo il ventricolo sinistro, più in là.

Dal corridoio arrivano grida.
“Fa sempre così….” , mia madre si agita nel letto,
“..io non l’ho mai visto…”
si guarda intorno, sembra parlare a qualcuno, da qualche parte, lontano
“… lo legano al letto… lo sedano …”
prende una caramella dal cassetto.
La succhia con gusto.
“Ma in fondo qui è meglio che in altri reparti…”.

 

*

 

La sposa turca (*)

 

Non vistosa, nera, leggera,
sorrideva, tirava di coca con lui
turco sposato per caso, Cahit,
una gabbia malata d’amore della sua gabbia
turco tedesco di Istanbul e Sibel
sua moglie per caso la notte ballava si faceva
scopare per andare lontano
dai suoi fino a che lui                       la vede
uccide l’uomo che lei vuole
entra in galera lei si taglia le vene il film si mangia lo schermo entra lo stomaco
quel fatto che niente ha direzione se non la disgregazione

la lotta: restare.

Sibel non è bella
Cahit è alcolizzato
tira di naso e scopa e sputa
si muove come una tigre
ti mangia via gli occhi
fa entrare il suo cuore

mi innamoro di Sibel
di quella dolcezza terrificante
che mette gli occhiali ma nuda
è la pura belva d’amore

e poi finisce.
è così.

(*) liberamente ispirato dall’omonimo film

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Canto presente 30: Daìta Martinez

08 giovedì Mar 2018

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA

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Daìta Martinez, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Daìta Martinez

 

{ tre ore }

 

distillata contrazione

il tempo del supplizio

al richiamo contratto

 

era firenze

il giorno ingollato allo spanno del tuo respiro

ode di stili attenti sulla logica del seno

rinvenuta indulgenza di luglio

 

era il tramonto ed era l’alba

quel cenno osato sull’altare del borgo

passato di noi – amanti sorgenti

 

{ tre ore }

 

anamnesi variabile

la sosta convulsa

dal mento fuggiasca

 

era firenze

l’ipotesi sequestrata alla notte del mio errare

ambulante stupore sull’innesto dei capelli

smarriti al mercato disfatto

 

era senno ed era insania

quel bacio riempito sul rilievo del piede

silloge di noi – concetti sedotti

 

*

 

. allattari cu l’occhi

lu nidu du jardinu

appuiatu picciriddu nto funnu

di li vrazza .

 

. allattare con gli occhi / il nido del giardino / appoggiato bambino nel fondo / delle braccia .

 

*

 

precipita :

 

sotto appena lo squarcio degli oleandri

seguendo il mutare del violino

fili merlati nella questua del risveglio

 

strappate le dita

quando è doglia il silenzio

dopo l’attesa

prima del rovo

 

traccia :

 

sopra appena il fiato sgualcito

isolato ritmo la coltre sulla bocca calpesta

il profilo degli occhi all’inizio del sogno

 

dedalo la cenere

quando è rosso il legno

dopo l’acqua

prima delle scarpe

 

da : . la bottega di via alloro . – LietoColle, 2013

 

*

 

strada d’albicocco

dalle mani s’odora

il silenzio del treno

 

*

 

la pioggia arrossata

leggera l’ora sgorga

l’inguine nel mattino

 

*

 

‘a vucca  dintra ‘a vucca
strinci l’ura di la cunta e
grapi ‘u mari zappatu di
zammù talìa idda comu
tuppulìa chiantu duci di
la vigna ‘a sò vuci l’erva

 

la bocca  dentro la bocca / stringe l’ora di dire e / si apre il mare zappato di / anisetto guarda lei come / bussa pianto dolce della / vigna la sua voce l’erba

 

  • inediti

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Canto presente 29: Giacomo Cerrai

22 giovedì Feb 2018

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

≈ 1 Commento

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Giacomo Cerrai, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Giacomo Cerrai

FINES

oltre la parete le voci dicono qualcosa che fluisce, e non partecipa.
Non è corrente, non trasporta, lascia solitario.
Il costante ritardo d’altre parole crea bocche vuote un silenzio retrogrado.
Oltre la parete si può solo immaginare ed è difficile che tipo di vita.
L’alternativa è nel ramo l’ombra percossa sul vetro un’anima di vento e clorofille
un’agitazione sur place di pensieri indisciplinati.
Questa reclusione volontaria è un limite costipato d’immagini
domesticate immodificabili da una immaginazione arresa
e qui finisce la terra ed anche il sogno
se si smette di sognare di zittire le voci di innalzare le braccia come
a un libro aperto poggiato su un ripiano troppo in alto.

lug. ’15

 

da Nuovi paesaggi deserti

fisica di luci parassite

Cassiopea non riesce a brillare sulla superficie della piscina per eccesso di luce.
Il vento che arriccia il celeste non aiuta, una trasparenza niente affatto chiara
(nella notte) vibra.
Le volte che i corpi hanno rotto l’incantesimo della superficie è una statistica comica e turistica.
Nessuno di essi aveva nome e cognome (Hans, Dieter, Sepp) che spostasse una massa d’acqua
uguale ed irritata.
Le increspature si placano quando il vento cessa di osservare
la solitudine ossificata degli assenti.
Ma Cassiopea non riesce a brillare d’una luce forse già cessata
che la natura minerale dell’acqua non trattiene.
Con l’elemento si acquieta come una frattura sul fondo.
Attraverso dove, una dimenticanza.

Umbria, set. ’15

 

la finestra libro
aperta leggibile il quanto
che passa ad una altezza che varia
con la luce

nulla che nel tempo terso appaia
distante
nemmeno l’invisibile nemmeno
nel buio celante la materia

è credere, questo, in una
intelligenza
nostra o altrui?

quanto la trasparenza il dubbio
aggiunge una bellezza
all’umano

gen. ’14

 

non con questo sonno
non con una mente discorsiva
che si interroga
non ce la faccio – dici –
non articolo una giustificazione
la parole hanno il loro collare
e guinzagli lunghi
ed ogni parola riceve uno strattone uguale e contrario
troppo simile a una garrota sadomaso
invece alla distanza giusta
quella di interlocutori in trattativa
da un lato all’altro di un tavolo di vetro
allora sì le cose cambiano
specie se la distanza è una assenza
quella a capire infine necessaria
se valga la pena essere colmata
specie se la distanza è un civile segno sulla faccia

ott. ’14

 

qualcosa che perturba.

non è il rosso terminale delle foglie
il bianco di chi si avvicina al varco
il blu d’un profondo inarrivabile.

è il senso della misura, credo,
il limite del limite ai sogni, come

legare un cavallo all’albero

recintare il terreno

recintare il recinto

lasciare una pecora a guardia

gen. ’13

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Canto presente 28: Fabrizio Centofanti

01 giovedì Feb 2018

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA, Poesie

≈ 3 commenti

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Fabrizio Centofanti, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Fabrizio Centofanti

 

Volo/velo

Di attendere, di credere, di apprendere,

tutto è precluso dal negare,

irridere ogni volta, declassare.

Tappeti volanti della gioia,

rapitela, intanto che si fonde

con l’entourage del diavolo

in cravatta, sottratta all’orbita sacrale

delle cose! Ruttate, vomitate

il vostro odio, da scaffale

ammuffito di mercato.

Alzatela più in alto, che si veda

la stolida vittoria, l’apparente

sconfitta della storia.

 

L’Altro Mondo

Un Dio che scartavetra,

che lacera, che ottunde,

che scalza dai troni delle false

identità, che vomita

sui tiepidi, che fonde

nel forno fumante del rimorso,

che infonde una speranza a strappi,

un amore ferito e calpestato,

una luce introvabile che abbaglia,

un’attrazione per lo spolpamento,

per l’inutile appello, la preghiera

sospesa sull’abisso, in cui intravedi

il fondo, il Volto,

l’esito finale: l’Altro Mondo.

 

Ad ogni costo

Si può guardare in giù, come una volta,

giurare che mai più, che in quella morta

gora non torneremmo in nessun caso.

Convincersi che l’altro è l’emozione

giusta, non la paura di rischiare:

questo ti chiede l’Ora, che ci porta.

Mi guardi da un pianeta desolato

che solamente all’alba rassicura.

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Canto presente 27: Antonio Pibiri

12 venerdì Gen 2018

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

≈ 1 Commento

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Antonio Pibiri, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Antonio Pibiri

Il romanzesco in medicina

I

Teatro anatomico. In anticipo sulla lezione.
Dovrò spaccare una testa, il pensatoio…
non un vaso di terracotta
con dentro i rotoli di Qumran.
Nei vecchi trattati leggo metodi
per disincastrare le suture. Parte seconda.
“ Scegli la testa di un individuo tra i 15 e i 20 anni..”
Altra cosa uno sbircio, senza gilda
di chirurghi alle spalle e figure
in nero con gorgiera.
La cavità dell’occipite dispera la visuale.
Infilerò solo due dita,
e rinvenuta l’anima, il sogno,
tentare la sorgente. Infine bere
dalle mani che illumina.

II

Sindrome di Urbach-Wieth:
calcificazione dell’amigdala.
Una stupefatta assenza di paura.
Solo i riflessi a difesa. Il paziente
smette di pagare le imposte,
evitare la notte urbana, i crocicchi,
i manganelli, i coltelli a cedimento
erettile, come da teatro surrealista.

I ministri del Re, terrorizzati, loro sì,
sottovoce per portici d’oro s’interrogano
se epidemica colpisce
intero il popolo, quale antidoto,
quanto tempo l’Impero.

III

c’è solo una novità radicale
ed è sempre la stessa: la morte
Walter Benjamin

Dopo i dovuti accertamenti
riflesso bulbare encefalo
il fiume di terra dalle viscere
chiesi al medico legale
di poterlo di grazia tenere
con me per qualche giorno
a casa nel letto di sempre
(disteso il volto sul volto)
quello contro la parete a fiori
sul limite dove frangono i vetri i righi
prima che venisse consegnato
al tavolaccio e divaricatori
del dottor Tulp.
Quale occasione migliore per
lo scettico: a sua disposizione
una favolosa specola
un morto con vista
sull’aldilà.

di prossima pubblicazione presso l’editore “L’Arcolaio”

 

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Canto presente 26: Stefano Guglielmin

24 venerdì Nov 2017

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

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poesia contemporanea, Stefano Guglielmin

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Stefano Guglielmin

Mamme vermiglie (da “Le volpi gridano in giardino”, Edizioni CFR, 2013)

I.

Se qualcuno provoca o sloga
chiedendo modifiche
o un suono accurato che la possa mutare
lei muta, sposa la conca, il cuneo
sfuma in un canto il grido
e per dispetto cambia mano, perno
ma è un immergere ratto
una prosa d’amore senza rima, in effetti
con tanti uomini e no, e bombolette
per scriverle dentro cose spray dove l’anima
salta, ma è un affare distratto
perché lei, come nessuno, separa i piani
biforca, per dire amore al giogo
e ancora mostrare, pulita, ai suoi figli
la bocca.

II.

Diventerà grande lo stesso, ai piedi del lutto
gronda di fontanelle e semi, per non cambiare
discorso o distrarsi. Potrebbe darsi
un nome diverso, un dominio segreto, e scaltra
vivere doppia: di qua la riva
dove quieta schiumare, di là il supplizio
la stiva, il bottino d’oro che non farà
notizia. Potrebbe, se volesse, farsi adorare
succhiare il petto, regnare, e invece sbava, ferma
sui quattro pungoli del corpo, cagna da riporto
in posa ai margini del bosco.

III.

Nell’ombra, come bianca resa di sposa
attesa. O animale da fratta o rovina
nella cartolina dal male.

C’è una marea in quel lampo, un pensiero
peso piuma che sguscia:

il corpo luccica in tanta samba
sembra nero. E così i suoi rami, maschi
che lei ribalta, sfida.

Sta tutta lì, pare, nella bolgia o come uccello
in salvia sulla brace. Sfalda i marmi ai glutei, sfiata.
Eppure la luce tiene in quella melma, suona

come vocale dolce quando fiume svasa.

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Canto presente 25: Alessandro Assiri

27 venerdì Ott 2017

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA

≈ 2 commenti

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Alessandro Assiri, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Alessandro Assiri

Inseguo sempre anch’io il mio dio che si ritira
E se rallento glielo scrivo: per favore fatti vivo

Me lo ricordo il tuo corpo offeso di fatica mi ricordo la carne che offuscava la gioia l’amore quello no l’ho aggiunto dopo ce l’ho messo io e non l’ho nemmeno scritto ma soltanto trapiantato ho immaginato un giardino l’ho annaffiato ho spostato Adamo ho tolto Eva per sottrazione qualcosa ci restava le mani appoggiate sotto al mento la liturgia dello spavento.

Caterina sapeva che ci sono medaglie che hanno solo
il rovescio. Pesa i capelli che ha perso il male che cresce poco a poco. Per Lo sciancato non esiste un’età dell’oro ai ritorni non ci crede e un’altra vita non la vede, fa una guerra tutta sua con i gesti progressivi del dolore confonde un nido con le sue radici altrove.

Non c’è nessun padre se non si è camminato una volta per mano nel profumo del pane e anche adesso che tu aspetti e io preparo il tempo dei saluti i miei morti son più pesanti dei vivi sono parole contro chili .

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Canto presente 24: Adriana Gloria Marigo

06 venerdì Ott 2017

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA, Poesie

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Adriana Gloria Marigo, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Adriana Gloria Marigo

Da  Un biancore lontano, LietoColle, 2009

 

*

Non è la luce distesa e

continua a darci conoscenza.

È l’intermittenza,

o l’ improvviso bagliore di altro

– luminoso – che schiarisce lo spazio

consueto, l’angolo remoto,

il varco dimenticato.

 

SPECCHI USTORI

Ci siamo donati specchi ustori.

 

Troveremo l’inclinazione perfetta,

il gradiente preciso, al fiammeggiare

sacro della luce che si spericola

capitombola dal colle entro le fronde

sopra un metallo di luna, forgiato

in fatica di fuoco.

 

Incendio senza cenere, transito divino

nel raggio che trasforma.

 

Da   L’essenziale curvatura del cielo, La Vita Felice, 2012

 

NEL LUOGO DEL TUO CUORE

 

Nel luogo del tuo cuore

incontrai il grumo incandescente

della tua corta follia

l’intollerabile calamità

del non esserti –

oggi che non riconosci la vela

io ti rivelo il vento

l’altezza della notte abbandonata

sulle rapide del giorno

nel duplice destino

di corolla e spina.

*

S’inclusero le tue parole

in una perla d’aria

 

– memoria tenue di universi –

 

mentre io sgranavo giorni

nei miei occhi di ninfa

mi feci vertigine d’ala

intesi l’ammanco originale

la tua nascita sotto un graffio di vento.

 

Da   Senza il mio nome, Campanotto Editore, 2015

 

*

Corifere le stelle

 

e a loro di luce rituale

dedita la luna

 

dalle sinopie del tempo alzammo

numero suono vocale

il barbaro colore primario

 

genio o follia

scorgemmo la faglia d’altro destino.

 

 

*

 

Perdimi, lasciami

ove più non s’intessono

fronda e nido –

indietro, alla morgana

 

mangia i semi di Persefone

dimentica la specie che sono

la cucitura eccellente

sulla veste di festa –

 

vivere ti è consentito

senza il mio nome.

 

Da   Astro immemore  (silloge inedita)

 

FRONTE OCCLUSO

(per giorni di pioggia)

 

Macerazioni in successione empirica

provano i cardini della roccia

l’irridente fragore del mare

che a me sodale frantuma

la chincaglieria del lago

 

finisterre occluso al largo.

 

*

 

Non fa cielo l’azzurro

che s’incaglia nel vetro

sposo di luce mattinale

 

manca l’aperto venetico

la trama fine d’aria che altrove

non arrischia il vago tinto.

 

 

 

 

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Canto presente 23: Rita Pacilio

15 venerdì Set 2017

Posted by Deborah Mega in Canto presente, LETTERATURA, Poesie

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poesia contemporanea, Rita Pacilio

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Rita Pacilio

*

LA VOCE È UNA PIETRA NERA

Billie dormiva anche di giorno

l’alcool lascia segni sulle gote

nel baffo tirato senza grazia

– la riluttanza della fede fallace –

 

si sdraiava con il corpo senza-corpo

nella stanza infantile dell’allodola

a otto anni sul pavimento del night

ingoiava i suoni e le interferenze

 

si trattenevano i singhiozzi nella voce

alta e nera di seppia. L’eleganza possibile

pettinava le particelle scure della storia

per abbassarle nella parola intima

 

basta questo per possedere la vita

ripetuta nella continuazione del chorus

laborioso, improvvisato, meditato piano

quando il sole dilata il centro e il suo chiodo.

 

BILLIE HOLIDAY, detta Lady Day (1915 – 1959), è stata una cantante statunitense fra le più grandi di tutti i tempi nei generi Jazz e Blues. Infanzia travagliata e dolorosa, a soli quindici anni, iniziò la sua carriera di cantante nei club di Harlem. Il suo stile è connotato da una vena sofisticata e da un timbro espressivo discorsivo, quasi recitativo, flemmatico. Unica nella sua interpretazione melodica del chorus è considerata la regina dell’improvvisazione.

(tratta da Il suono per obbedienza, poesie sul jazz – Marco Saya Edizioni 2015)

*

Sono il ciottolo ripudiato dall’oceano

mentre la vanga scava fino ai cieli d’estate

dove resta immobile il seme infuriato.

Difficile dirti adesso le foglie sulla via

quando file di formiche sui bordi

spalancano voragini nel suolo raffreddato.

Non chiedono perdono né fanno lamento

le facce dei degenti

sotto giornali stesi come coperte al sole

perché Dio li ama fino al mattino.

 

(tratta da Gli imperfetti sono gente bizzarra – La Vita Felice, 2012)

*

Ho parlato al tuo corpo fraterno

conficcato nella pioggia che lava

sollevato ruggiti sfibrati

per pietrificarne i momenti.

 

In questa scorza ci sentiamo stretti

provoca dolore la bruna pupilla

lo so, tu sai scucire la terra

una grossa onda sul nostro campo.

 

Rinascere dal poco movimento

ogni istante si converte

la riga che non fa triangoli

un’immagine che resta al centro.

 

Così ti riparo dalle voci

e fisso il segno delle parole

qui ti lascio lamento malato

custode di ossa imporporate.

 

Non cambiare l’odore al soffitto.

 

(tratta da Gli imperfetti sono gente bizzarra – La Vita Felice, 2012)

*

Avrei voluto piangerti con gli occhi di una vecchia

con le dita scuoiate e spaventose

dipinte sul mio volto scavato

caduta, graffiata dai calcinacci di sguardi gonfi

rabbrividita nel ventre ossuto

cupa e rabbiosa come un astro nella notte,

invece facevo il rumore di un ramo, umido, sradicato

bianco di acero, troppo smilzo

che sperava di indossare le tagliole nel terreno

un segno triste, cammino della memoria di tibie e cosce.

Avrei voluto farti tornare indietro dalla bocca dei vermi

aprirti alla luce di te stesso

sperare di cambiare il fregio dopo la pioggia

togliere la ruggine alla melma appiccicosa

e partorirti senza mestruo.

Avrei voluto farti scivolare dal mondo all’età di ottant’anni

dopo quaranta estati ammainate nell’erba secca

cresciuta sulla tua barbapapà.

Adesso continua a muoversi l’oscurità sulla tua schiena.

 

(tratta da Quel grido raggrumato – La Vita Felice 2014)

*

Non devi restituirmi la difesa

appuntire collera tra me e te

riparare nelle mani a forma di cuore

tutti i pensieri belli e tristi

che raccontano beltà sbarazzine,

 

non devi sbattere porte per dimenticare

il mento alzato agli uomini che ho

baciato. Non maledire

le parole dei poeti che mi hanno

 

voluta in sposa e poi copiata.

Non devi perdonare i dubbi di Romeo

il suo Pater Nostro in ginocchio

bruciato nelle lettere perfette

 

mai spedite. Che fatica

aprire gli occhi e trovarsi attorcigliata

sembrare un tuono, lunga, un fiume stretto.

Vedersi seminata, vangata

un miscuglio di quesiti spalancati.

 

(tratta da Prima di andare – La Vita Felice 2016)

*

Capiterà a tutti di essere una boa

in mezzo al mare, una boa

dalla forma di pesce supino

dalla voce umana con braccia di violino

 

al posto delle branchie l’anima

spugna polposa e fili d’erba i capelli.

 

Si diventa così quando si va via

 

un nome senza nome

rimasto tra le palpebre e la mente

giovinezze disperse in un altro viaggio.

Quando anche le viscere svuoteranno

 

residui della traversata

resteranno bucce vuote

involucri rancidi, mezzi sorrisi,

il seno ormeggiato.

 

Questo siamo quando lasciamo

una casa, un fiore, chi abbiamo amato.

Capiterà a tutti di essere una boa

 

in mezzo al mare, pesci, uccelli dal ventre tremante.

 

(tratta da Prima di andare – La Vita Felice 2016)

*

La copia 

Non potrai mai essere come me
non hai gli occhi verdi di marzo
quel silenzio pacato, tiepido
la fine del mio amore per l’inverno.
Non potrai avere capelli bianchi
ho impiegato anni per tenere riccioli
i ricordi. Copiare ciò che sono io:
le scale in ginocchio, il coraggio,
preghiere urlate, pianto la morte
degli uccelli caduti dai rami.
Non sei madre degli alberi
e ai limoni tu non sei mancata.
Queste rughe le vedi? Non sono tue
ci vogliono secoli di scavo
per arrivare al calco di Pompei
un bacio segnato dalle dita
dove non porti il cerchio dell’anello.
L’atteggiamento sì, la copia falsa
quando il vestito compri uguale
al mio. La voce, il tono, passi lenti,
la risata. Non sarai il porto d’armi
chiuso nel cassetto, labbra amare
attaccate alla libertà, la bandiera
della paura. Quella no, s’impiglia
alla miseria del desiderio nefasto
consola lo sfondo delle ossa inclinate:
domandare alla guerra la fotografia.
Il petto disfatto la mia miscela.
(tratta da L’amore casomai – Racconti inediti)

*

Non invidiatemi
ho la pelle vecchia e stanca
ho i capelli bianchi, li vedete?
Non vedete le ossa distese
quanti muri alzano tra me
e il vento?
Non invidiatemi perché non ho
l’orizzonte della verità.
Passo nella cruna arrugginita
dove separo gli occhi dal ricordo.
Non dovete invidiarmi
qui la tempesta mi ustiona intera.

 

(tratta da L’amore casomai – Racconti inediti)

 

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Canto presente 22: Anila Resuli

28 venerdì Lug 2017

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA, Poesie

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Anila Resuli, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Anila  Resuli

qui corpo trave argine dove non sente
il crampo il muscolo da cui sciogliersi
dove non argina il sangue non l’odore
chiama narici non luce l’occhio
prima del sole. qui corpo è trave
e trappola e sordo e arido bosco
è come chiamarlo la mattina dopo il buio. Continua a leggere →

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Canto presente 21: Veronica Pinto

14 venerdì Lug 2017

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA, Poesie

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poesia contemporanea, Veronica Pinto

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Veronica Pinto

#2

Che torni l’ape nel dramma del bosco
a indicarmi la via
e la rondine a ricordarmi del nido disfatto.
Venga ancora
La tigre sull’iceberg a incoraggiarmi, a nuotare
Un temporale a sentenziare la fine.
Ritorni il tuono a dirmi la verità che gli umani
non sapevano come.

Che possa ridiventare l’elettrone che ero
quel giorno notte d’anni fa, in orbita
sempre attratto dalla fusione.
Che si nasconda ancora la prateria nella manica
E nel colletto molti nuovi ami
Sulla mia bocca un morso di sole. Continua a leggere →

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Canto presente 20: Filippo Parodi

16 venerdì Giu 2017

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA, Poesie

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Filippo Parodi, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Filippo Parodi

Colloquio

La carne senza carne per raggiungerti e con-vincere,
i nervi deodorati, queste ossa che reinvento,
per le tue rigide altezze la mia soffice paralisi.
Il gioco di strozzarmi con la lingua incravattata.

In auto con mia zia

In auto con mia zia,
Lei guida e come un sacco mi trasporta, guardo intorno,
Il torace dilatato da Schubert e dai baci delle benzodiazepine,
La colpa di una gioia, non sono responsabile.
Io sono il nipote che scivola e sbadiglia, lo zaino tra le cosce, vibrante galleria,
Il giorno parla piano, la zia doma le ruote e le crudeltà d’asfalto, di
mare e così via,
E ha voce, nervi, linfa, maestà decisionale. Fucili tra i capelli, la zia sta lì a difendermi con le sue azzurre ombre, le perle nella borsa, le scatolette miste con il cibo per i gatti e poi
Mi chiede. Mi tormenta. Stracolma. Mi stordisce.
Le nuvole irrisolte, casette sopra i monti e le rate, le bollette, il pranzo, il giardiniere,
La zia stringe le marce e sa intonarsi con il mondo che
Mi sembra sussurrare farfalle di paura. Mi sembra si accartocci in abitata apoplessia. Ritorna a una pozzanghera di familiarità.
La zia che mi confessa che devo ancora nascere. Continua a leggere →

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Prisma lirico 6: Francesco Tontoli – Emanuele Dello Strologo

14 mercoledì Giu 2017

Posted by Loredana Semantica in ARTI, Fotografia, Il colore e le forme, MUSICA, Prisma lirico, Proposte musicali

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Tag

Emanuele Dello Strologo, Fotografia, Francesco Tontoli, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica  Prisma lirico, oggi presentiamo “Neo nati” una poesia di Francesco Tontoli, la fotografia di Emanuele Dello Strologo. In calce link e/o una breve biografia degli autori.

19075318_1775824289099976_398130573_n
Ai Neo nati

Eoni fa non eravate che idee
e or ora creati ancora impastati
di fango e di sangue
il vostro legame col sole
si spezza coi denti
e vi soffia quel fiato

sappiate che siete stati invissuti
che foste bevuti in un sorso di luna
che eravate la piuma che non si riposa
che assomigliavate a quei punti di stelle
che si congiungono a formare creature
più come cose sognate simili a dubbi
che vengono a chi si rivolta nel sonno

eravate i mille pensieri senza essere nati
col senno di poi i punti del corpo toccati
e benedetti da un rapido segno di croce
eravate nelle gambe di chi corre incontro all’amore
sulle dita di chi chiude gli occhi ad un morto
sostavate dentro una barca prima di prendere il mare
nelle mani del vento che gonfia lenzuoli e paure

e qualcuno di voi è rimasto un’idea
e qualcuno di voi senza verbo che incarna
ha salutato da un posto imperfetto i due sposi
come in un tempo infinito non coniugato
quel gemello che guarda e che cuce
la candida tela, il pezzo di stoffa del mondo
camicia che protegge da futura paura di vita.

testo di Francesco Tontoli

fotografia di Emanuele Dello Strologo 

Emanuele Dello Strologo, nato a Genova il 30 novembre 1969, si occupa da anni di fotografia, che, scoperta quasi per caso, è diventata la passione/professione che assorbe tutto il suo tempo.  Attraverso le immagini manifesta attenzione per le persone e la loro vita, raccontando di storie umane, quotidianità e vissuto, fissando nei propri scatti volti, momenti,  scenari, situazioni che resterebbero altrimenti sconosciuti, trascorrendo nell’indifferenza del mondo.  Specializzato in reportage e ritrattistica, collabora con Agenzie fotografiche di livello nazionale e internazionale quali Corbis e Getty Images, proponendo lavori fotografici sui temi di maggior interesse sociale.

http://www.youtube.com/watch?v=-chTTT8BRJo

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Canto presente 17: Sebastiano Patanè Ferro

05 venerdì Mag 2017

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA, Poesie

≈ 2 commenti

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POESIA, poesia contemporanea, Sebastiano A. Patanè Ferro

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Sebastiano A. Patanè Ferro

l’amore al tempo delle scimmie
la storia poetica

ha un rumore di fondo l’amore
come l’acqua che bolle
come un piccolo vento senza mani
albero chino a guardarsi le radici

false (carta da gioco)

una spiaggia piena d’orme sovrapposte
con una musa in centro e tante sedie a lato
come in una festa dove la tristezza vera
prende altre forme fino a diventare stella

falsa (approssimato viversi) Continua a leggere →

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Canto presente 16: Maria Grazia Calandrone

21 venerdì Apr 2017

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA, Poesie

≈ 1 Commento

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Maria Grazia Calandrone, POESIA, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Maria Grazia Calandrone

PIETÀ
da Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?”

Frammento in memoria

[…] ora sappiamo, poi che ne abbiamo rimosso il corpo
azzurro e cedevole, che lei era stata una cosa che non opponeva resistenza e adesso era
esaudita, mentre tubercoli
di larve ne intaccavano gli occhi e la canala dei liquami era stata
scavata profondamente
quanto
il fatto che chi se n’era andato non era più
con lei da molto tempo e lei aveva concluso nel corpo quel separarsi
lentissimo come in presenza di ostacoli e scendendo le scale quella mattina
con la fronte addolcita dal sole
sulla spalla
della piccola indiana con il nome da uccello aveva detto questo
essere stata in mani estranee è stata
la vita mia

Roma, 22 gennaio 2010 Continua a leggere →

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Canto presente 12: Antonio Fiori

24 venerdì Feb 2017

Posted by Loredana Semantica in Canto presente, LETTERATURA, Poesie

≈ 2 commenti

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Antonio Fiori, Canto presente, poesia contemporanea

Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Antonio Fiori

Il filo

che cuciva le carni
che ne conteneva gli spasmi
che tratteneva la gioia che davi
e il decorso dei giorni preziosi
che impediva il riaprirsi dei tagli
che ci univa nonostante gli altri
che voleva, voleva legarci…
non è marcio, ancora resiste
ha un capo che tiro ogni tanto
– lo senti, amore, quel filo di voce
che arriva di nuovo, miracolo,
al tuo lontanissimo capo ?

(inedita, pubblicata su fb)

Che dirti

Che dirti, sorellina, se non che scrivo da due anni a notte fonda
senza una penna, allo scarso lume del display
se non che amo senza farlo o lo faccio senza amore sull’onda
del ricordo o del sogno dove c’era lei.

Che altro ho da raccontarti che questi scampoli, scritti in qualche
pozzo di tempo sul misterioso desco dell’ufficio
con due telefoni nemici e una parola che all’improvviso parte
– piccola ancella, nunzia di scherzo o di cilicio.

da Trattare la resa, Solodiecipoesie, Lietocolle, 2009

Continua a leggere →

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