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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi autore: adrianagloriamarigo

“Traduzionetradizione” Quaderni internazionali di traduzione poetica e letteraria diretti da Claudia Azzola Quaderno n. 16 – settembre 2019

11 venerdì Dic 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Claudia Azzola

In copertina: “Morsa”, 1995, scultura in marmo rosa Portogallo di Elena Mutinelli – collezione privata

La rivista plurilingue Traduzionetradizione di cui Claudia Azzola è fondatrice e direttrice è il frutto di una precisa attenta cura verso la specificità della traduzione, le problematiche che insorgono nel trasferire la parola originaria in altra lingua, la questione della vitalità della resa del testo tradotto, poiché l’opera del traduttore comporta una serie di competenze e finezze sia linguistiche, sia lessicali, sia culturali, nonché inventive o immaginali, avendo chiaro che tradurre non significa sovrapporre, aderire, combaciare perfettamente le parole, i versi: la sovrapposizione esatta non è data per ragioni che nulla hanno a che fare con le scelte del traduttore, ma ineriscono alla questione della lingua, alla sua complessità che discende dalla complessità psichica poiché vive in stretto rapporto con gli individui che la parlano e assume in sé le variabili storico-geografiche, antropologiche, individuali; pertanto l’opera del traduttore si situa su tutti questi piani che, infine, riguardano la “significazione” del testo originario e, crucialmente, la psiche dell’autore nella sua dinamica immaginale, poetica. La direttrice Claudia Azzola, nella scelta dei testi da accogliere in Traduzionetradizione, si pone su questa linea di chiarezza, tenendo conto del rispetto del testo iniziale laddove è possibile e accettando l’invenzione del traduttore quando il testo originario presenta l’intraducibilità dovuta a espressioni che hanno ragione d’essere solo nella lingua in cui sono nate. Ed è qui, in questa forca caudina, che il traduttore si mostra decifratore del cosmo logico-immaginifico dell’autore,creatore, fiamma d’invenzione poetica, pur non raggiungendo mai la fossa delle Marianne del poeta, il segreto della parola nel suo fenomeno universale e personale.

 

Adriana Gloria Marigo

 

La rivista Traduzionetradizione si presenta in una veste sobria e raffinata: la copertina riporta sempre un’opera d’arte attenta a esprimere le «potenzialità dell’uomo»; i testi sono scelti tra le pubblicazioni contemporanee e attuali e tra gli autori che dimorano tra i classici. È diffusa e si consulta presso enti e librerie a Milano, Biblioteca Centrale Sormani; Libreria Popolare di via Tadino; Biblioteca Vigentina; Spazio–Studio Emilio Tadini; presso istituti universitari, a Trieste, Istituto Universitario per Traduttori e Interpreti; a Pavia, Centro per gli Studi sulla Traduzione Manoscritta di Autori Moderni e Contemporanei dell’Università; a Roma, Centro Nazionale dei Libri; a Pistoia, Centro Documentazione Periodici; a Londra, Royal Festival Hall, Poetry Library; National Poetry Society; London Library di St. James’s Square; Archives Modern Poetry in Traslation; Temple Lodge Club, Hammersmith; ed è presente a Festivals in Regno Unito; a Parigi, libreria La Tour de Babel; a Monaco di Baviera, Lyrik Kabinett ; iscritta all’Observatoire Européen du Plurilinguisme; iscritta al Pen Club Internazionale.

 

Nel numero 16 Traduzionetradizione presenta:

 

Paolo Febbraro, poeta e saggista

Adam Elgar, traduttore in inglese

Mariano Bargellini, scrittore

Sylvie Durbec, poetessa francese, in questo numero, traduttrice

Steven Grieco Rathgeb, poeta americano–svizzero–italiano, scrive in inglese e in italiano

Chiara Catapano, poeta e traduttrice dal neogreco

Nanni Cagnone, poeta e saggista

Stephen Sartarelli, traduttore in inglese

Mara Cantoni, cantautrice, drammaturga e regista

Ugo Foscolo, in versione inglese di Adam Elgar

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Giorgio Bolla: “Among Water, Angels and Wind”, Gradiva Publications, 2020. Quattro poesie e un commento breve.

20 venerdì Nov 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Giorgio Bolla

 

Giorgio Bolla: “Among Water, Angels and Wind”

Gradiva Publications, 2020

Prefazione di Plinio Perilli

Traduzione di  Carolina Migli Bateson

Quattro poesie e un commento breve

 

Le quattro sezioni della raccolta che include Storie di acqua, di angeli e di vento – prima parte che ha avuto precedente nascita per i tipi de La Vita Felice, 2013 – accolgono le voci dell’esistere secondo il doppio canone del sentire  e del sentimento; costruiscono un cosmo pervaso dal tessuto finissimo degli affetti in cui s’inverano, ineludibili, il tempo e le sue trame ora inebrianti, ora tremende cui si è chiamati a rispondere con tutta la partecipazione del sentimento, del pensiero: meridiani inevitabili che Giorgio Bolla percorre con l’intima osservazione di sé in relazione all’altro che vive nella vibrazione del “tu” e della domanda inquieta intorno a ciò che esiste e mostra l’impressum della solitudine, la condizione della precarietà che talvolta sembra eludersi per il tocco di una smemoratezza preservata dal non dover «scegliere / tra conoscenza e non / conoscenza.», di un felice rituale in cui «Le storie a volte / si abbracciano tra loro». Affiora nel verso, chiaro, il sottostante intelletto gentile, l’armonica aura della visione del mondo che non rinuncia a se stessa neppure nell’incontro con ciò che genera il tremore dello smarrimento.

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

Da  Storie di acqua, di angeli e di vento   (Poemetto, 2013)

      Stories of Water, Angels and Wind        (Poem, 2013)

XXIII

L’albicocca del tramonto

assiepa le sue strane

andature

per declivi ed uscite.

Torna il solco

del tempo

a violare i pensieri

o scordare i sassi

in fiumi di verde

imbarazzo.

 

Nel rampare

dei tuoi colli,

a salire

il giorno.

 

 

XXIII

The apricot of the sunset

hedges its strange

ways

for slopes and ways out.

Returns the crack

of time

to violate thoughts

or to forget the pebbles

in strams of green

shame.

 

In the rampage

of your hills,

to rise

the day.

 

 

 

Da  Preghiere oltre se stesso   (Poemetto, 2016)

      Prayers Beyond Oneself  (Poem, 2016)

XI

Il mio cuore

è come

una foglia gialla.

 

Le righe di luce

nel cielo della fine

del giorno,

aria grigia votata

alla notte.

 

 

XI

My heart

is like

a yellow leaf.

 

The stripes of light

in the sky of the end

of the day,

grey air devoted

to the night.

 

 

Da  Il prete dei fanciulletti  (Don Lorenzo Milani)

      The Priest of Young Ones  (Father Lorenzo Milani)

XVIII

Continui nel tuo

andare,

non lasci il sudore

della cultura,

e nemmeno quando provano

a chiedertelo.

 

 

XVIII

You go on with your

going,

not a sweet

of culture,

not even when They try

to ask You.

 

Da  Miei sensi

      My Senses

VISIONE

È forse il mio

Signore

quell’albero solo

sul pendio?

Salgono le vesti

come uccelli arrivati

dal mare

e rompono, attaccano,

scelgono le folate dei venti,

come sicure

del futuro

dell’acqua e

delle parole.

 

 

VISION

Could

my Lord

be

that lone tree

on the hill?

Rise the gowns

like birds that came

from sea

and they break, attack,

they choose the gusts

of winds,

as sure they are

about the future

of water and

words.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Paolo Menon:  “Scena aperta”, Simonelli Editore, 2019. Sei poesie e un commento breve.

06 venerdì Nov 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Paolo Menon, Scena aperta

Paolo Menon:  “Scena aperta”, Simonelli Editore, 2019

Prefazioni: Luciano Simonelli “Esordio”; Claudio Pina “Notizia”

Sei poesie e un commento breve

 

In Scena aperta Paolo Menon, con chiara cognizione di essere nella spirale potente dell’atto creativo, presenta un cosmo poetico in cui esprit de finesse e esprit de géométrie s’incontrano nel caleidoscopio di «memorie esperienziali anche dolorose, quasi mai analgesiche per l’anima»: la restituzione di tale icastica relazione sono i testi organizzati secondo il canone del teatro: tre atti in cui si scolpiscono impressioni motivi accadimenti auscultazioni che agiscono sul piano dell’individuazione: ogni poesia è una creatura che emerge dallo spazio, dal tempo, dal mitologema sentiti ineludibili, canapi che ancorano proteggono ispirano rigenerano – quasi un rituale – il poeta, la sua intelligenza emotiva costantemente chiamata alla forza forgiante la materia della vita, coniugando la luce e l’ombra, la loro interferenza. L’interiore necessità dell’assetto dell’armonia trova esistenza nell’ordine mimetico del logos della rappresentazione teatrale la cui energia e propulsione s’innestano nel perfettibile, nella ferita desiderante la guarigione, lasciando trapelare che ogni opera guaritrice s’intrama di un’opera regolatrice i cui crediti s’inscrivono nel riconoscersi nella propria inevitabile autenticità.

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

Da  ATTO I  – Spazi reali e spazi simbolici

 

Coreuti in scena

 

Così diversi

e unici, così litici e fragili:

come gocce d’acqua

abbiamo scavato la pietra,

eppure

in quel solco

dilavato

non scorre

che sangue

di cui siamo intrisi:

chi mai ci restituirà l’incanto

aurorale?

 

 

Scaenarium

 

Nelle viscere della bellezza

sprofondo.

Immerso in essa annaspo

tra i versi fetali di un amniotico carme

e risalgo – rigenerato –

nelle affollate solitudini

del creare.

 

Da  ATTO II  – Scenografie della parola

 

  1. Scena aurorale

 

Nei forami

della dorsale notturna

corre un brivido

che raggiunge Eos:

 

sbadiglia

e sonnecchia il sole

che – stirandosi –

srotola nubi tenebrose

stemperandole,

spettinandole, sormontandole

colorandole, stringendole

finché – sospinto il purpureo plasma aurorale –

non disvela

il logos nell’alba.

 

 

XIX.  Scena notturna

 

Finché il sole lo permetterà

potrai incatenare

la mia ombra alla tua

al flusso

dei tuoi desiderî

ma dal tramonto all’aurora

le speranze – a lungo

detenute – si scateneranno

per condurre le tue

al guinzaglio tra gli ingannevoli

cocci filosofali – ritratti

di vacche e pavoni per Hera –

entro le mura dell’isola

di Samo.

 

 

XXXI.  Scena silvana

 

S’acquietano gli acufeni

e d’un tratto

il latrato dei cani e il belìo degli agnelli

e il battibecco

sgraziato

dei corvi

e il fischio tra i lauri dei merli

si fanno musica

e balsamo di Driadi.

 

Da  ATTO III  – Scenografie d’azione scenica

II

E mentre bramivano i cervi

e i lupi ululavano

allarmati,

il sisma inghiottì pure la breve distanza

che sino a quel momento

separava le prede

dai predatori.

… di pari passo, ma non da meno, l’immane tragedia

raggiunse l’apice dell’ineluttabilità il 28 luglio 1976

            a Tangshan, in Cina: 242.769, stimate 650. 000 vittime!

                          [ Scossa tellurica di magnitudo 7,8 Richter ]

 

 

Biobibliografia

Paolo Menon (Villanova del Ghebbo, Rovigo, 1950) vive a La Valletta Brianza, Lecco. Ha compiuto studi di grafica a Milano e nel 1973 ha fatto parte del team grafico della Rizzoli Editore. È giornalista professionista dal 1982. Ha ricoperto ruoli di art director e direttore di periodici nazionali. Studioso dell’arte nel cui ambito redige saggi e cataloghi, è scultore e tiene mostre nazionali e internazionali. Scrive articoli e studi in particolare su vino e mito dionisiaco di cui è esperto e raffinato cultore. È poeta e scrittore di racconti brevi. Dal 2010 è membro della Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente di Milano. Inserito in numerose antologie letterarie tra cui Inferis, Tetralogia Dantesca, Centro Lunigianese di Studi Danteschi (2008), in poesia ha pubblicato: Pietre d’inciampo, Bellavite Editore, 2018; Della Vite il pianto, e altre poesie 1967 –2017, Bellavite Editore, 2017; Sorsi dionisiaci, Edizioni Pulcinoelefante, 2012. Molti i saggi culturali, in particolare si menzionano: L’uomo da Dioniso a Cristo, Bellavite Editore, 2011; Oinodes – le forme del bere e altre che sanno di vino, ispirate alla mitologia ellenica, all’eros, alla religione, alla politica –, Edizioni Museo Remo Bianco, 2010; Il bello di Bacco – appunti di viaggio nelle eleganti terre enoiche dell’arte, Edizioni Centro Diffusione Arte di Milano, 2009; Dei tirsi divini – rilievi di luce bronzea nel tempio onirico di Dioniso, Edizioni Altamarca, 2006; Per vino e per segno – le più belle etichette d’autore vestono il vino italiano -, Vol. 2, Edizioni Centro Diffusione Arte di Milano, 2004 e Vol. 1, 2003. Molti i premi e riconoscimenti, il più recente: Premio Letterario Internazionale “Gian Antonio Cibotto”, primo premio per la poesia inedita Cambio di scena agreste, Rovigo, 2018.

 

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John Taylor: “oblò / portholes”, Edizioni Pietre Vive, 2019. Postfazione di Franca Mancinelli: “In ascolto dell’oblò”. ~ Sei frammenti e un commento breve

23 venerdì Ott 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, John Taylor, oblò / portholes

“oblò / portholes”, traduzione di Marco Morello; illustrazioni di Caroline François-Rubino

 

Tra Samos, Agosto 1976 e Bessans, Agosto 2014, nella coniugazione alchemica di mare e montagna in tempi distanti tra loro, il poeta John Taylor matura le sedimentazioni psichiche di un viaggio materico intimistico spirituale avvenuto nell’Egeo dove la potenza eliaca della luce scolpisce frammenta esalta le forme, il genio del mare induce l’occhio del poeta a lambire in modo immaginale le acque secondo uno sguardo affine alla visione: l’indistinto invia segnali che presto scompaiono, ma hanno l’intensità dell’intermittenza, dell’annuncio di un enigma, di un barbaglio che ha il tempo di incidere impressivamente l’attenzione per la quale la forma circolare dell’oblò è essenzialmente il segno orbitante del Sé, che nel paesaggio marino e celeste dell’isola trova motivo di rivelazione ed espansione. Ma quell’oblò, basso continuo della silloge che consente la vista del mare come fosse – in taluni frammenti – cielo rovesciato, assomiglia anche alla nephéle photeiné, la nuvola luminosa che nella sua fenomenologia numinosa, sommuove l’immaginazione, coinvolge la rêverie, ridesta voci sommerse, s’insinua nella profondità prima di tracciare la superficie dello spirito: avviene un’opera di maieutiké per la quale l’atomismo del linguaggio poetico in oblò – portholes acquista forza di immagini sicure che non si disperdono, ma si muovono e inaugurano l’iridescenza dello spazio vitale in cui irrompe, si autogenera ancora una volta la facoltà immaginale della scrittura poetica.

 

Adriana Gloria Marigo

 

sagome cancellate
la notte emerge
le parole
si confondono
 
l’oblò
è l’ultima forma rimasta
 
 
 
la foschia
appanna il vetro
 
sull’acqua
immaginata
delicatezza
di foschia
 
 
 
scurire questo lato
così l’altro lato
trattiene
più a lungo
la luce
 
 
 
dal sole
alla luna
 
avvolto o svolto
dalle nuvole
 
luccicanti
il mare
la riva
 
 
 
L’oblò
del ricordo
 
che cerchia
tingendo
di blu
la vacuità
 
 
 
fu all’alba
la partenza
 
o al crepuscolo
 
o a mezzogiorno
delfini come
strati nuvolosi
sulle onde
la luce solare
soggiogata
sovrana
 

 

Biobibliografia

John Taylor è scrittore e traduttore. Nato nel 1952 a Des Moines (Stati Uniti), vive in Francia dal 1977. È autore di racconti, prose brevi e di poesie. Tra i suoi libri più recenti: The Dark Brightness (2017), Grassy Stairways (2017) e Remembrance of Water & Twenty-Five Trees (2018). In italiano sono usciti, nella traduzione di Marco Morello: Gli Arazzi dell’Apocalisse (Hebenon, 2007), Se cade la notte (Joker, 2014) e L’oscuro splendore (Mimesis-Hebenon, 2018). Portholes (Oblò) è in uscita nell’autunno 2019 per Pietre Vive Editore. Ha tradotto dal francese diversi poeti tra cui Philippe Jaccottet, Pierre-Albert Jourdan, Pierre Chappuis, Pierre Voélin e José-Flore Tappy. Nel 2013 ha vinto il premio dell’Academy of American Poets per un progetto di traduzione delle poesie di Lorenzo Calogero: An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 (Chelsea Editions, 2015). Recentemente, ha tradotto Libretto di transito di Franca Mancinelli: The Little Book of Passage (The Bitter Oleander Press, Fayetteville, New York 2018).

 

 

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Recensione di Silvio Aman a “Poesie Controcorrente e Racconti in versi” di Fabio Dainotti

16 venerdì Ott 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Fabio Dainotti, Silvio Aman

 

Fabio Dainotti: Poesie controcorrente e Racconti in versi

La Biblioteca dei Leoni, 2020

Prefazione di Paolo Ruffilli e postfazione di Carlo di Lieto

 

In questa breve raccolta Fabio Dainotti scrive dell’amore colto nelle sue curiose varianti (presenti nella sezione di apertura Strani amori) e lo fa con ironica grazia: ironia del resto già implicita nello scorrere del tempo. Nel libro rivivono, infatti, figurine ormai lontane: non com’erano, e non saranno mai, perché il loro regno è la memoria in cui il poeta ricorda, assieme alle giovanili, anche quelle che parrebbero appartenere a foto o cartoline d’epoca (impiegando le voci ormai non più in uso di “decolleté” e “galante”) con un tocco di vaga melanconia, come In visita dalla sezione Figurine, dove l’ospite compare a cavallo…

 

Quasi ogni giorno venivo a trovarti

nella casina bassa,

affondata tra il verde dei cespugli;

legavo il mio cavallo

alla grata di ferro del giardino

(p. 19)

 

in Festa galante…

 

Il bocchino, i capelli impomatati;

lusinghiere parole.

Un décolleté di donna,

morbida nel guardare, lenta a dire.

 

Una musica triste al pianoforte.

Indistinta, nel fumo dei liquori,

la voluttà di perdersi e trovarsi

(p. 27)

 

e in La passeggiata, che ricorda certi dipinti fin de siècle, uno dei quali (Signora con cappello, di Federico Zandomeneghi) occupa la copertina…

 

La littorina fermava

in un viale alberato a Milano;

era giugno, la luce dilagava.

 

Vimercate: fermata in pieno centro,

tra un’edicola in fiore di giornali

e il chiosco per la musica d’estate.

 

Le signore sfilavano eleganti

con ombrellini al braccio.

 

Nei versi di Sulla corriera trapela invece qualche vaga reminiscenza di Penna:

 

Sulla corriera azzurra,

il ragazzino è biondo, ben vestito:

indossa un farfallino.

 

Ragazzino spigliato, perché non esita a stringere “tra le sue,/ le gambe della bella sconosciuta” per poi spaventarsi:

 

La donna dorme. Finge? Il sole,

nel tramontare, incendia la pianura.

 

Il ragazzetto pensa: “E se si sveglia?”

Così lascia la presa, spaventato.

La luna sorge. Il sole è tramontato.

(p. 24)

 

Gustoso contrasto psicologico fra il desiderio, riflesso nel sole al tramonto (in contrasto con la giovane età del ragazzo e non forse della donna dall’“aria vissuta”) che “incendia la pianura” e il timore pronto a spegnerlo col sorgere della luna. La grazia presente in questi quadretti sta anche nel rimpicciolimento dovuto ai diminutivi (casina, cavallina, ombrellini, canzoncina, biondino, farfallino, ragazzino, fidanzatini) con l’effetto di allontanare le immagini, mentre la rima Vimercate : estate (l’edicola dei giornali, pur “fiorita” non è un grand’Hôtel, né il chiosco della musica il salone delle feste a Monaco o a Baden Baden) suscita un senso di riduzione in termini provinciali, probabilmente ironica, ma non malevola. Il ragazzino ritorna nella poesia Triangolo in cui il contrasto sta fra la sua timidezza e lo scherzo sfacciato dell’amante:

I due amanti s’allacciano sull’erba

scambiandosi baci di fuoco.

Il ragazzino sta in disparte, timido.

– Puoi venire anche tu, se vuoi! – fa lei

con aria di sfida.

 

In Piccolo caffè o dei primi rendez-vous, abbiamo, invece, il ricordo dimesso e gentile delle cose minuscole:

 

There is a pleasant little café there,

un piccolo caffè dove noi due

ci appartavamo. Era bello parlare,

noi, soli al mondo.

 

C’era una siepe in vasi tutto attorno.

Stavamo seduti noi due soli

come i fidanzatini di Peynet.

(p. 33)

 

La siepe con i vasi “tutto attorno” forma, appunto, un piccolo mondo quasi incantato, se qui non si trattasse di un addio, ma a questa poesia-ricordo segue con ben altro tono La tastiera o del trionfo dell’amore, perché dopo il diteggio amoroso (“suono sulla tastiera del tuo corpo/ le musiche più belle e più dolenti,/ malinconiche, ardenti,/ prima e dopo l’amore”) compare, nella staccata e ultima duina, una svolta inquietante:

 

Quando sorridi, scopri bianchi denti

come una creatura di Allan Poe.

(p. 14)

 

La creatura, nelle Opere di Poe, è Berenice, cui il cugino, nel delirio dell’idée fixe, strappa i denti, che qui, con gli omoteleuiti in -enti, richiamano la tastiera. Si tratta di svolte non prevedibili, come in Fuma l’affari? (in dialetto) dove l’autista chiede all’Agostina di uscire e fidanzarsi, sennonché, dopo la serata al cinema…

 

Nel ricondurla a casa, lui parlò

(e avrebbe fatto meglio a stare zitto):

“Allora, facciamo l’affare?”

(p. 55)

 

Anche la psicologia femminile ha qui la sua parte:

 

“Non ho niente da mettermi”; e piangeva

con i singhiozzi, come una bambina,

mia madre. E io n’ebbi pena, come

se mancassero i soldi per mangiare

e non, semplicemente, nell’armadio

un abito da sera.

(p. 43)

 

Il libro ci offre, insomma, un continuo altalenare di ricordi con drammi, pianti, sorrisi e ingenue truffe (come in Il viaggio in cui una madre corre da Padre Pio “per sapere il destino ultraterreno” del figlio annegato, e lui: “Non preoccuparti”, le rispose, “è salvo”.) che la commovente poesia Una chiesa laggiù (dalla sezione Amor sacro) disperde a favore di un’auspicata e pacificante cancellazione…

 

C’è una chiesa laggiù, ci si arriva

da un vicolo in discesa, che costeggia

un giardino alberato con le aiuole.

 

C’è uno zampillo chiaro nel giardino,

che canta una sua canzoncina,

di sole quattro note,

ma vorresti ascoltarla sempre, sempre.

 

È l’acqua primordiale della nascita,

che ti culla e ti invita ad annullarti,

come una macchia, nella nuda terra.

(p. 47)

La chiesa, nominata all’inizio, ma non raggiunta “laggiù” ci ricorda l’acqua del battesimo e, assieme all’unione spirituale con la divinità, il memento mori, mentre lo zampillo terreno suscita l’invito a sentirsi cullati dalla sua canzoncina (eterna ninna nanna) per tornare, senza memorie, neppure le cristiane, in seno alla madre… terra.

 

Silvio Aman

 

Biobibliografia

Fabio Dainotti (Pavia 1948), presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana, di cui è stato per anni presidente e direttore, condirige l’annuario di poesia e teoria “Il pensiero poetante”. Pubblicazioni di poesia: L’araldo nello specchio (Avagliano editore, 1996); La ringhiera (Book, 1998); Ragazza Carla Cassiera a Milano (Signum, 2001); Un mondo gnomo (Stampa alternativa, 2002); Ora comprendo (Edizioni Scettro del Re, 2004); Selected Poems (Gradiva, 2015); Lamento per Gina (Genesi, 2015, Primo premio “I Murazzi”); in edizione bilingue Requiem for Gina and other poems (Gradiva, 2019). Collaborazioni con numerose riviste di settore, tra cui: “Capoverso”, “Misure critiche”, “Gradiva”; come conferenziere, ha trattato argomenti di letteratura e di interesse dantesco e commentato canti della Divina Commedia. La rivista “Poesia” si è occupata criticamente della sua opera; RAI TRE ha dedicato servizi su eventi da lui promossi. Per l’editore Bulzoni ha curato la pubblicazione de Gli ultimi canti del Purgatorio dantesco (2010).

 

 

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Victoria Surliuga: Le conchiglie di Ezio Gribaudo / Ezio Gribaudo’s seashells. Gli Ori Edizioni, Pistoia 2019. Recensione di Silvio Aman

02 venerdì Ott 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Silvio Aman, Victoria Surliuga

 

                                LES COQUILLAGES
 
 
Chaque coquillage incrousté
 
   Dans la grotte où nous aimâmes
 
                A sa particularité.
 
 
       L’un a la pourpre de nos âmes
 
      Dérobée au sang de nos cœurs
 
      Quand je brûle et que tu t’enflammes;
 
 
      Cet autre affecte tes langueurs
 
                 Et tes pâleurs alors que, lasse,
 
      Tu m’en veux de mes yeux moqueurs;
 
 
    Celui-ci contrefait la grâce
 
      De ton oreille, et celui-là
 
              Ta nuque rose, courte et grasse;
 
 
   Mais un, entre autres, me troubla.
 
 
                       Paul Verlaine

 

In questa nuova opera bilingue (italiano e inglese) dalla struttura del libro a fisarmonica sono presenti 39 dipinti di conchiglie con rilievi di caratteri tipografici nello stile dei logogrifi iconici di Ezio Gribaudo. Con l’espressione “universo di temi, immagini e concetti” riferiti allo “scibile del mondo umano e animale”, Victoria Surliuga indica il modo in cui l’artista articola il proprio lavoro. Il termine “scibile” derivato dal tardo latino schīre – sapere – riferito alle opere di Ezio Gribaudo, prende, tuttavia, una direzione cui si addice il titolo Carnevale marino offerto alla serie pittorica dei suoi animali pelagici (esposti nel 1994 alla Galleria del Leone di Venezia e nel 1995 alla Galleria il Leudo di Genova, non a caso città marinare) nati dai viaggi dell’artista in India, Australia e Nuova Zelanda.

Il mondo inorganico, vegetale e animale si presenta già come il grandioso carnevale della creazione esplorato da geologi, botanici e zoologi nel loro tentativo di dominarlo e classificarlo tramite la tassonomia. Ciò che qui interessa, riguarda l’elaborazione delle figure malacologiche da parte di Gribaudo. Essa avviene imprimendo loro un effetto di atavica lontananza per mezzo delle varianti trasformate in parvenze dell’oggetto iniziale cui la studiosa rivolge i suoi dotti riferimenti, citando ad esempio la celebre conchiglia bivalve o “a pettine” appartenente alle veneridae sulla quale Botticelli ci mostra, appunto, la dea Venere. Surliuga spiega che questo tipo di conchiglia, profusa in molte decorazioni architettoniche, è la stessa portata dai fedeli al ritorno da Santiago di Compostela visibile sui “sanrocchini” (il corto mantello indossato da San Rocco, dal Papa in visita pastorale e dal Griso manzoniano durante la sua spedizione nel tentativo di rapire Lucia, come si vede nell’incisione del Gonin). In una raffinata e poetica tavola del libro in questione appaiono altre specie, ma come un’eco visiva di lontanissime ere: “emblemi di un tempo lontano, icone di storie del mare che diventano archetipi come nel simbolismo acquatico e femminile descritto da Mircea Eliade” precisa la studiosa.

Gribaudo, nel cui lavoro “è presente la continuità storica” sceglie di volta in volta “temi, immagini e concetti” (può, infatti, trattarsi di paesaggi, gabbie, pinocchi ma per trasformare l’immagine oggettuale, qui associata ai caratteri mobili di Gutenberg, nell’iter giocoso di una variazione continua. Si tratta di riprese presenti in alcuni musicisti laddove compongono variazioni sul tema tratto da altri compositori per il suo charme, il je ne sais quoi, direbbe Vladimir Jankélévitch: un caso noto è Spiegel im Spiegel di Arvo Pärt tratto dal primo libro del Wohltemperierte Klavier di Bach, mentre nel Bolero di Ravel abbiamo la ripetizione del motivo storico con il suo crescendo dinamico e orchestrale.

La differenza introdotta da Gribaudo concerne sì la ripresa della figura tematica, ma senza perdere di vista la diversità tassonomica delle conchiglie, appunto seguendo l’idea dello scibile ricordato dalla Surliuga. Egli le modifica, inoltre, in base al suo “zoom visivo” e non solo tramite il gioco a due piani causato dall’interferenza dei caratteri Gutenberg. Questo per dire che della conchiglia si può cogliere l’insieme trasfigurato (il suo vagante fantasma iconico) o, per via metonimica, le proprie tessiture come succede una volta smarrita la forma di riferimento, cioè le tracce filamentose e quegli arcipelaghi maculari che della natura ci mostrano micro-visioni informali. Ma non solo, perché il movimento associativo porta Gribaudo a spostare l’attenzione su altri elementi pelagici come pesci, alghe e incrostazioni calciche in una sorta di empatia creativa fra arte, scrittura e natura. Certo, qua si tratta di un orientamento catalogatore del mondo visivo (Surliuga) in versione artistica, sennonché la conchiglia, oltre all’aspetto simbolico legato a Venere e all’universo pelagico, possiede l’auditivo (è noto il gesto di appoggiarla all’orecchio per ascoltare il riflesso sonoro del mare) e il recondito, se pensiamo che la sua conca – da cui deriva il nome conchiglia – può contenere l’Àgalma (mi riferisco al Seminario di Jaques Lacan dedicato al transfert) cioè l’oggetto a piccolo causa del desiderio: nel nostro caso la perla nascosta.

Gribaudo con la sua serie malacologica indica la riproduzione del tipo da parte della natura, ma la cui piega è ogni volta differente, come si nota benissimo dai suoi dipinti con la continua variazione delle linee ondose, alludendo così anche al passaggio dalla sincronia del soggetto (com’è rappresentato dai pittori di nature morte) al suo flusso diacronico suggerito dai caratteri tipografici: qualcosa che, sia pure sul piano visivo, potrebbe inoltre richiamare per via sinestetica il movimento sonoro dell’onda marina.

Per gentile concessione della Rivista di Studi Italiani (n. 2, 2020)

Biobibliografia

Ezio Gribaudo (Torino, 1929), artista e editore d’arte formatosi nel rigore di intensi studi di arte grafica, all’Accademia di Brera e successivamente presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, aprendo il suo percorso artistico e professionale al lavoro di editore d’arte per le maggiori personalità dell’arte moderna e contemporanea, ha avuto modo di collaborare con Chagall, de Chirico, Fontana, Guggenheim, Miró, Moore. Ha realizzato volumi per le Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, Fabbri Editori, Garzanti, Einaudi, UTET e molti altri. Il suo catalogo di libri, i trentaquattro artisti pubblicati sotto la sua direzione nelle Grandi Monografie Fabbri Editori (1966-1990), include varie voci di maestri dell’arte moderna tra cui Bacon, Botero, Burri, Duchamp, Guttuso, Manzù e Savinio. L’attività di Gribaudo, che ora è unicamente concentrata sulla sua produzione artistica, nel corso degli anni ha incluso quella di promotore di notevoli eventi culturali, soprattutto nel settore espositivo. A Torino, ha organizzato una mostra della Peggy Guggenheim Collection nel 1976 alla Galleria Civica d’Arte Moderna e la mostra-spettacolo Coucou Bazar  nel 1978 per Jean Dubuffet alla Promotrice delle Belle Arti, organizzata per la FIAT. Inoltre, Gribaudo è un collezionista di classici di arte moderna e le opere da lui acquisite includono opere di Calder, Carrà, Chemiakin, de Chirico, Dubuffet, Ernst, Fontana, Matta, Moore e Tàpies.

Victoria Surliuga è professore associato di studi italiani, coordinatrice del programma italiano e coordinatrice mondiale del cinema presso il dipartimento di lingue e letterature classiche e moderne della Texas Tech University. Ha studiato Letteratura comparata al Mount Holyoke College e ha conseguito un Master presso la Brown University e un Ph. D. dalla Rutgers University in Italian Studies. È una studiosa di arte, cinema e letteratura italiana moderna e contemporanea, nonché poetessa e traduttrice. Pubblicazioni: Seashells di Ezio Gribaudo (Pistoia: Edizioni Gli Ori, 2019; in italiano e inglese); Ezio Gribaudo: Enchanted Archaeology (Pistoia: Edizioni Gli Ori, 2018; in italiano e inglese);  Ezio Gribaudo’s Landscapes (Torino: Archivio Gribaudo, 2018, in italiano e inglese); Ezio Gribaudo: My Pinocchio (Pistoia: Edizioni Gli Ori, 2017, in italiano: Ezio Gribaudo: Il mio Pinocchio ); Ezio Gribaudo: The Man in the Middle of Modernism (New York-London: Glitterati, 2016; Texas Tech University First Place President’s Faculty Book Award for 2017-2018); il volume di traduzioni delle poesie di Giampiero Neri Natural Theatre: Selected Poems (1976-2009), Edition and Introduction; New York: Chelsea Editions, 2010; Nell’epoca del gremito: Conversazioni con Giancarlo Majorino (Milano: Edizioni Archivi del ‘900, 2008); Uno sguardo sulla realtà: L’opera poetica di Giampiero Neri (Novi Ligure: Joker Edizioni, 2005). È autrice di sei libri di poesie, di cui il più recente è Shadow (Las Cruces: Xenos Books, with Chelsea Editions and the Raiziss-Giop Foundation, 2018).

Silvio Aman, poeta, scrittore, saggista, critico letterario ha curato il volume di saggi Memoria, mimetismo e informazione in teatro naturale di Giampiero Neri, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 1999 (prima raccolta di saggi in Italia sull’opera di Neri); l’antologia di poeti svizzeri Brigjet/Sponde, Gjakovë, 2015; l’edizione di un’ampia antologia di poeti e scrittori svizzeri di lingua tedesca, francese, reto-romancia e italiana (con inediti di Giorgio Orelli) in “Hesperos” (annuario fondato da Silvio Aman), Milano, La Vita Felice, 2001. Ha pubblicato la monografia Robert Walser, il culto dell’eterna giovinezza, Milano/Lugano, Giampiero Casagrande, 2009, inserita nei programmi di lettura del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere dell’Università Statale di Milano e del Piemonte. Un suo saggio è inserito nel volume La poesia della Svizzera italiana (a cura di Martin Maeder, Università di Lovanio, e Gian Paolo Giudicetti, Università di St. Gallen), Poschiavo, CH, L’ora d’oro, 2015. Ha curato libri di autori svizzeri per la casa editrice LietoColle. Libri editi di poesia: Sinfonia alpina (pref. di Gilberto Isella) Balerna, CH, Edizioni Ulivo, 2004; Nel cuore del drago (pref. di Guido Oldani) Novara, Interlinea Edizioni, 2005; Ariele (a cura di Giancarlo Pontiggia con postf. di Paola Loreto), Moretti & Vitali, Bergamo 2010 – di cui dieci poesie sono apparse nel numero di novembre 2009 della rivista Poesia dell’Editore Crocetti. L’orifiamma (pref. di Vincenzo Guarracino) Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2013. Ha tradotto Hermann Hesse, Robert Walser e alcune poesie di Christine Koschel nel volume Nel sogno in bilico, Milano, Mursia, 2011.

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Giancarlo Stoccoro: “La disciplina degli alberi”, La Vita Felice, 2019. Introduzione di Paolo Steffan: “La silenziosa disciplina di Giancarlo Stoccoro”. Dieci poesie e un commento breve.

25 venerdì Set 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Giancarlo Stoccoro, Paolo Steffan

 

Le sezioni La disciplina degli alberi, Luoghi ligi configurano un teatro urbano in cui è messa in scena la pièce dell’umana inquietudine che attraverso segnali sorvegliati, una certa distanza delicata e di commozione impalpabile, cerca l’incontro che sembra imminente, accadente e invece, per una sorte che ha connotati arcani, si sposta in avanti o ripiega su se stesso, lasciando fluire la materia dello straniamento, senza però rinunciare al focus del “tu”, che resta tensione, anelito. Nella scrittura breve di Giancarlo Stoccoro confluiscono le polarità dell’esistenza, l’incessante movimento del sentimento e del pensiero che mai raggiungono il compimento del loro “in essere” lasciando trapelare l’impermanenza vibrante dei destini, il talento per la ricognizione dei motivi della coscienza che pongono in luce che «Un’idea di purezza / attraversa il mondo», mettono in atto la dimensione della libertà.

 

Adriana Gloria Marigo

 

 

Da  Segnali di resa

 

Spossessarsi di sé

abitare i contorni

e la forma breve

custodire il silenzio

come reliquia

affondare la parola

 

 

Segnali di resa

non parole senza luogo

incondizionata resa

negli sguardi facili

negli orizzonti gentili

che camuffano distanze

 

A novembre gli alberi

resteranno nudi

fino a tardi

 

 

Da Geometrie dell’abbandono

 

Tu puoi non dire

quante traiettorie si aggiustano

accarezzando le sillabe

prima di dormire

 

Sale per gradi l’assenza

 

quando c’è poca luce

sembra non faccia danno

 

L’orizzonte si perde

dietro un buio qualunque

 

Da Feroci distanze

 

Altri luoghi

s’incontrano

soltanto al buio

e tu fai tanto

per tenere le luci

sempre accese

 

 

Non i luoghi

quelli sanno solo sfiorarti

non i tempi circostanziati dei calendari

un silenzio diffuso su nebbia densa

due scarabocchi su carta spessa

 

 

Da I giorni a te lontani

 

Tornano a farsi luogo

i giorni silenziosi

lontani dalle frasi fatte

hanno smesso di lucrare sui confini

di segnalare impronte

dove non c’è stato passaggio

 

 

Da Poesie per gli alberi e le passeggiate vagabonde

 

Nella nostalgia d’autunno

mi nutro di sguardi complici

foglie licenziate in novembre

 

divento fanatico del tango

allago la bocca con frasi vaste

 

liquida danza che assolve

gli alberi messi a nudo

 

 

Da Luoghi ligi

 

Gli alberi ci guardano

passare in fila indiana

 

licenziare le fronde

a novembre

non spazzano neanche il cielo

 

placidi stanno

 

Il tuo luogo quando penso a te

è un bosco di alberi bianchi

dove ti arrampichi finché

il tronco comincia a cullarti

 

 

Biobibliografia

Giancarlo Stoccoro (Milano, 1963) è psichiatra e psicoterapeurta. Oltre all’attività clinica, si occupa di formazione e ha pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche. Studioso di Georg Groddeck, ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia Georg Groddeck. Una vita, di W. Martinkewicz (Il Saggiatore, Milano 2005) e i saggi Pierino Porcospino e l’analista selvaggio; Poeti e prosatori alla corte dell’ES. Suo è il primo libro che esplora il cinema associato al Social Dreaming, che ha applicato in ambito sanitario, scolastico, nelle carceri e direttamente nei cinema: Occhi del sogno (Giovanni Fioriti, Roma 2012).

Ha vinto diversi premi di poesia e pubblicato le sillogi: Il negozio degli affetti (Gattomerlino/Superstripes, Roma 2014), Note di sguardo (Morellini, Milano 2014), Benché non si sappia entrambi che vivere (alla chiara fonte, Lugano 2015), Parole a mio nome (Il Convivio, Castiglione di Sicilia 2016),Consulente del buio (L’Erudita, Roma 2017), Forme d’ombra (alla chiara fonte, Lugano 2018),La dimora dello sguardo (Fra, Rimini 2018), Prove di arrendevolezza (Oèdipus, Salerno 2019).

Cura i blog ladimoradellosguardo.it e ciacksisogna.it

 

 

 

 

 

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G. Bolla – V. Meloni: “Corrispondenze da un mondo increato” La Vita Felice, 2018. Prefazione di F. Franzin. Otto poesie e un commento breve.

11 venerdì Set 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

≈ 2 commenti

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Fabio Franzin, Giorgio Bolla, Valentina Meloni

Nella ferita del mondo offeso sopravvivono brincelli vivificanti gli strati dolenti: sono nuclei di bellezza, figure eterne che riconsegnano all’anima il dispiegarsi in volo; l’innalzarsi sopra la gravità della materia, il groviglio delle cadute rovinose, la cecità sul prodigio che affiora nella prossimità dell’incontro: come in Gustavo Adolfo Bécquer fiorisce «sobre el volcán la flor», nel «dialogo in poesia» fra Giorgio Bolla e Valentina Meloni germogliano “neve, fiore” come alchimia di elevazione dalla densità materica della vita accanto a “nome, tempo, notte, sogno, ritorno,…”, alcuni dei topoi della silloge in cui « … il granello prepotente, sfuggito al corvo, / confinato in impronte pressate senz’aria, / s’innalza più forte, uccide il buio cieco, /si contorce di sbieco a cercare un varco…»

 

Adriana Gloria Marigo

GB

 

03/10/2017 ore 21.25

 

Che strana terra

è la tua

anche quando la neve

riempie i confini

dei prati

ogni volta perde tutto

la Signora nostra

ma sempre il fiore

sulla pietra

vince il tempo

e le ore

della notte.

 

VM

 

3/10/2017 ore 22.18

 

Che strana terra

la nostra

quando – arresi –

ci disorientano

i crocicchi di voci

e finiamo col mettere radici

nel vento

ci si aggrovigliano le parole

ma non temiamo

il silenzio del fiore che arriva

più bianco a toccare l’aurora.

 

VM

 

08/10/2017

 

Due poltrone abbandonate

su cui sprofonda la luce

così sfrontati noi

dimentichi di quelle ali radianti

a cui ci tenevamo sospesi…

in un mondo che cade a pezzi

ci lasciamo vincere dall’occhio cieco:

tappezziamo il cuore di foglie

cadiamo in un pozzo di niente

per andare a morire soli – e distanti –

 

in controluce il gioco dei vuoti.

 

GB

 

21/10/2017 ore 7.00 mattino, freddo ancora dentro la notte

 

Il suono è vicino quando si rincorre da un gioco all’al-

tro per distese di luce buia sollevato il senso è l’aper-

tura ora che conta l’inizio della speranza del giorno

ma non c’è una nota di blu dopo la notte scivolata nel

silenzio del mondo, qua perché doveva essere. Poca

nebbia quasi timore di svegliare un freddo amico.

 

                                                                                             GB

 

21/10/2017 ore 07.45 mattino avanti

 

Sempre si vince almeno così si può credere. Vince il

bianco forse non torna più il nero, neanche ciò che è

grigio accampa il proprio vessillo sulla bagnata celata

del mattino quando i primi voli sono a vista. Finti i

suoni di mitiche campane guerreggiate avvicinano in

modo pigro le note della ricerca, anche lei destinata

a tentativi di libertà.

 

                                                                                             GB

 

Scivola il passo

blocca il fiato

la luna invisibile

anche prima del giorno

forse dove vivono lontane

le montagne

e l’aria di neve

arriva.

                                                                                             VM

 

18/11/2017 ore 19.30

 

 

Di te che mi parli

da un luogo lontano

questa lingua nuova

che assapora l’aspro,

l’incompiutezza

di un verso che sfiora

perché una parola

sia coppa di nuove

libagioni e ci contenga

in trasparenza

mescolati i fiati prelibati

per darci in pasto al mondo

come un’offerta.

  

                                                                                            VM

 

05/ 12/ 2017 ore 10.15

 

 

Nessuno si avvicini

alle parole belle

che dall’alto piovono cielo

lucore di bianchi nascosti

nel fondo     sogno di neve

che scioglie che viene

nessuno tocchi quei fiocchi

leggeri che non arrivano

a sfiorare la terra

si disfano in aria nel sogno

di ieri nel sogno di oggi

la tua mano li afferra.

 

BIOBIBLIOGRAFIE

GIORGIO BOLLA (Adria, 1957), poeta veneto, medico chirurgo pediatra per professione, ha pubblicato dieci raccolte poetiche: Solo Immagini (2008); Il Motore del Tempo (2009); Mnesis (2010); Assoli di Oboi (2010); Ruote Alate (con testo spagnolo a fronte, 2011); Skhandha (2012); Epistolario (e–book con testo spagnolo a fronte, 2012); Il Libro delle Ore (e–book, 2012); Storie di acqua, di Angeli e di vento (2013); La Quintessenza del Gioco (2015); con Mario Benatti ha pubblicato In Vicinanza delle Nuvole (epistolario poetico, 2014). Le sue ultime pubblicazioni di poesia sono: Preghiere oltre sé stesso (2016); con Valentina Meloni, Corrispondenze da un mondo increato – epistolario poetico (2018). Recentemente, edito negli Stati Uniti da Gradiva Publications: Among Water, Angels and Wind. Ha conseguito Premi di Poesia nazionali e internazionali.

*

VALENTINA MELONI (Roma 1976), dal 2007 conduce una vita ritirata tra la campagna umbra e le zone dei Chiari. Scrive poesie, racconti, aforismi, fiabe. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Le regole del controdolore (2016); Nanita (uscita in allegato alla rivista statunitense Otata, 2017), con fotografie di Annalisa Marino Eva (2018); l’autoantologia di eco–poesia Alambic (2018); con Giorgio Bolla Corrispondenze da un mondo increato – epistolario poetico (2018); Enso: Haiku Yoti (2019); Millimetrica- petit onze (2020); inoltre per la letteratura d’infanzia le tre fiabe illustrate: Storia di Goccia, Nanuk e l’albero dei desideri, Nanuk e il ragno Alvaro; i racconti: Ippocampo – prose poetiche e reminiscenze (2020); infine le plaquette: Nei giardini di Suzhou (2015) e il poemetto haiku Il Fiore della Luna, Leggenda di Rosaspina (2018) illustrati da Santo Previtera; Suite della solitudine (2019), illustrata da Rosario Morra. Di prossima pubblicazione la raccolta di haiku Usei – il suono della pioggia.

Suoi testi tradotti in inglese, spagnolo, francese, cinese, giapponese, turco, arabo, bulgaro sono apparsi in blog, riviste e quotidiani internazionali. È inserita nel volume Un’oscura capacità di volo – poete e poetiche nell’Umbria d’oggi, curato da Nicoletta Nuzzo, Silvana Sonno, Federica Ziarelli, prefazione di Cetta Petrollo Pagliarani. Come traduttrice dall’inglese sta lavorando a Il fiore della Passione di Munir Mezyed, poeta palestinese, rifugiato in Romania, e a Dendrarium, di Alexander Shurbanov , anglicista all’Università di Sofia e traduttore ufficiale di Milton, Shakespeare e Tagore.

Ambasciatrice della voce nel progetto Poetry Sound Library (Londra), mappa virtuale che raccoglie la voce dei poeti in tutto il mondo. Ha ideato e cura da oltre dieci anni l’antologia tematica permanente on line di eco-poesia profonda Poesie sull’Albero. Nel 2017 ha ideato e tuttora dirige la rivista aperiodica internazionale di haiku e poesia breve giapponese Komorebi ni nureru Italian Journal.

 

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Alain De Botton: “Come Proust può cambiarvi la vita”~Un estratto dalla sezione “Come lasciar perdere i libri”

24 venerdì Lug 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Alain De Botton, Come Proust può cambiarvi la vita

 

Quanto seriamente dovremmo prendere i libri? «Caro amico», disse una volta Proust ad André Gide, «io credo, contrariamente alla moda di alcuni nostri contemporanei, che si possa avere un’idea molto alta della letteratura, e sorridere bonariamente.» Può sembrare una battuta estemporanea, ma ha un senso molto preciso. Per un uomo che ha dedicato la vita alla letteratura, Proust aveva un’acuta consapevolezza del pericolo di prendere i libri troppo seriamente, o piuttosto dei rischi che un atteggiamento di feticistica reverenza nei loro confronti comporta. Convinti di rendere il giusto omaggio alla letteratura, in realtà può capitarci di travisarne lo spirito più autentico; un sano rapporto coi libri degli altri dipende perciò dalla nostra capacità di valutarne, oltre che i benefici, anche i limiti.

  1. I benefici della lettura

Nel 1899 le cose andavano male per Proust. (…) Nell’autunno di quell’anno andò in vacanza sulle Alpi francesi, alla stazione termale di Evian, ed è qui che lesse e si innamorò delle opere di John Ruskin, il critico d’arte inglese noto per i suoi scritti su Venezia, Turner, il Rinascimento italiano, l’architettura gotica e i paesaggi alpini.

L’incontro di Proust con Ruskin è un ottimo esempio per chi voglia conoscere i benefici della lettura. «L’universo improvvisamente riacquistò un’importanza infinita ai miei occhi», spiegò Proust in seguito; questo perché l’universo aveva avuto un’enorme importanza agli occhi di Ruskin, e perché, in maniera geniale, egli aveva saputo tradurre le sue impressioni in parole. Ruskin aveva detto cose che anche Proust sentiva, ma che non avrebbe saputo esprimere da solo; esperienze appena affiorate alla superficie della sua coscienza, sollevate e meravigliosamente riunite nel linguaggio. Ruskin rese sensibile Proust al mondo del visibile, all’architettura, all’arte e alla natura. (…)

Oltre ai paesaggi, Ruskin aiutò Proust a scoprire la bellezza delle grandi cattedrali del Nord della Francia. Quando tornò a Parigi dopo la sua vacanza, Proust andò a Bourges e a Chartres, ad Amiens e a Rouen. In seguito, parlando di ciò che Ruskin gli aveva insegnato, Proust ricordò un brano sulla cattedrale di Rouen delle Sette lampade dell’architettura in cui Ruskin descriveva minuziosamente una particolare figura di pietra, scolpita, insieme a centinaia d’altre, in uno dei portali della cattedrale. La scultura raffigurava un omino, alto non più di dieci centimetri, con un’espressione confusa e imbarazzata, e una mano premuta forte contro la sua guancia, in modo da increspare la pelle del viso sotto l’occhio. Proust diceva che l’interesse di Ruskin per l’omino aveva avuto come risultato una specie di resurrezione, caratteristica della grande arte. Aveva imparato come guardare questa figura, e l’aveva quindi riportata in vita per le generazioni successive. (…) Questo è solo un esempio di cosa aveva fatto Ruskin per Proust, e di cosa potrebbero fare tutti i libri per i loro lettori: riportare in vita, dalla morte provocata dall’abitudine e dalla disattenzione, importanti ma trascurati aspetti dell’esperienza. (…) Poiché era stato così impressionato da Ruskin, Proust cercò di intensificare la sua frequentazione con questo autore gettandosi a capofitto nell’occupazione tradizionalmente aperta a chi ama leggere: lo studio della letteratura. Lasciò da parte il progetto di scrivere un romanzo e si mise a studiare Ruskin. Quando il critico inglese morì nel 1900, scrisse il suo necrologio, poi seguirono numerosi saggi e infine si diede all’immane fatica di tradurne l’opera in francese, impresa molto ambiziosa, anche perché Proust non conosceva quasi l’inglese e, a detta di Georges de Lauris, avrebbe avuto difficoltà anche a ordinare in inglese una costoletta d’agnello al ristorante. Tuttavia riuscì a produrre traduzioni molto precise sia della Bibbia di Amiens sia di Sesamo e gigli, aggiungendo una sfilza di note erudite che testimoniano la vastità delle sue conoscenze su Ruskin.

 

Portail des Libraires, cattedrale di Notre-Dame, Rouen: la piccola scultura citata da M. Proust

  1. I limiti della lettura

Ma qualcosa di questa energica difesa della lettura e dello studio portava Proust a esprimere qualche riserva. Senza peraltro insistere troppo su quanto fosse controversa e difficile la questione, egli sosteneva che dovremmo leggere per una ragione ben precisa; non per passare il tempo, con un certo distaccato interesse, o per una spassionata curiosità di scoprire cosa provava Ruskin, ma, come diceva Proust, «non esiste via migliore per giungere ad aver coscienza di quel che sentiamo di quella di cercare di ricreare in noi quel che ha sentito un maestro». Leggere i libri degli altri serve a scoprire cosa proviamo noi, a sviluppare i nostri stessi pensieri, anche se sono i pensieri di un altro scrittore che ci aiutano a farlo. (…) La stima che Proust aveva per Ruskin era enorme, ma dopo aver lavorato così intensamente sui suoi testi per sei anni, dopo aver vissuto con pezzi di carta sparsi sul letto e con libri impilati sul suo tavolo di bambù, in un eccesso di rabbia per quel suo essere sempre legato alle parole di un altro, Proust esclamò che le qualità di Ruskin non gli avevano impedito di essere spesso «sciocco, maniacale, limitato, falso e ridicolo».

Noi sentiamo benissimo che la nostra saggezza comincia là dove finisce quella dello scrittore; e vorremmo che egli ci desse delle risposte, mentre tutto quanto egli può fare è solo d’ispirarci dei desideri… Tale è il valore della lettura, e tale è anche la sua insufficienza. Farne una disciplina significa attribuire una funzione  troppo importante a quel che ne è solo un’iniziazione. La lettura si arresta alle soglie della vita spirituale; può introdurci in essa, ma non la costituisce.

Alain De Botton

 

Biobibliografia

Alain De Botton è nato in Svizzera nel 1969, ha studiato a Cambridge e vive attualmente a Londra. Ha scritto opere di diverso genere, le quali hanno avuto accoglienze contrastanti. Le reazioni positive sostengono che De Botton ha reso la letteratura più accessibile alle masse. I suoi libri sono pubblicati in Italia da Guanda.

 

 

 

 

 

 

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Gabriella Cinti: “La lingua del sorriso – Poema da viaggio”, PROMETHEUS, 2020 ∼ Saggio introduttivo di Francesco Solitario: “Parole di luce”∼Nota critica di Adriana Gloria Marigo

10 venerdì Lug 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Francesco Solitario, Gabriella Cinti

 

Qualche anno fa, in una libreria di Padova, mentre osservavo i libri disposti orizzontalmente su un lungo ripiano, catturata dai titoli e dalle immagini delle copertine, mi raggiunse una intuizione: in realtà era il riemergere di nozioni stratificate negli anni, reminiscenze liceali che riguardavano la storia dell’arte, l’architettura classica, certe parole inerenti al tempio greco che mi erano suonate numinose, conduttrici di energie, presenze, liturgie, riti divini. La parola dell’intuizione–memoria era “pronao” e si accompagnava al ricordo della fotografia dell’Hephaisteion (il tempio di Efesto ad Atene) contenuta nel testo scolastico di storia dell’arte greca: la coniugazione di parola e immagine completò l’intuizione generando l’idea che la copertina è, con il libro, in un rapporto simile a quello tra pronao e naos, la cella interna del tempio, il luogo più sacro e misterico dove dimora la statua del dio. L’intuizione che la copertina sia credenziale del contenuto e non solo – o strettamente – fascinazione d’acquisto, si è presentata decisa quando ricevetti La lingua del sorriso  – Poema da viaggio di Gabriella Cinti. L’immagine del busto di Persefone emergente dal fondo nero della copertina, l’oscurità che accoglie il titolo che invece restituisce la sensazione del compiersi di un evento ineludibile e vegliato da segnale di conforto, apotropaico, mutuato da interiore stato di grazia quale il sorriso, convergono alla visione di trovarsi davanti alla complessità di una raccolta di poesia in cui si officia alle presenze psichiche, mitografiche, archetipali, potenti da intessere la vita intellettuale della poetessa non separatamente da quella spirituale della donna: anzi, le due dimensioni sono così perfettamente intramate l’una dell’altra che la parola impiegata da Gabriella Cinti nella esemplarità di questa raccolta, è al tempo stesso guida ed evocazione di simboli – non inermi, ma vividi frementi fecondi vitali entro le profondità psichiche, e che l’intelletto restituisce – mediati dai modi di una poesia che nomina e, come scrive il docente di estetica Francesco Solitario nel ricco saggio introduttivo citando J. Campbell, «comporta una scelta precisa di parole che avranno implicazioni e suggestioni che trascendono le parole stesse.»

Dunque, se la cifra architettonica del pronao apre alla percezione del canone sacro del naos, la raccolta di Gabriella Cinti rivela il medesimo cifrario: ci troviamo alla presenza di un libro di poesia in cui vige il principio gnoseologico – ontologico del «verbo tessuto», della «stoffa dell’essere» dentro l’assolutezza, la regalità sovrana della luce in cui le possibilità dell’ombra assurgono a ruolo funzionale affinché emerga la vastità irradiante della luce fin dall’esergo «Ad Afrodite d’oro, al suo sorriso, / e a Paola Pennecchi, al suo cuore di luce.», e che Francesco Solitario ha chiarito con dovizia di analisi evidenziando il rapporto Sole-Luce nella sua dimensione polisemica, in quanto tutta la raccolta – come rilevato fin dal titolo – è centrata sulla presenza inesausta dei simboli, di cui il Sole è il maggiore sia nelle cosmogonie sia nelle cosmologie, e rappresenta il più alto principio: è colui che garantisce la vita nelle soglie animali vegetali minerali, nonché dell’intelletto, sia nei modi laici, sia nei modi confessionali.

Il Sole, colui che nel pantheon dei pianeti è sovrano governatore, si eleva nella raccolta di Gabriella Cinti a deità-parola: l’interiorità, il naos di La lingua del sorriso, è abitata dal Sole-Parola e da lì irraggia sacralmente l’intuizione della parola, l’ostina alla scelta, all’affinamento (Parola pensata), all’incantesimo che il linguaggio frequentato dalla poetessa cerca come esigenza vitale, thauma  espresso in meraviglia e sottile angoscia (Lezioni di abisso) necessario all’incontro ed elaborazione della luce, persino sprezzatura che, prossima alla magia, specchia la liturgia con la quale la poetessa celebra il rito della parola creante il senso (Scintillio d’istante).

 

Adriana Gloria Marigo

 

 *

PAROLA PENSATA

Un solo frammento, filamento

stellato di memoria, l’istante

eternato, sillaba di verità.

 

Abita il sorriso dell’agnizione

nel luogo d’anima e di suoni

 

ed è facile riconoscerlo

se lo ritrovi ai bordi del sentire.

 

Moltiplicato sia in ogni calice

congiunto, nella corolla

in cui affonderai il viso,

nella scia di una parola pensata,

 

nel divenire della nostra cometa.

 

LEZIONI DI ABISSO

L’orlo della tua risposta,

inafferrabile frangia,

tende le corde del silenzio.

 

Accade la tua presenza rarefatta

a celebrare l’impossibile.

 

Il mistero incontra i confini del tuo respiro

e le tue mani alte oltre l’orizzonte

non tramontano, quando il vuoto

si insedia tra le ombre dei sensi.

 

Vacillando, permani

a tracciarmi la figura del salto:

salpato l’ultimo volo augurale,

il Deserto astrale pure vibra

dei tuoi occhi espansi.

 

Nell’ora che annulla la voce,

quando la Signora della vertigine

ha dismesso ogni ipotesi di sorriso,

la curva del visibile dislocata è

senza sembianza d’ascolto,

invasa dal niente.

 

Da te ora prendo lezioni di abisso.

 

SCINTILLIO D’ISTANTE

La breccia per l’impossibile

passa per il rosso generoso delle foglie,

accese da oro inatteso.

 

Interrogo le dune d’aria

voltolanti in pulviscolo d’enigma;

sidereo involucro mi porta lieve

in quel viaggio di nubi

che è il mio tempo.

 

Liberami dalle sfere nemiche

nel prodigio armato di sorriso

a scardinare le catene ineluttabili.

 

Io non conosco la scienza delle onde,

reticolo di cristalli

e prismi di intuizione ruotante.

 

Calata e colata nel vortice solido

di questo presente di troppo metallo,

scelgo la sabbia come fuga

e la luce come volo,

 

perché tu possa leggermi

in ogni frammento rifrangente

e ascoltarmi nello scintillio

risonante dell’Istante,

musica complice del nostro destino.

 

Biobibliografia

 

Gabriella Cinti, nata a Jesi, è italianista, grecista, poeta, scrittrice, saggista, performer in greco antico. Ha pubblicato le raccolte poetiche: Suite per la parola, Péquod, Ancona 2008; Euridice è Orfeo, Achille e la Tartaruga, Torino 2016; Madre del respiro, Moretti e Vitali, Bergamo 2017. In saggistica ha pubblicato: Il canto di Saffo – Musicalità e pensiero mitico nei lirici greci, Moretti e Vitali, Bergamo 2010; Emilio Villa e l’arte dell’uomo primordiale: estetica dell’origine, I Quaderni del Bardo, Lecce 2019, in Ebook.

Sulla sua poesia Franco Manzoni ha scritto il saggio: Femminea estasi. Sulla poetica di Gabriella Cinti, Algra, Catania 2018. Ha vinto numerosi premi Nazionali e Internazionali, tra cui il Primo Premio sia al Concorso Letterario Internazionale Nabokov 2008, sia al Concorso Letterario Albero Andronico 2017. Sue poesie sono presenti in diverse antologie poetiche. Ha partecipato a diversi Festival Letterari e Rassegne poetiche internazionali.

Suoi testi sono stati tradotti in inglese e in greco moderno.

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Paul Morand: “Al mare”, Archinto, 2003 / Un estratto dalla sezione “Bagni nel tempo”

26 venerdì Giu 2020

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Al mare, Paul Morand

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Lord Byron visita San Lazzaro degli Armeni

 

(…) Ma ecco il poeta nuotatore, Lord Byron, novello Leandro che attraversa l’Ellesponto e va più fiero di questa prestazione, di cui fa sfoggio in tutte le sue lettere, che non del suo Childe Harold. In Italia, si bagna in tutti i mari e vi si attarda finché le unghie e le labbra gli diventano blu dal freddo. A Ravenna è di casa nella laguna; a Malamocco, entra tra i flutti a cavallo; i pescatori conoscono bene questo cavaliere veloce come lo scirocco. A Venezia, si getta completamente vestito, dopo cena, nelle acque salmastre del Canal Grande (tradizione che si è perpetuata tra i giovani oxoniani). Temendo di essere urtato da qualche gondoliere che nell’oscurità potrebbe non vederlo, nuota con il braccio destro, tenendo nella mano sinistra una lanterna accesa. Si spinge fino a tre miglia da riva, solo al largo fa colazione in acqua e vi fuma il suo sigaro.

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Foto da Pinterest

Stabilitosi a Guernesey, dove le abitudini anfibie erano solidamente radicate, Victor Hugo guarda al mare in modo affatto nuovo: nel suo libro Victor Hugo et la mer Ditchy ha dimostrato in modo assai convincente come, fino a quel momento, l’elemento liquido fosse convenzionale nell’opera del poeta. Hugo ignorava la geografia marina al punto da proporre di utilizzare una «galea capitana» per andare da Fez a Catania quando Fez è a duecento chilometri nell’entroterra. Ma dopo il soggiorno a Guernesey, il paesaggio marino diventa in lui una realtà mirabile; il suo oceano sbava come un serpente, grida, ruggisce; quello dei Lavoratori del mare viene dalle profondità misteriose di Thulé e dai poemi ossianici. Han d’Islande fugge attraverso i marosi in tempesta, su un tronco d’albero, rivestito di pelle di foca e bevendo l’acqua salata da un teschio. Fecondo e distruttore, il mare delle Contemplations è il flagello di Dio;  Hugo ne ha ammirato a lungo gli uragani, le minacce, i ruggiti, i tradimenti, e non c’è tempesta, in tutta la letteratura, che superi in bellezza e in orrore quella dell’Uomo che ride. È evidente che Hugo il mare l’ha visto solo da riva; è tra quelli presi di mira dai proverbi dei marinai inglesi: «The best pilot is ashore», oppure «praise the sea, but keep inland», ma il suo genio può farsi beffe di tutto e in primo luogo di quelli che si fanno beffe di lui. (…)

Paul Morand

 

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Joseph Mallord William Turner, “Venezia: un ponte, forse il Ponte Ca’di Dio, con il Palazzo Ducale e il Campanile di San Marco in lontananza”

 

Paul Morand (Parigi, 13 marzo 1888 – Parigi, 23 luglio 1976), diplomatico francese, è stato autore di saggi e racconti, commediografo, giornalista e poeta. È ritenuto uno dei padri dello stile moderno nella letteratura francese. Esordì con una serie di racconti e romanzi che si fecero notare per l’erudizione, la bellezza della prosa concisa e raffinata. Il 24 ottobre 1968 fu eletto all’Académie française, dopo aver subito l’ostracismo di François Mauriac e di Charles De Gaulle. Amico di Marcel Proust, lasciò ricordi di notevole valore sullo scrittore. Una parte dell’imponente corrispondenza con Jacques Chardonne è stata pubblicata nel 2013. Moltissime sue opere sono tradotte in italiano.

 

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Guglielmo Ciardi, Sant’Erasmo

 

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Alessandro Quattrone: “La gentilezza dell’acero”, Passigli Editore, 2018/ Prefazione di Giancarlo Pontiggia/ Tre poesie con tre immagini e un esergo.

19 venerdì Giu 2020

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Alessandro Quattrone, Giancarlo Pontiggia

Tra gli alberi, nei “chiari del bosco” c’è un dialogo fluente ora silenzioso, ora mormorante: abbraccia e celebra l’invisibile celato nella liturgia della creatura, degli elementi, delle cose, del tempo, del «… perpetuo alternarsi / di pienezza e dissolvenza…»

Adriana Gloria Marigo

 

 

Non si può che ammirare

la gentilezza dell’acero,

dell’albero che medita sospeso

al cielo adorando i fili d’erba,

e quando l’ora è più spietata

abbellisce della propria morte

il mondo, sapendo che il silenzio

è una virtù finale, che però

sopravvive nel mezzo del clamore.

 

da Osservazioni e sguardi             

 

 

Per quanto lo spettacolo del vento

che solleva da terra le foglie

sia necessario a chi contempla in estasi

dalla finestra chiusa,

per quanto lo scempio dei rami

sia senza dolore né rimpianto,

non è facile accettare che esista

una forza che non lascia scampo,

o un’illusione che non sa morire.

 

da L’amuleto smarrito   

               

 

La luce incanta e inganna in questo autunno

acceso, troppo acceso, che abbaglia

il sonno delicato degli arbusti.

Lasciamo siano i boschi a celebrare

gli entusiasmi, il fervore, i desideri.

Non ci sono insidie. Il mondo è in pausa

 

da Annunci o auguri                                     

 

*

 

Biobibliografia

 

Nato a Reggio Calabria nel 1958, Alessandro Quattrone vive  e insegna a Como. Ha pubblicato i seguenti volumi di poesia: Interrogare la pioggia, Lacaita, 1984 (finalista al premio Viareggio – Opera prima); Passeggiate e inseguimenti, Book, 1993 – Premio Internazionale E. Montale; Rifugi provvisori, Book, 1996 – Premio speciale Rhegium Julii; Prove di lontananza, Book, 2013 – Premio Caput Gauri; L’ombra di chi passa, Puntoacapo, 2015. Ha tradotto diversi volumi di classici della poesia per le edizioni Demetra. Tra le altre sue pubblicazioni, ricordiamo il romanzo Ai bordi del diluvio, Moretti e Vitali, 2002 e, per il teatro, A me non sembra di dover morire e altri dialoghi teatrali, Puntoacapo, 2018.

 

Fotografie da Pinterest

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Francesco Zevio: Suite dei mondi, Robin Edizioni, 2019. Prefazione di Silvio Raffo: Il mosto puro. Nota critica di Adriana Gloria Marigo.

12 venerdì Giu 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Francesco Zevio, Silvio Raffo

All’inizio dell’autunno 2019 il poeta Silvio Raffo mi fece notare che tra i libri di poesia pubblicati ve n’era uno che portava i tratti indiscutibili di quel carattere di Bellezza che si rintraccia non solo in poesia, ma in altro sapere: si tratta della Bellezza che risponde alla cifra della cultura, dell’Armonia, dell’equilibrio, delle forma, della proporzione, del valore etico e, nel caso della poesia, della misura  alta di versificazione, poiché sottesa e ordita è la qualità ontologica, l’adesione appassionata o totalizzante al pensiero immaginale che consente al dettato del “porto sepolto” la scrittura intensamente incisiva sia negli elementi formali che contenutistici. Non dovetti chiedere di poter leggere Suite dei mondi poiché il poeta di Varese, nell’entusiasmo tipico di quando si trova nell’orizzonte del Bello, mi offrì il libretto dalla copertina commotiva in cui non è difficile percepire l’alleanza tra immanenza e trascendenza: lo sposalizio di titolo e immagine, le parole che si coniugano con le figure e i colori inviano messaggi a livello di intuizione, di immaginazione attiva, così che sorge una sorta di impressiva visione di quanto e quale sarà il contenuto.

L’incipit della prefazione di Silvio Raffo «Sa quasi di miracolo…» è una dichiarazione vera e sacra in quanto Suite dei mondi ci porta al cospetto di una scrittura intramata di rimandi colti, che segue la strada maestra della parola che non piega ad alcuno spleen, ma anzi continua a munirsi di fuoco prometeico e ali provviste di forti remiganti per alzarsi nello spazio del simbolo, della metafora e, in vibrante misura, della rêverie, come in «Nel cielo che più nero/ dell’anima si stende,/ la luna non si vede – né risplende/ su di un futuro in cui non spero.» di Borghetto, poesia tutta percorsa dalla “brillanza luminosa” della fantasticheria. V’è nell’opera di Francesco Zevio posto per la venerazione, o meglio: i testi officiano la restituzione grata dei doni ricevuti (mondi fisici dei luoghi, e metafisici delle presenze aleggianti e misteriose, prossimità che collegano il visibile all’invisibile), il riconoscimento dei forti legami con i padri di pensiero e d’anima senza i quali l’identità autoriale potrebbe risultare diversa, consistere in altra misura: l’Autore ammette che in ogni poeta si celano una o più appartenenze non solo specifiche, relative alla parola della poesia, ma attinenti anche ad altre conoscenze, esprimendo in tal modo che le ascendenze, la disposizione personale ai temi confluiti nei testi, l’afflato con certi autori – compresi i compositori di cui Francesco Zevio dà ragione nel nome ineludibile di Bach della Cello Suite No. 2 in re minore BWV 1008 – discendono sì dalla sensibilità fine, ma si perfezionano mediante la cognizione che individuum est ineffabile: Suite dei mondi dimostra ampiamente che l’Autore realizza la propria ineffabilità mediante modi poetici personalissimi e di cui ha indubbia consapevolezza.

Tutto il corpo di Suite dei mondi – organizzato nelle sezioni Altrove, Suite mediterranea, Idilli e asfalto, Latium, Appendice . Frater Philippus – è percorso da una caleidoscopica immaginazione creativa che lascia il lettore ammirato al dettato del contenuto retto dalla forma che, vigilata da Armonia – come in Aliquis Nympha dove «Nostri gli armonici dell’alba, e nostro/ il tenero morire del meriggio/ alla sua sera», testimonia la strada di una poesia sopraelevata rispetto al canone in uso.

Sorprende, felicemente, in un giovane poeta la chiara consapevolezza del “comporre”, che le Note a piè di pagina di ogni testo esprimono: il talento innato dai bagliori luminescenti è sostenuto dall’affezione per lo studio, per la verità dei classici cui il poeta Zevio rivolge rispetto quale accoglienza e restituzione, poiché in essi egli ravvede la regalità delle matrici che Poesia include nel suo costante essere in fieri, nel concepire che «… miti insepolti/ torneranno a bussare/ alle porte del mondo.»

 

Adriana Gloria Marigo

 

PROVINCIA

 

Fioriscono le rose

dell’elettricità –

dal ferro delle notti

afose di città.

 

Percorro inconsolabile

prati d’asfalto nero –

al corso iroso, instabile

di un unico pensiero.

 

Pensiero dominante

tiranno del mio cuore…

nell’effluvio scostante

d’asfalto, delle spore

 

più in là di gimnosperma

che profumano i giardini

commisti a odore d’erba

rugiada e gelsomini,

 

la Luna non si vede.

La Notte non ha voce.

Trascorre, inconsolato

il fiume alla sua foce.

 

 

BORGHETTO

                                                         Rausche, Fluß, das Tal entlang…

 J. W. Goethe

 

Notte aulente di Giugno –

dal tiglio che ti piange

sino all’acqua, che in accordi si frange

d’inenarrabile notturno.

 

Ti vorrei, silenziosa

per me sola – tra le paghe

cetonie addormentate, e nelle vaghe

stelle dell’Orsa luminosa.

 

Un vento soffia lieve

su foglie lanceolate –

sospira l’alfabeto dell’estate

dolce, che giungerà a breve.

 

Partire… in queste notti

andarsene lontano.

Laggiù è la vera vita, forse il vano

sogno di spiriti incorrotti.

 

Nel cielo che più nero

dell’anima si stende,

la luna non si vede – né risplende

su di un futuro in cui non spero.

 

 

ALIQUIS NYMPHA

 

Nostri gli armonici dell’alba, e nostro

il tenero morire del meriggio

alla sua sera.

 

Nostro l’amore madido dei prati,

dei botton d’oro e i pisacàni a macchia

tra l’erba scura.

 

Non pronunciare il mio nome, se tu

vorrai serbare di me, del ricordo

la vita più vera – tu chiudi gli occhi

e baciami ancora.

 

da Idilli e asfalto

 

III

Tornano a suonare le campane della sera,

come ad annunciare, ancora

la tua morte – non restano che ceneri

ai miei piedi, che un vento da Est aveva disperse,

insepolte… mentre i soliti balocchi

dai colori artificiali

sfrecciano a intervalli più serrati,

fiondati in aria da ambulanti indiani…

e nella piazza che il freddo, a poco a poco

fa tacere, resta ancora leggibile:

                                                                  “A Bruno, il secolo

                                                                   da lui divinato…”

e del tuo simulacro

severo di dolore e di coraggio,

lo sguardo, il volto nascosto tra l’ombre

rimane incomprensibile.

 

da Appendice, Frater Philippus

 

 

Biobibliografia

 

Francesco Zevio è nato a Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, nel 1992. Ha studiato a Padova (lettere moderne) e a Roma (Accademia Vivarium Novum), in Francia (Aix-Marseille Université) e in Germania (Universität Augsburg). Ha pubblicato la raccolta di versi Suite dei mondi (Robin Edizioni, 2019) e il libro Latino in cinque minuti (Gribaudo, 2019). Con il pianista e compositore Jozef F. Pjetri ha dato vita a Cultura in Atto, associazione culturale con sede a Padova [https://www.culturainatto.com/]. È inoltre cofondatore della compagnia di poesia, pantomima e musica Mime en Mi Mineur, attiva in tutta Europa [https://mimeenmimineur.webnode.com/]. Oltre che con Cultura in Atto, ha esordito con Ritorno a Capo, collabora con la rivista Pangea, con Parentesi storiche e con il giornale online Ilsoleitaliano di Monaco di Baviera. Cerca di vivere secondo l’omerico «di molti uomini vide le città e conobbe le menti»; trova che tutto sia magnificamente riassunto ed espresso nell’epitaffio che Stendhal immaginò per sé stesso, recitante: «visse, amò, scrisse.»

 

 

 

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“Vattene. Dimentica – Va-t’en. Oublie” di Markus Hediger “Sulle tracce dell’onisco”, Prefazione di Fabio Pusterla

29 venerdì Mag 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Fabio Pusterla, Markus Hediger, Vattene. Dimentica - Va-t’en. Oublie

Markus Hediger: Vattene. Dimentica – Va-t’en. Oublie  ~ Antologia di poesie 1981- 2013 ~ Scelta e traduzione Alberto Panaro e Grazia Regoli

Edizioni Ulivo, Balerna, CH, 2015

 

 

L’onisco, più comunemente detto porcellino di terra, è un minuscolo animale, spesso frequente nelle nostre case, che predilige le zone umide e chiuse, gli angoli, gli anfratti tra i muri, i margini inferiori delle pietre, sotto le quali lo vediamo a volte fuggire frenetico, o appallottolarsi. Ma l’onisco, abitatore del buio, è anche sin dall’inizio l’animale emblema della poesia di Markus Hediger, che esordiva quasi vent’anni fa (era il 1996) con il bel libro Ne retournez pas la pierre (cioè Non rivoltate la pietra, sotto la quale, appunto, vive il poeta / onisco):

 

Non rivoltate

la pietra col suo mistero

tramandato dalla luna.

No, non toccate,

l’occhio sole mi sconvolgerebbe,

io sono cittadino

del Rovescio, sono l’onisco.

 

A questa originaria dichiarazione di poetica e di appartenenza, Hediger tornerà spesso, in molti modi e in molte forme; fino a giungere, nel suo secondo libro di versi (En deçà de la lumière, del 2009), a complicarla e a sfumarla in pura ombrosità:

 

Poi ho sollevato la pietra

e l’ho rivoltata, una chiara sera

di primavera. Nessun onisco

in fuga sconvolto ma l’occhio umido,

nero di un’ombra che mi guardava.

 

L’onisco, insomma, proprio come la pietra da non rivoltare e poi invece rovesciata, parla di una dislocazione poetica: rispetto alla realtà comune, quotidiana e orizzontale, la voce di Hediger si colloca in un territorio altro, più basso e tenebroso, in cui sia possibile forse cogliere il depositarsi dell’esperienza, l’essenza profonda e affettiva delle cose di superficie, la traccia del loro passaggio e della loro dispersione. Lo dice con chiarezza una delle poesie d’apertura, breve appunto di prosa lirica:

 

Sul rovescio delle foglie sale la mia voce e dal rovescio

delle foglie, in intimità con la notte, vi mando mie notizie.

 

Ad un siffatto atteggiamento poetico si allea subito una particolare e assai poco comune scelta linguistica: Markus Hediger, zurighese, valente traduttore dal francese al tedesco, elegge a propria lingua poetica non la sua lingua materna, bensì appunto il francese, come se fosse alla ricerca di una parola, di nuovo, altra, che consenta una distanza, un diverso orientamento nei confronti della vita e del mondo; e che rappresenti anche, come afferma lo stesso autore in un’intervista radiofonica, un concreto atto d’amore, la lealtà rispetto ad una scelta amorosa antica, intensamente radicata nel paesaggio, reale e linguistico, francese, e nel contempo tragicamente inscritta e conclusa in quell’orizzonte. Saranno dunque la musica e il ritmo della lingua francese gli strumenti espressivi e insieme gli scandagli di profondità per esplorare il regno delle tenebre; e sarà grazie a loro e attraverso di loro che appariranno nei testi, come in una sfilata commovente, le esili figure degli scomparsi, uomini e donne che hanno attraversato la vita e che appartengono ora a quella luce che ai viventi è negata, la luce della memoria e dell’oltremondo: i familiari più prossimi e quelli più distanti, Rosa Hediger, sorella del bisnonno, la sfuggente Mina Hirt, modista in pensione, Lydia L., la decana del paese, l’armadio tra due mondi nel solaio della nonna accanto al quale due bambini esplorano il segreto dei corpi, un villaggio in Argovia dove appare un bimbo dai capelli rossi, cioè l’autore stesso in terra d’infanzia, i volti appena intercettati su di un tram o tra la folla, e subito inghiottiti dal nulla. E, insieme a queste e tuttavia al di sopra forse di tutte loro, appena accennata e volutamente mai identificata, l’immagine della ferita originaria, il volto e il corpo e la voce di quel grande Amico morto, apparso luminosamente sulle rive della Garonna, e poi sparito per sempre troppo precocemente, restituito in cenere al mare d’Aquitania e lì scomparso.

Poesia dunque umbratile, popolata da fantasmi memoriali, tutta volta alla mesta ricostruzione di un passato affettivo travolto dal tempo e dal fato, l’opera di questo notevole autore si costruisce senza fretta, con il passo lento e sicuro di chi persegue un ideale di scrittura necessaria e disinteressata, fedele ad alcuni grandi modelli spesso esplicitati da Hediger. Erika Burkart, cui l’opera d’esordio era dedicata, la grande voce poetica della Svizzera di lingua tedesca (il lettore italiano, che poco la conosce, potrà ora affidarsi alla bella antologia di Annarosa Azzone Zweifel, Cento anni di poesia nella Svizzera tedesca, edita da Crocetti nel 2013), scomparsa nel 2010 ma ancora ben presente sulla scena alla fine del secolo scorso; e Georges Schehadé, lo straordinario poeta e drammaturgo libanese di lingua francese che Markus Hediger ha precocemente eletto a figura di maestro (che ricorre nella poesia di Hediger anche sotto le spoglie di uno dei suoi personaggi, Argengeorge). Si aggiungeranno poi altri nomi, come quello di Alice Rivaz, «la Grande Dame della letteratura romanda» (così lo stesso Hediger, in un bel saggio pubblicato nel 1995 sulla nostra rivista «Idra»), come Alfonsina Storni, e come altri ancora, cifrati in un rimando o in un’allusione, che vanno a comporre il firmamento letterario e poetico di riferimento. Un firmamento, bisogna subito aggiungere, mai troppo esibito, mai risolto in pura erudizione, e più spesso abilmente celato sotto un apparente tono quasi dimesso, quasi quotidiano e non di rado narrativo, ma di una narrazione sincopata, annunciata e subito interrotta. Come se la rievocazione del racconto ormai trascorso e depositato nel passato fosse insieme avviata e presto impedita, desiderata e temuta; in una dialettica tra lirica e narrazione, tra memoria e oblio, che si condensa anche nel neologismo romésie, cioè «romanzo+poesia», con cui l’autore indica con forza un’originale (e dissimulatamente sperimentale) cifra espressiva. Poesia che narra, dunque, il poco che si può narrare di ciò che è stato, di chi è passato nella vita e ne è uscito per sempre; scrittura che cerca con pazienza gli indizi del passaggio, e che un istante dopo ne deve confessare l’insufficienza, la povertà. Proprio alla possibilità/impossibilità del racconto poetico e della conservazione memoriale si collega del resto il lungo dialogo in versi che chiude il volume (e che appartiene alla sezione più recente e ancora in lavorazione da parte dell’autore), cioè Quella sera di novembre, in cui la voce di due defunti, Emma e Arthur, intesse una conversazione cimiteriale, da urna ad urna, e sfocia in una negazione che tuttavia non esclude qualche apertura:

– Non resterà niente di noi, o ben poco.

– Vuoi dire: appena un soffi o d’aria al vento?

Ma forse il nome più importante, il Maestro più antico e più illustre che muove la penna di Hediger lungo tutte le direzioni testé evocate non viene mai esplicitamente nominato, eppure pulsa ritmicamente e simbolicamente in molti e molti luoghi dell’opera. Poiché la vicenda del grande Amico morto, cui si accennava inizialmente, calcinata nel luogo in cui due grandi fi umi, la Garonna e la Dordogna, si incontrano sotto i giardini di Bordeaux e poi si gettano nel mare disperdendosi, non può non ricordare un’analoga vicenda, un’analoga ricordanza, avvenuta due secoli or sono nella vita dolorosa e sulla pagina di Friedrich Hölderlin, nell’indimenticabile e capitale Andenken. Anche Hölderlin, come l’Amico morto, sono presenti e taciuti, essenziali e proprio per questo passibili di restare in un’ombra luminosa, che irradia ovunque tra i versi; e proprio la memoria evidente della poesia di Hölderlin, di quella poesia in particolare, frequentemente allusa e quasi citata sotterraneamente, spiega forse sia l’origine ideale dell’opera di Hediger, sia le ragioni più dolorose e vitali di una scelta linguistica e culturale. Hölderlin torna nella tarda primavera del 1802 in Germania, dopo un breve soggiorno a Bordeaux che ha costituito uno dei periodi più intensi e felici della sua sventurata esistenza; e poco dopo riceverà la notizia della morte di Susette Gontard, la donna infelicemente e disperatamente amata. La poesia Andenken (titolo che porrà poi un problema terribile ai traduttori italiani, oscillanti tra ricordo, memoria e, leopardianamente, ricordanza), pur non nominando esplicitamente quei fatti, torna ai luoghi dell’ultima illusione di felicità, spinta dal vento del nord-est, der liebste unter den Winden, che gonfia la vela della memoria verso Bordeaux; e constatando la fine di quel sogno, la morte di quell’illusione, sembra fondare sulle macerie, su ciò che resta il futuro lavoro della poesia. Non diversamente Markus Hediger  assume quel paesaggio, letterario e concreto, hölderliniano e privato, meraviglioso e tragico, a momento costitutivo del proprio agire poetico: non solo tema privilegiato, ma cifra profonda della scrittura. Così profonda e immedicabile da diventare esigenza linguistica, e da consentire, e forse imporre, all’autore di scegliere il francese come strumento, tanto d’amore quanto di dolore; un’altra radicale forma di dislocazione, un’altra traccia dell’onisco che accetta di vivere nell’ombra della parola per scoprirne e rivelarne la luce precaria.

 

Fabio Pusterla

 

 

Da Ne retournez pas la pierre

 

XIII

Le chant de l’horloge

se mêle au chant des aiguilles.

Mina, tricotant,

 

est assise à la fenêtre,

dans son regard les saisons.

 

 

XIII

Il canto dell’orologio

si mescola al canto degli aghi.

Mina, sferruzzando,

 

è seduta alla finestra,

nel suo sguardo le stagioni.

 

Da En deçà de la lumière

 

XLV

Chez moi, dans mon bureau-chambre,

volets clos. Et dehors c’est l’automne,

peut-être, et peut-être sommes-nous

un jeudi de pluie en avril.

Sur ma table la lampe allumée.

 

La journée en silencieux,

les nuits en solitaire. Où sont ceux

qui se disaient mes amis ?

Et dedans la pénombre et toi, toi

depuis si longtemps perdu de vie.

 

 

XLV

A casa, nella mia camera-studio,

imposte chiuse. E fuori è autunno,

forse, e forse è

un giovedì di pioggia in aprile.

Sul mio tavolo la lampada accesa.

 

La giornata in silenzio,

le notti in solitudine. Dove sono quelli

che si dicevano miei amici?

E dentro, la penombra e tu, tu

da così tanto tempo perso di vita.

 

 

Da Pour que quelqu’un de vous se souvienne

 

IL EST SI VIEUX DÉJÀ

Il est si vieux déjà, si vieux, mon père.

Et tiens ! de jour en jour sur son visage

s’entrevoient en plus clair, par transparence,

menton, bouche et nez pointu de sa mère

qui ressuscite en un regard d’absence.

Si chargé d’ans, si vieux il est, mon père.

 

 

È COSÌ VECCHIO ORMAI

È così vecchio ormai, così vecchio, mio padre.

E guarda un po’! Giorno dopo giorno sul suo viso

s’intravedono più chiaramente, in trasparenza,

mento, bocca e naso a punta di sua madre

che risuscita in uno sguardo d’assenza.

Così carico d’anni, così vecchio è, mio padre.

 

 

Biobibliografia

Markus Hediger, nato nel 1959 a Zurigo, è autore di tre raccolte di poesia. È inoltre traduttore dal francese al tedesco (ha tradotto tra gli altri Alice Rivaz, Yves Laplace, Etienne Barilier, Yvette Z’Graggen, Rose-Marie Pagnard e Jacques Mercanton).

Markus Hediger vive a Zurigo.

 

 

 

 

 

 

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Sei poesie inedite da Passaggi e Paesaggi – brevi e brevissimi palpiti di poesia di Adriana Gloria Marigo

22 venerdì Mag 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Passaggi e Paesaggi– brevi e brevissimi palpiti di poesia

Oh sogni,

Infanti belli nella luce

Delle vesti lacerate,

Delle spalle dipinte.

 

Yves Bonnefoy, Nell’insidia della soglia, Le nuvole

 

*

Alla fine, la pioggia consegnò un paesaggio flesso e riflesso.

Poi giorni morbidi, alabastrini.

Un mattino cominciò il rito azzurro.

La luce esordì bella come lo spadino di Cocteau, e il pomeriggio si mostrò tutto in volute librarie: parole presero la rincorsa.

 

*

Insistono sui rami avvisaglie sommesse,

discrezione per recrudescenze d’aria.

 

S’innalza la stagione nel lieve

smarrimento della sua grazia acuta

 

 

*

Con la terra, la dura zolla

non sono affinità.

 

A me s’affina perfetta l’aria

il volo di farfalla.

 

Di libellula la ricamata

elitra dove in sobria

cadenza la luce trapassa.

 

*

La luce ci stringe da le fronde,

serra il verbo nell’oro

di un’ora che il nume

cinge di mantica e alloro.

 

 

*

Ancora ameremo

la notoria fragilità dell’ora

il minuto parlare

prossimo alla formula dell’acqua

 

l’amplitudine dell’aurora –

imperante il nero in terra

in cielo l’oro rosso sorgente.

 

*

A terra, in tenue rosso

si sfoglia la vite americana

 

in alto, tra i rami degli allori

uno stormo di passeri

in rapido volo sbreccia

il silenzio tondo.

 

 

Adriana Gloria Marigo

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Nota critica di Luciano Domenighini alle quartine inedite da “Il taccuino del recluso” di Silvio Raffo

15 venerdì Mag 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Il taccuino del recluso o La veglia del novizio, Luciano Domenighini, Silvio Raffo

Color Study, Squares with Concentric Circles, Vasilij Kandinskij,1913

 

Quindici quartine di endecasillabi a rime alternate o incrociate, epigrafiche e lapidarie, filosofiche e sentenziose, costituiscono questo breve poemetto in cui Silvio Raffo, in brevi strofe rimate, alla maniera dei cantastorie,  riassume, ricapitola e giudica la sua fabula di uomo e di poeta. Come l’autore stesso suggerisce nell’esergo della quartina di preludio, si tratta di una meditatio in limine vitae, se non proprio di un redde rationem in mortis examine. Ripetuti sono i riferimenti al trapasso (Fine, Eterno, Morte).

Ma è una “contemplazione della morte” inedita, sorprendente, disinnescata della sua carica tragica. Simili meditazioni intimistiche, ricapitolative e giudicanti, hanno d’abitudine un tono austero, sentenzioso, una vocazione oracolare e una forte valenza patetica, spesso angosciante quando non disperata.

Qui invece si respira un’aria serena, pacificata, eufemizzante, come redenta: il colore è chiaro e soffuso, il tono mansueto e pago. La saggezza del presente ammanta il passato di un velo assolutorio e in luogo degli angosciosi presagi di un’apocalisse incombente compaiono le rivelazioni e la grazia di un’epifania, i segnali di una rigenerazione.

 

XXI

Moltiplicare i giorni dell’attesa

nella certezza di un’estrema festa.

Eterno si fa il tempo, e l’ardua impresa

si fa leggera. Gioia pura è questa.

 

Emendato il presente dal giogo delle passioni e dalle lusinghe della speranza che avevano travagliato il passato, l’animo è pronto alla rinascita:

 

XXIV

Esaurito ogni palpito, ogni afflato

deposta ogni speranza che ci affanni,

non c’è minaccia di futuri inganni.

Ed è come se nulla fosse stato.

 

Anche il linguaggio poetico si conforma alla ritrovata serenità di questo clima interiore. É un linguaggio piano, ancorché qua e là ricercato nel lessico e nella sintassi (vedasi ad esempio l’iperbato «Del Minotauro immagino la stanza/di pareti fasciata ultrasonore-/…», o anche l’apertura della IX quartina: «Si congela il rigore dell’inverno/in vitrea sospensione adamantina./…», dal contenuto metaforico sobrio e accessibile; un linguaggio nitido ed efficace, ora pregiato ora contiguo al parlare corrente ed echeggiante talora quello di certi rimatori crepuscolari.

L’alternanza dei modi e dei tempi verbali rendono vivido e mobile questo diario interiore, per altro vario nell’eloquenza, frammentario nell’andamento (la progressione delle strofe, segnate in numeri romani, è lacunosa) e disorganico nella struttura e tuttavia calato in un solo colore poetico e reso omogeneo da un unico, intenso afflato ispirativo. Molte strofe sono all’indicativo presente singolare, in prima persona o in seconda retorica, e, in un’iperpercettività visionaria, registrano l’hic et nunc  del momento ispirativo.

Due, di taglio precettivo, sono in imperativo di seconda singolare.

 

XIX

Impara la sacralità del rito,

del ritmo che scandisce la giornata,

della luce deserta inanimata

nel fluire di un tempo ormai impietrito.

 

 

XXVII

Tu serbali preziosi nel ricordo

Questi giorni d’amianto e d’ametista

In cui fra Cielo e Terra un mutuo accordo

Fu stabilito-fulgida conquista.

 

La nona strofe, ode alla magia metafisica e trascendente dell’inverno, ragguardevole per la pregiata fattura e la forza icastica del secondo verso, ha un respiro corale, universale e all’ “io” subentra il “noi”:

 

IX

Si congela il rigore dell’inverno

In vitrea sospensione adamantina.

Nel silenzio incantato ci avvicina

Il costante contatto con l’Eterno.

 

 

Sentenziose e motteggianti sono le strofe XV e XVII

XV

Trasumanare è l’unica avventura-

Annullare del corpo ogni barriera-

Del tempo valicare la frontiera.

Questa è dell’infinito la misura.

 

XVII

“O tu uccidi l’insidia o lei t’uccide”

Ma con l’odioso invisibile tarlo

può saggia strategia sempre ignorarlo.

Il male annienta solo chi lo vide.

 

 

La scena della strofe tredicesima è una visione tutta mitologica.

 

XIII

Del Minotauro immagino la stanza

di pareti fasciata ultrasonore-

Arianna il filo tende, alla distanza

Teseo avanza nel fitto tenebrore.

 

 

Una sola quartina, la settima, in prima persona di imperfetto e gravida di metafore, è retrospettiva, e riassume una vita passata incostante, elusiva, dispersiva e fuggitiva:

 

VII

Ondivago e fedele ad ogni riva

sul capriccioso vortice eludevo

ogni approdo; gioiosa e fuggitiva

al largo la mia rotta disperdevo.

 

Nell’ordinamento metrico, dove comunque obbligata è la tonica in decima su parola piana, si riscontrano varie soluzioni ritmiche dell’endecasillabo e si ravvisa altresì qualche sporadico inciampo, specie in alcuni endecasillabi di fine strofa. Deroghe queste certamente volute, a mo’ di vezzo, forse, per dare un tocco informale, antiaccademico e “naif”, all’eloquio poetico oltre che, verosimilmente, per tutelare la comprensibilità del dettato. La strofe di congedo, virgiliana, richiama un memorabile passo del IV libro delle Georgiche:

 

XXIX

Così i morti non muoiono, e la vita

Non è quel soffio che si fa respiro.

In un vortice solo, in cieco giro,

Un flusso ininterrotto s’infinita.

 

“His quidam signis atque haec exempla secuti
esse apibus partem divinae mentis et haustus
aetherios dixere; deum namque ire per omnes
terrasque tractusque maris caelumque profundum.
Hinc pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum,
quemque sibi tenues nascentem arcessere vitas;
scilicet huc reddi deinde ac resoluta referri
omnia nec morti esse locum, sed viva volare
sideris in numerum atque alto succedere caelo.

 

(Virgilio, Georgiche, IV 219-227)

 

“In base a questi segni e osservando il loro comportamento

qualcuno ritiene che nelle api vi sia una parte della mente divina

e un’origine celeste: perché il dio penetra in ogni cosa,

nelle terre, sopra le distese marine, dentro il cielo profondo;

e greggi, armenti, uomini e tutti gli animali, nascendo,

dal dio attingono la loro effimera vita;

poi, dissolti i corpi, al dio ritornano e a lui si rimettono,

né esiste per loro un luogo di morte,

ma vivi volano alle stelle ed entrano nell’immensità del cielo.”

 

Insieme ricapitolazione e confessione, profezia e sentenza, questa breve raccolta di strofe in rima, a un tempo testimonianza e lascito, è come percorsa da una fede tutelare, da uno spirito di speranza, benevolo e conciliante.

Leggere questi versi fa bene all’anima.

Luciano Domenighini

 

Biobibliografia di Luciano Domenighini

 

Luciano Domenighini è nato a Malegno (BS) nel 1952. Ottenuta la Maturità Classica si è laureato in Medicina e ha svolto la professione medica quale medico di Medicina Generale, attività che svolge tuttora. Negli anni universitari, a Parma, presso una radio locale ha condotto per quattro anni una rubrica radiofonica di musica operistica. Come poeta ha pubblicato tre raccolte di poesie: Liriche Esemplari (2004), Le belle lettere (2017), Il giardino dei semplici (2019); come critico letterario, l’antologia di profili critici di poeti emergenti La lampada di Aladino, (2014) e infine, in veste di traduttore, due raccolte di traduzioni dal francese: Petite Anthologie, (2015), Saggio di traduzione, (2016) e due dal latino Poemi didascalici latini, (2017) e Poeti satirici latini, (2019). Attualmente ha in preparazione una nuova silloge poetica e una raccolta di traduzioni dal greco.

 

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Studio di Silvio Aman su “Canti della clausura e del deserto” – poemetto in quindici stanze, inediti di Silvio Raffo

08 venerdì Mag 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Canti della clausura e del deserto, Silvio Aman, Silvio Raffo

There is a strenght in proving that it can be borne

Although it tear –

What are the sinews of such cordage for

Except to bear

The ship might be of satin had it not to fight –

To walk on seas requires cedar Feet

 

Il senso della forza è nel provare

che a ciò che ti distrugge puoi resistere –

a che servono i nervi di una fune

come la tua, se non per sopportare –

Fosse la nave di raso, non occorrerebbe lottare –

Per camminar su mari ci vogliono piedi di cedro

 

(Emily Dickinson)

 

A me che al chiaro tendo

nuvola tenebrosa

insiste il firmamento

a consacrare sposa

 

sento dalle segrete

dell’anima una fonte

premere – dalla sete

odo catene gemere

 

ma non so che germoglio

di pietra sboccia intanto

e quell’intima vena

mura in ghiacciato pianto

 

*

cammino (solo in sogno)

per certe bianche strade

dove i passi non toccano il selciato

 

in verità dimoro

entro murate stanze

il cui ingresso da Gorgoni è vegliato

 

*

pietra di sogno

inarca il mio recinto

filtra da crepe

il canto del deserto

penso talvolta al mio chiuso dolore

come a un prisma di ghiaccio levigato

trasparente prigione –

dall’esterno

invisibile vedo mani tese

tastare la parete, puntellare

la rocca inespugnabile in eterno

*

Fende le nubi il mio pugnale azzurro

depredando le case ampie del cielo

 

ma sotto a quelle sfere, ad onde, a flussi

e riflussi di torbide correnti

che assalti di scirocchi e di libecci

che bufere d’oblio fosforescenti

 

le sere che placarsi sembra il vento

dal tumido furore che deborda,

mutarsi in carezzevole elemento

che fiamma o fumo tetro non ammorba

 

un gelo cala sulle buie rive

del mio orizzonte, livida una lama

s’irradia nell’antartico splendore

e da lampi assediato il giorno muore

 

le notti sono inferni di tregenda

distillate da un’orrida fucina,

visceri d’astri aggrovigliate serpi

che dilania un falcone da rapina

 

e ho conosciuto un’alba di corallo

rossa come una lingua che lambiva

su un morto fiume, fulgido sciacallo,

brandelli del mio corpo alla deriva

 

*

è la Memoria un lungo corridoio

con le pareti foderate a specchi,

privo di pavimento –

ai due lati un abisso, lo strapiombo –

io cammino a ritroso sulla fune

tesa da un’inflessibile Distanza

per chissà quale orrendo esperimento

 

*

a volte un volto occhieggia nella notte,

una forma tra umana ed animale –

con modi ambigui e frasi d’occasione

una tregua propone a basso prezzo,

a garanzia della liberazione –

non scendo a patti mai, benchè lo strazio

raddoppi nel mio gioco innaturale

 

*

ho la nebbia negli occhi

i nervi a pezzi

fiacche, piagate membra

si sfaldano le ossa –

nella buia visione

mi sorridono vermi da una fossa

 

 

*

m’è divenuto familiare il canto

che lieve ascolto a tratti risalire

dalla piatta distesa che circonda

le mura della torre – come voce

che dalle aggrovigliate ondose spire

della sabbia il tormento voglia dire

al condannato fisso alla sua croce

 

*

“prigioniero comanda al tuo Signore

di rinsaldare i nodi della corda

tu claustrato funambolo cantore

corpo insonne al martirio, anima sorda,

ancora un poco soffri la tua pena

dividila coi grani della rena”

 

*

“anche se qualche inganno ti sedusse

di quando in quando, tu non distogliesti

lo sguardo mai dalle tue stelle fisse

 

a ciò non fosti il solo, altri patimmo

gli stessi inganni, e tutto il tuo martirio –

nella sabbia la pena seppellimmo

per attutire l’urla del delirio

 

accecati da un sole mercenario

abbiamo trascinato questa vita

di giorno in giorno, al vaglio della pena

a denti stretti. Meglio se desista

il tempo dal suo futile cimento,

meglio la sosta ai limiti d’Altrove

dove la luce sfumi nel riverbero

 

qui la luce è miraggio liquescente,

fata morgana, alone d’ametista

l’occhio velato è pago di quel niente

un ragnatelo maschera la vista

 

così per l’acqua: di secreti umori

s’alimenta una sotterranea linfa

che ci conforta nell’eterno ardore –

dagli oscuri meati stilla un pianto

sommesso come lacrime di ninfa

che è la sorgente d’ogni nostro canto”

 

*

m’addestra il canto a sopportar la croce

poi che verrà – già il duro abbraccio sento

ed il suo antico peso riconosco –

in un vivido lampo mi rammento

che mi s’era promesso da bambino

nascosta agli occhi, con tarlata voce,

quando m’ero smarrito in quel giardino

*

crocifissione, palma del martirio –

la mano bianca dell’impalatore

consacra il corpo all’ultimo sigillo –

ma il suo volto è velato dal pudore

 

non lo vedrò: sarà come per l’angelo

che mi bendò quando mi benedisse

 

ma dai modi gentili fu tradito –

in lui mi riconobbi, e fui punito

 

*

Passione, compimento del Calvario –

smaglia le carni il tuo pietoso uncino

e l’anima si libra dal sudario

 

(1989)

 

Pourtant, sous la tutelle invisible d’un Ange,

l’Enfant déshérité s’enivre de soleil,

Et dans tout ce qu’il voit et dans tout ce qu’il mange

Retrouve l’ambroisie et le nectar vermeil.

 

Il Joue avec le vent, cause aver le nuage,

Et s’enivre en chantanto de chemin de la croix;

Et l’Esprit qui le suit dans son pèlerinage

Pleur de le voir gai comme un oiseau des bois.

 

Tous ceux qu’il veut aimer l’observent avec crainte,

Ou bien, s’enhardissant de sa tranquillité,

Cherchent à qui saura lui tirer une plainte,

Et font sur lui l’essai de leur férocité.

C. Baudelaire, Bénédiction

 

Il Poemetto (1989) cui presiede nel posto d’onore Emily Dickinson, si avvicina alla forma prosodica del discordo perché, sebbene vi prevalga la quartina, presenta una discreta eterostrofia. Questa forma, in un poeta conosciuto per il suo classicismo e la capacità di scrivere versi impeccabili, è tuttavia motivata dall’aspetto desultorio e spesso drammaticamente teso della composizione.

Per ciò che riguarda il titolo principale, esso assume un diverso valore riguardo al recente Il taccuino del recluso per il fatto di non dipendere da una costrizione oggettiva (il divieto di abbandonare la propria casa per non essere contaminato dal virus) bensì psicologica e, per estensione, esistenziale.

Il senso della forza, esemplato da Emily Dickinson, consiste nel provare che si può resistere agli effetti distruttivi, procurandosi «i nervi di una fune» e i «piedi di cedro» cioè lo scafo per camminare sull’onda marina, sennonché Silvio Raffo lascia trapelare una direzione opposta con evidenti caratteri platonico-cristiani per il riferimento al Calvario, alla passione, alla croce e, di conseguenza, al librarsi dell’anima dal sudario:

 

Passione, compimento del Calvario –

smaglia le carni il tuo pietoso uncino

e l’anima si libra dal sudario

 

La passione, che qui non è intesa nei comuni termini affettivi, appare il compimento della salita al Golgota come preludio alla liberazione dal corpo: proprio per questo, l’uncino al suo servizio è definito «pietoso».

Calvario potrebbe essere inteso in termini metaforici, come quando si dice “che calvario!” ma alcuni riferimenti nei Canti e in poesie di altre raccolte, lo determinano come situazione permanente. Occorre, tuttavia, vedere come.

Ciò che qui si nota, è il contrasto fra tendenza alla luce (cui Raffo, anche per la sua figura e le sue esposizioni pubbliche, pare davvero votato) e la «nuvola tenebrosa» contrasto seguito dalle altre figure opposte dell’idrico e del gelidamente litico. Flusso, dunque, ma gocciolante da un cuore che si è trasformato in dolente alambicco:

 

sento dalle segrete

dell’anima una fonte

premere – dalla sete

odo catene gemere

 

ma non so che germoglio

di pietra sboccia intanto

e quell’intima vena

mura in ghiacciato pianto

 

La prima di queste quartine echeggia a rovescio e da lontano i distici iniziali che d’Annunzio dedicò alla celebre villa progettata da Pirro Ligorio per il cardinale Ippolito d’Este, non senza la suggestione da Jeux d’eau à Villa d’Este dell’abate Liszt (quante gocce si sentono in questa musica!) che il poeta aveva avuto modo di ascoltare da giovinetto proprio in quella villa in una notte di plenilunio, sennonché in Raffo il «pianto» come spirito canoro del Pescarese

 

(Quale tremor profondo la pace degli alberi, o Muse,

agita e alle richiuse urne apre il sen profondo?

 

Chi, dentro gli àlvei muti svegliando gli spirti del canto,

leva sì largo pianto d’organi e di liuti?)

 

assume i timbri della Musa dolente:

 

“… dagli oscuri meati stilla un pianto

sommesso come lacrime di ninfa

che è la sorgente del nostro canto”.

 

Così intonano i fantasmi, cioè i simili, dal deserto. A questo punto sorge la domanda: si tratta della ninfa o della sirena? Nella mitologia certe ninfe subiscono la metamorfosi salvifica che le trasforma in fonti e fiumi, elemento libero, inafferrabile e canoro, mentre qui essa parrebbe assimilarsi alla dolente sirena in cerca del contatto umano, e proprio per questo il suo canto è anche quello del pianto, con rima vagamente paronomastica, ma non antonimica, perché il primo può ben nascere dal secondo. Anche d’Annunzio nomina il pianto con una tonalità tuttavia diversa, perché quello delle fonti richiama ambivalenti sonorità: un continuo oscillare – nel suo chiocciolio – fra la dimenticanza e il melanconico ricordo di ciò che la ninfa era, ma sempre fluido e vitale. Non bisognerebbe inoltre escludere il carattere erotico della ninfa (assieme alla nomenclatura riferita agli orli della matrice: le ninfe) che Raffo sterilizza e addolora nel canto ostruito dal «germoglio di pietra» “vegetale” ma sterile, come lo sono le stalattiti formate nel buio dal lento “goccia a goccia”.

Silvio Raffo non soffre certo di aridità poetiche, anzi le sue composizioni sgorgano con sorprendente generosità e ricchezza d’immagini musicali spesso positive, mentre qui la sua incantevole voce, anziché scorrere abbeverando, s’intreccia e congela nella figura “litovegetale”. A questo proposito, mi sembra che anche nei versi onomatopeici «… dalla sete/ odo catene gemere» “sete” possa richiamare, per inconscia analogia, gli acquatici fruscii della seta-satin presenti nella poesia dickinsoniana in opposizione al gemere, cioè della pressione intimamente inibita. Certo al posto del flusso vitale abbiamo il doloroso gocciolio dai «meati» che in tal caso assume maggiore intensità, sebbene non lo accolga la preziosa coppa della poesia, come si legge in un altro libro, ma il graal del crocefisso.

Dopo la terza stanza, si presenta una cesura nel flusso ideativo, sia pure alleviata da una specie di assonanza con vaga funzione di coordinamento ritmico di pianto: selciato parzialmente assonanti, e da questo punto in poi il poemetto offre una serie di elementi che dilatano il motivo della quartina successiva alla poesia di Emily Dickinson: «A me che al chiaro tendo/ nuvola tenebrosa/ insiste il firmamento/ a consacrare sposa».

Raffo ha già nominato questo matrimonio in Annuncio di nozze: «Io/ e Madamigella Poesia/ ci siamo sposati/ stasera/ alla Casina Valadier». Ora però la fiabesca ironia di Annuncio scompare e il percorso assume un tono drammatico, sicché, dalla terzina spettrale in cui il poeta sogna di camminare «per certe bianche strade/ dove i passi non toccano il selciato» (bianco con una probabile connotazione funebre) segue un capovolgimento: «in verità dimoro/ entro murate stanze/ il cui ingresso da Gorgoni è vegliato».

Dalla «pietra di sogno» di cui la torre è formata, filtra però (non si sa se davvero consolatorio) il canto del deserto, il sabbioso “responsorio” affratellante e incitativo da parte degli altri condannati, i fantasmi ora sepolti laggiù, extra muros.

Il poemetto si muove insomma nei modi della rapsodia attorno ai centri gelo e condanna, tutti inquilini di una torre inespugnabile, i quali non presentano più i risarcimenti del prezioso elisir distillato dal dolore, tanto che al pugnale azzurro che fende le nubi «depredando le case ampie del cielo» (l’immagine potrebbe richiamare il Nimrod di Enigma Variations di Edward Elgar) segue la distillazione di «un’orrida fucina».

E la memoria? Essa è un corridoio di specchi fra due abissi in cui il funambolo, con rischio raddoppiato, cammina a ritroso su una fune significativamente «tesa da un’inflessibile Distanza» perciò senza produrre alcuna effettiva avanzata, e di questo c’è semmai da rallegrarsi, perché le poesie di Raffo, circolarmente musicali, non rovistano nella spazzatura della memoria volontaria. Come l’acqua che forma le stalattiti si congela nel calcare con cui forma una selva a rovescio – e nel tempo la sua omonima in crescita dalle stalagmiti – essa potrebbe attendere questa congiunzione… al fine di ricostruire una storia personale? Direi di no: semmai per cancellarla nelle acque materne.

La fune, presente nella poesia della Dickinson come immagine di forza, rappresenta dunque di nuovo un rovescio, trasformandosi in quella del «claustrato funambolo cantore» la cui polarità è astrale e lontanissima dalla tregua proposta dalla forma «tra umana e animale», e lo stesso moto contrario, per usare una figura presente in musica, è attivo nella lama che non fende più i cieli per sgominarne le case, ma l’«antartico splendore»:

 

… livida una lama

s’irradia nell’antartico splendore

e da lampi assediato il giorno muore

 

Figura retrovolta? No, perché il funambolo, nel retrocedere, si allontana dal futuro senza nulla vedere del passato.

Nell’ottava stanza, il poeta nomina la lusinga proposta da «una forma tra umana ed animale» che

 

con modi ambigui e frasi d’occasione

una tregua propone a basso prezzo

a garanzia della liberazione –

non scendo a patti mai, benché lo strazio

raddoppi nel mio gioco innaturale

 

liberazione offerta invece dal Calvario, come evidenziano i tre versi finali dei Canti. Del resto, nella dodicesima stanza si trova (come voce dal deserto dei compagni di sventura): «“anche se qualche inganno ti sedusse/ di quando in quando, tu non distoglieresti/ lo sguardo mai dalla tue stelle fisse”».

Rileggendo le poesie di Raffo, non ci vorrebbe molto a identificare la forma dal doppio attributo: è quella della persona comune, lontana dalla poesia e dall’anelito che spinge il poeta platonico a vedersi rinchiuso nella torre come i contratti prigioni michelangioleschi lo erano nel marmo.

Riguardo alla luce cui il poeta tende, nella dodicesima stanza, appare la precisazione:

 

qui la luce è miraggio liquescente,

fata morgana, alone d’ametista

l’occhio velato è pago di quel niente

un ragnatelo maschera la vista

 

così per l’acqua: di secreti umori

s’alimenta una sotterranea linfa

che ci conforta nell’eterno ardore –

dagli oscuri meati stilla un pianto

sommesso come lacrime di ninfa

che è la sorgente d’ogni nostro canto

 

Non si tratta, perciò, della luce in cui appare il mondo fenomenico, altrimenti il poeta non nominerebbe il «ragnatelo» ma di quella mirifica e stillante del canto-pianto. All’acqua come metafora del flusso poetico si associa insomma la luce «liquescente» per il fatto di presentarsi come portatrice del miraggio, cioè della stessa ispirazione del poeta rinchiuso nella torre e addestrato dal canto «a sopportar la croce». Da solo? No, perché, come ricordato sopra «dalla piatta distesa che circonda le mura della torre» il poeta ascolta risalire a tratti il canto-esortazione dei compagni di pena:

 

prigioniero comanda al tuo Signore

di rinsaldare i nodi della corda

tu claustrato funambolo cantore

corpo insonne al martirio, anima sorda,

ancora un poco soffri la tua pena

dividila coi grani della rena

 

cioè con le miriadi dei simili «accecati da un sole mercenario» che offre «la tregua a basso prezzo» per cui, tornando all’acqua e al riverbero, lungi dalla fissità della luce naturale, i condannati agognano i sembianti, sebbene illusori («qui la luce è miraggio liquescente») qualcosa d’indiretto e sublimato nella poesia… e questa, almeno nel Nostro, è più lunare che solare. D’altra parte, la rivelazione di certe sfumature d’immagine e pensiero, avviene con l’ausilio delle penombre poetiche e i loro riflessi, non nella luce naturale.

Nella terzultima e penultima stanza, dove Raffo diventa enigmatico, è nominata la croce promessa al bambino smarrito «in quel giardino» che si suppone sia l’Eden per la presenza dell’angelo non sottoposto alla natura, e costui sa di non doversi far riconoscere, così come l’impalatore pudico (con un passaggio non meno cruento e impudico alla crux simplex) non sarà visto dal martire, perché il martirio, benché promesso, rimane incognito fino alla sua rivelazione (sarà stato, usando il futuro anteriore) ma anche duplice: intreccio di pianto e canto, senza soluzione di continuità.

La precoce condanna dipende dal fatto che il bambino riconosce se stesso nell’angelo, cioè – per riprendere la precisazione – in chi non ha «forma tra umana e animale». Quest’ultima, nell’Eden, è sottoposta alle lusinghe del Tentatore, secondo la plausibile interpretazione di Beverland (in Il peccato di Adamo ed Eva) mentre il poeta persegue il suo «gioco innaturale» al fine di ottenere dal proprio alambicco i profumi della poesia ai quali il corpo recluso si ribella con le sofferenze ben note a Santa Teresa d’Avila, che nella sua lotta contro il demonio, alias il sole mondano e «mercenario» confessa appunto le pene perpetrate dall’«orrida fucina» perché resistere alla natura comporta il raddoppio dello strazio.

 

Silvio Aman

 

Bibliografia 

 

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Il niente ineludibile di Gianluca Conte, L’argoLibro Editore

24 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Adriana Gloria Marigo, Gianluca Conte, Il niente ineludibile

L’ineludibilità del niente: una lettura olistica

di Adriana Gloria Marigo

Il filosofo Jean Paul Sartre in L’origine della negazione, L’Essere e il Nulla scrive, a proposito dell’indagine che andrà a elaborare: «(…) Ma ciascuna delle condotte umane, essendo condotta dell’uomo nel mondo, può offrirci contemporaneamente l’uomo, il mondo, ed il rapporto che li unisce, a condizione che esaminiamo queste condotte come delle realtà obiettivamente percepibili e non come affezioni soggettive che si scoprono soltanto allo sguardo della riflessione. Non ci limiteremo allo studio di una sola condotta. Tenteremo, invece, di descriverne molte e di penetrare, di condotta in condotta, proprio nel senso profondo della relazione “uomo-mondo”».

Il passo contenuto nelle prime pagine dell’elaborazione del concetto sartriano di “nulla” si attaglia alla modalità dell’analisi che Gianluca Conte compie con la chiara consapevolezza di trovarsi davanti a uno dei temi vertiginosi che hanno fondato parte della ricerca di filosofia: dal momento che l’uomo avverte di “essere-posto-in”, ovvero ‘in situazione’, esperisce che il rapporto con sé stesso e il mondo, con sé stesso e l’Altro, è un problema che presenta una declinazione di considerazioni, elaborazioni che riguardano il senso della presenza dell’ “ente” in rapporto a quelli che sono gli elementi che non si possono eludere, che sono ineluttabili in quanto “co(r)–relativi” all’ente”, che viene così a situarsi in una significazione di complessità, a partire dall’osservazione che la relazione presenta un elemento ineludibile, ovvero “dualità” dal momento che con la verità dell’ “ente” sorge la verità del “non–ente”.

Questo elemento di criticità induce Gianluca Conte a superare le strettoie – ma ricchissime di verticalità ontologica – dell’indagine filosofica classica introducendo un approccio, un approfondimento della relazione niente–nulla che attiene alla visione olistica, ossia a quella linea di pensiero definita olismo che riconosce il riduzionismo come non esaustivo nella indagine, poiché le proprietà di un sistema non si possono spiegare definitivamente mediante le singole componenti in quanto «la sommatoria funzionale delle parti è sempre maggiore/ differente dalla somma delle prestazioni delle parti prese singolarmente».

È chiaro dunque che l’autore de Il niente ineludibile ci avverte che l’argomento, nella sua articolazione, è un ‘organismo’ che, in quanto oggetto di indagine speculativa, posto dunque nello spazio del pensiero, eccepisce che le parti che lo compongono sono tutte intramate di relazione: non si possono trascurare o privilegiare alcune invece di altre parti, pena l’incompletezza dell’indagine e di nuovo la caduta nel riduzionismo che licenzia come vero ciò che è inficiato di parziale verità, se non addirittura di non–verità. A tale proposito urge in Gianluca Conte chiarire in modo risolutivo che «Il nihil della metafisica non è il ni–ente, ovvero un ‘non–essere relativo’, bensì il nulla, ‘nessuna cosa’. (…). Il ni–ente, quindi, non è in –essente assolutamente non–essente, bensì un in–essente geo–locato». Ed è proprio in relazione a questo dettaglio, che implica una certa originalità rispetto al dettato classico, che l’Autore fa riferimento, secondo quello sguardo ‘olistico’ sopra citato, alla «tradizione mistica occidentale» attestando che l’indagine filosofica, nella sua peculiare natura complessa può accogliere ulteriore complessità di saperi, avvalersi di altri vertiginosi contributi nulla togliendo alla specificità della materia di filosofia. In un ulteriore passaggio inerente al concetto in analisi si legge:  «Il ni–ente, come alternanza ontica, come ‘luogo ontologico altro’ che è altrove rispetto all’ente, inerisce la quiete, la figura geo–locata e geo–metrica che evoca l’oscillazione dell’ente nel limen di forme segniche archetipiche. Il luogo della ‘de–solazione’, dell’ ‘a–ridità’, del vuoto relativamente al pieno». In tale visione che pone in relazione, supera la contrapposizione concettuale, si evince l’abbandono del dualismo cartesiano preferendo la via meno percorsa nella tradizione filosofica occidentale, ossia la speculazione iniziata da Baruch Spinoza – e muove dal panpsichismo di Giordano Bruno – la cui indagine determina una visione non solo razionale, ma anche intuitiva, unitaria della realtà asserendo, il filosofo di Amsterdam, nel seguente passaggio: «Inoltre, che cosa si può dare di più chiaro e di più certo che sia norma di verità, se non l’idea vera? Senza dubbio, come la luce manifesta se stessa e le tenebre, così la verità è norma di sé e del falso». Laddove Gianluca Conte analizza « Il nihil della metafisica»; la «dimensione mistica »; «Il ni–ente, come alternanza ontica»; «La dualità oppositiva–relativa tra ente e ni–ente»; «Il silenzio è dunque linguaggio in assenza di linguaggio»; «Il silenzio ritorna anche in Plotino come silenzio metafisico»; «Il logos insieme alla mancanza–assenza, pone miti e credenze: crediamo perché difettiamo di unità e di conoscibilità»; «L’intuizione, quindi, è radice del pensiero, in quanto elemento mistico e, come tale, capace di un angolo visuale differente, che trascende, a un tempo, conoscenza e volontà»; «La dimensione del ni-ente è, ad un tempo, prossima e distante. L’immaginifico della luce e quello dell’oscurità sostanziano un frangente–limite; l’indecifrabile momento in cui la luce non è più e la tenebra non è ancora»; «Il ni–niente, nell’accezione che fa riferimento a un multi–verso, rappresenta un corrispettivo filosofico di ciò che in fisica viene identificato come antimateria»; «Lo stesso infinito, come dimensione abissale di sterminata grandezza, si estende, secondo il Leopardi, in direzione del nulla: (…) Spazio e tempo incontrano il nulla nel luogo liminale posto tra esistenza e annientamento, e stringono con esso una relazione immemoriale e incontrollabile, poiché il nulla, per sua natura, è il massimo della presenza nella totalità dell’assenza.» è possibile osservare che egli accoglie una metrica di indagine dal connotato ermeneutico implicante le qualità del pensiero analogico affinché accada la verità dell’ente e del ni-ente accogliendo saperi di ordine differente e che pure afferiscono per vie trasversali e analogiche alla postura di filosofia, avendo recepito la lezione comparatistica e necessaria per introdursi entro il nucleo ontico che costituisce l’unità e la polarità della materia indagata che per Gianluca Conte, come per Baruch Spinoza, è nel suo complesso pienamente intelligibile, poiché nulla può essere considerato, a priori, inconoscibile. Dato questo assunto, è pur vero che gli uomini non partecipano tutti di una conoscenza innata e adeguata, poiché sono per lo più assoggettati agli idola di Francis Bacon che li flettono a immaginare senza conoscere, a credenze, non-verità. Occorre, infine, osservare che nell’indagare la relazione niente–nulla emerge che «Nell’essere permane qualcosa di non–visibile, di non–percettibile e, di conseguenza, di non–dicibile.»: ciò ha quale effetto l’accadere del ‘silenzio’, che s’invera «quando non vi sono parole atte a esprimere il nulla di essente». Il silenzio si colloca in un piano di significazione decisamente relazionale: non è soltanto l’atto di tacere davanti a un altro che parla, ma è l’orizzonte di senso in cui accogliere la realtà nel dato dell’apparenza e in quello del non-visibile, che in essa è contenuto. È in quell’ ‘orizzonte di senso’ che pulsa dal niente/silenzio il sorgere della natura ‘creante’ e ‘originaria’ del Logos la cui costituzione, anch’essa relazionale, nulla osta al “silenzio” in cui, come scrive il filosofo francese Louis Lavelle «Vi sono tutte le forme possibili di silenzio. C’è un silenzio di chiusura, un silenzio di riservatezza, un silenzio di mortificazione, un silenzio di collera, un silenzio di rancore. Ma c’è anche un silenzio dell’accettazione, un silenzio della promessa, un silenzio di donazione, un silenzio del possesso. C’è un silenzio che porta il peso di tutti i ricordi senza evocarne nessuno, un silenzio che prende in esame tutte le possibilità senza preferirne nessuna. C’è un silenzio pesante che mi opprime in tal modo che la più piccola parola sarebbe per me una liberazione, c’è un silenzio fragile di cui temo la rottura, c’è un silenzio in cui ringhia una ostilità irritata dal non trovare mezzi abbastanza forti per manifestarsi, c’è un silenzio dell’amicizia piena, felice di aver superato tutte le parole e di averle rese inutili. C’è il silenzio dell’ammirazione e quello del disprezzo, talora il silenzio mi fa sentire la presenza del corpo come un fardello che non posso sollevare; talora invece sembra abolirlo, come se fosse divenuto uno spirito nuovo (…) C’è un silenzio che si origina ora dall’indifferenza ora dal partito preso. È un rifiuto a socializzare con un altro essere o, e ciò è ancor più grave, una certa incapacità di farlo».

 

Nota dell’Autore

Il linguaggio comune utilizza i termini niente e nulla come sinonimi, dando a essi accezioni assimilabili alle idee di nessuna cosa, vacuità, assenza, vuoto, desolazione. Tale consuetudine può essere considerata non solo il frutto della tradizione storico-popolare e mistico-religiosa, ma anche di quella poetico-letteraria e filosofica. Espressioni come «Non siamo nulla» oppure «Su questa terra siamo niente» spiegano bene la concettualizzazione di fondo presente dietro le due parole, che narra della volontà di esprimere la condizione transeunte dell’umano, l’essere di passaggio dell’individuo e della moltitudine. La fine della vita terrena, con tutte le conseguenze che questa implica, ha suscitato da sempre riflessioni a più livelli di pensiero. La paura del totale annullamento, dell’epilogo definitivo dell’esistenza, associata a quella dell’ignoto, è stata fonte di ricerche, discussioni, dibattiti, creazioni artistiche e letterarie, studi filosofici e teologici. Dai motti popolari agli eleganti versi poetici, dalle meditazioni mistiche alle speculazioni metafisiche, il concetto di nulla/niente ha rappresentato l’incontro dell’umano con la «dimensione del tragico», propria della sua impermanenza.

Il ciclo vitale ‘nascita-crescita-degenerazione-morte’, filtrato attraverso il mito e il sacro, ha gettato le fondamenta per una genesi storico-escatologica in cui il nulla/niente rappresenta il «luogo immemoriale» da cui scaturisce la vita di ogni ‘essere’ e quello a cui ciascun vivente ritorna dopo la morte. Quella umana, dunque, è un’«esistenza in dissolvenza», un «abisso destinale» o «destino abissale» cui nessuno può sottrarsi. In tal senso, la presunta riducibilità dei termini nulla e niente ha posto le basi per un’omogeneità teorica che ha legittimato un’equivalenza di senso. Tuttavia, come si vedrà in seguito, questo breve saggio vuole essere un tentativo di mettere in discussione proprio tale identità, cercando di portare alla luce le differenze – «fondativa», «genealogica» e «linguistica» – che sussistono tra i due concetti. Si tratta di una duplice diversità, che riguarda sia il significante sia il significato, poiché se, come  ci ricorda Agostino, «aliquid stat pro aliquo», il problema non è soltanto semiotico ed ermeneutico ma anche, e soprattutto, ontologico e gnoseologico. «I segni naturali sono quelli che, senza intenzione né desiderio di significare, fanno conoscere, di per sé, qualcos’altro di più di ciò che essi sono»[1], scrive il filosofo de le Confessioni, anticipando alcune concettualizzazioni filosofiche posteriori che hanno avvertito le problematiche di cui sono suscettibili i legami tra «ciò che appare» e «ciò che è»[2].

Il segno, dunque, appartiene a un luogo remoto, eppure intellegibile, posto sulla soglia dell’apparizione nell’orizzonte di senso, ed è un elemento necessario alla conoscenza intuitiva del mondo. Sarà proprio il segno, come vedremo a breve, uno degli elementi che ingraviderà di significato la relazione tra ente e niente.

Il percorso qui proposto, partendo dalle origini della filosofia occidentale, in un confronto con il pensiero presocratico, in particolare quello di Parmenide, passando per Platone, Aristotele, la mistica, Leopardi, fino a giungere alla ricerca contemporanea, cercherà di sviluppare un’idea inedita del niente che, come poc’anzi affermato, pone in atto un tentativo di cogliere la disuguaglianza tra questa e il concetto di nulla abitualmente accolto e condiviso.

[1] Agostino D’Ippona, De Doctrina Christiana, Città Nuova, Roma, 1995.

[2] Agostino, attento conoscitore della lezione platonica e aristotelica riguardante il fenomeno, precorre le speculazioni successive che hanno indagato il rapporto tra ‘essere’ e ‘apparire’. Si pensi, a titolo non esaustivo, a Hobbes, Locke, Hume, Kant, Schopenhauer, Husserl, Heidegger.

Biobibliografia di Gianluca Conte

Gianluca Conte è nato a Galugnano (Le) nel 1972. Vive nel Salento, dove insegna Filosofia e Storia nei licei. Tiene conferenze, seminari e laboratori riguardanti la filosofia, la simbologia, la poesia e l’arte.

Ha pubblicato i saggi Nietzsche. Contro la modernità, Catartica Edizioni, 2018; Il pensiero metacreativo. Nuovi percorsi della mente, Musicaos Editore, 2015; Carmelo Bene inorganico, Musicaos Editore, 2014.

Le raccolte poetiche Universo minimo, Alimede, 2016; 28 strade ancora, Magazzino di Poesia di Spagine, 2014, a cura di Mauro Marino; Danza di nervi, Lupo Editore, 2012, vincitrice del primo premio PugliaLibre 2012; Il riflesso dei numeri, Centro Studi Tindari Patti, 2010, finalista al premio “Andrea Vajola”; Insidie, Il Filo, 2008.

Il romanzo Cani acerbi, Musicaos Editore, 2014.

I racconti La boutique della carne/Teste d’osso, Musicaos Editore, 2014.

Altri suoi scritti sono presenti in varie antologie, tra cui “Inchiostro di Puglia”, e sul Web.

Cura il blog Linea Carsica e collabora con Cammini Filosofici, Alimede Poesia, Itinerari Metacreativi, Zona di Disagio e Frequenze Poetiche.

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Quattordici quartine inedite da “Il taccuino del recluso o La veglia del novizio” di Silvio Raffo, 2020

17 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Il taccuino del recluso o La veglia del novizio, Silvio Raffo

 

 

da un presente infinito con qualche scaglia di confuso passato

 

in limine

Il mio taccuino ha i bordi levigati

come il libello di Catullo netti.

Con cura annoto i versi appena nati

sulla pagina, belli e benedetti.

 

I

Come novizio nell’angusta cella

ogni gesto misuro, ogni respiro.

A tratti sogno, spasimo, deliro.

Scelgo in cielo la più remota stella.

 

II

Dell’inerzia la fredda disciplina

ottunde la memoria ma rinsalda

le sfibrate pareti della falda,

fa più acuta la vista, e i sensi affina.

 

III

Il tempo si è sospeso al suo confine

e più non si affatica a tormentarci.

La clessidra ha deposto. Ma la Fine

non vuole indifferenti sopraffarci.

 

VII

Ondivago e fedele ad ogni riva

sul capriccioso vortice eludevo

ogni approdo; gioiosa e fuggitiva

al largo la mia rotta disperdevo.

 

IX

Si congela il rigore dell’inverno

in vitrea sospensione adamantina.

Nel silenzio incantato ci avvicina

il costante contatto con l’Eterno.

 

XI

Ben chiuse e sigillate le tue porte

che alla speranza sbarrano ogni ingresso –

Reame ti sei fatto di te stesso.

La clausura del cuore è pura Morte.

 

XIII

Del Minotauro immagino la stanza

di pareti fasciata ultrasonore –

Arianna il filo tende, alla distanza

Tèseo avanza nel fitto tenebrore.

 

XV

Trasumanare è l’unica avventura –

annullare del corpo ogni barriera –

del tempo valicare la frontiera .

Questa è dell’Infinito la misura.

 

XVII

“O tu uccidi l’insidia o lei t’uccide”

Ma con l’odioso invisibile tarlo

più saggia strategia sempre ignorarlo.

Il male annienta solo chi lo vide.

 

XIX

Impara la sacralità del rito,

del ritmo che scandisce la giornata,

della luce deserta inanimata

nel fluire di un tempo ormai impietrito.

 

XXI

Moltiplicare i giorni dell’attesa

nella certezza di un’estrema festa.

Eterno si fa il tempo, e l’ardua impresa

si fa leggera. Gioia pura è questa.

 

XXIV

Esaurito ogni palpito, ogni afflato

deposta ogni speranza che ci affanni,

non c’è minaccia di futuri inganni.

Ed è come se nulla fosse stato.

 

XXVII

Tu serbali preziosi nel ricordo

Questi giorni d’amianto e d’ametista

In cui fra Cielo e Terra un mutuo accordo

Fu stabilito – fulgida conquista.

 

XXIX

Così i morti non muoiono, e la vita

Non è quel soffio che si fa respiro.

In un vortice solo, in cieco giro,

Un flusso ininterrotto s’infinita.

 

Bibliografia di Silvio Raffo

 

Silvio Raffo, nato a Roma, vive e insegna a Varese. Traduttore di una dozzina di poeti angloamericani, autore di undici romanzi e più di dieci raccolte di poesia, dirige a Varese il centro di cultura “La Piccola Fenice”. Ha vinto numerosi premi di prestigio, fra cui il Gozzano, il Cardarelli, il Montale e il Valdicomino. Dal suo romanzo La voce della pietra, Elliot Edizioni, 2018 è stato tratto il film omonimo di produzione americana.

Ultime opere: il romanzo Il segreto di Marie-Belle, Elliot Edizioni, 2019 e la silloge poetica La ferita celeste, La Vita Felice, 2019. È autore dell’antologia di poesia italiana del Novecento Muse del disincanto, Castelvecchi, 2019

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Studio di Silvio Aman su “Il segreto di Marie-Belle”, Silvio Raffo, Elliot, 2019 (II parte)

10 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Il segreto di Marie-Belle, Silvio Aman, Silvio Raffo

(Continua da I parte)

Il romanzo, ben costruito (l’Autore è uno specialista nel trattare le suspanses) è interamente imperniato su una forma di devozione possessiva – e in alcuni momenti fomite di angoscia – ma casta. Solo un romanzo? La sua forma diaristica, sia pure prodotta da una folle, dice qualcosa di più di un’anamnesi richiesta dallo psicanalista per scopi terapeutici, perché il «servizio d’amore» di Aurelia, benché riguardi la cura dei malati (il proprio padre, l’avvocato, la depressa Madame e Belle) tradisce una derivazione trobadorica, assimilandosi a quello dei cavalieri medioevali per la loro dama. Il riferimento ai castelli e le figure stilizzate del romanzo potrebbero, in fondo, suggerirlo. La differenza sta nel fatto che qui a servire sia una donna. Siccome Aurelia desidera avvincere Marie-Belle secondo la nota formula del “per sempre” e deve perciò aggirare le insidie, sia pure immaginarie, che gli altri le preparano, la sua posizione si trova agli antipodi di quella esposta nell’Axël di Auguste de Villier de L’Isle-Adam. Qua, il margravio Axël d’Auërsperg convince la principessa Ève Sara Emmanuèle de Maupers a vivere il loro amore una sola volta, per poi bere il veleno (non a caso nei sotterranei del castello colmi di tombe) quindi senza il rischio di corroderlo con la durata. Del resto, le vicende di Piramo e Tisbe, Romeo e Giulietta e tante altre, a ben vedere sembrano fatte apposta per escludere l’aspetto “amministrativo” della vita a due: certi innamorati, romanticamente assolutisti, muoiono prima di vivere “felici e contenti” forse perché, come Axël con Sara e tant’altri, non reggerebbero al futuro e inevitabile defalco della felicità o la ritengono troppo misurata per accettarla. Certe coppie di Flaubert, Fromentin, o anche i due amanti di Le diable au corps di Radiguet, spenta la fiamma d’amore, non sono neanche “felici e contenti”.

Malgrado il timore di perderla, Aurelia – come abbiamo visto – favorisce la sua pupilla, trovandole la possibilità di entrare nel mondo del cinema attraverso il produttore Max Cherubino che disperatamente se ne invaghirà, iniziandola all’uso della cocaina. Da questo punto in poi, cioè fra le prove sul set in Francia (fissandosi sulla Butte, in cui più tardi troveremo la villa dell’infelice Dalida) e nel Regno Unito, la governante torna a seguire a ogni passo la sua “bambina” come persevera a definirla (sarà la sua sarta e truccatrice) che da parte sua – dopo un drammatico scontro – finisce però col respingerla…

“Max è un povero infelice anche lui, come me, ma dice di amarmi, dice che l’amore potrebbe salvare lui e me… Patetico, vero?”

“Da cosa potresti essere salvata, Belle?”

“Dai fantasmi dei ricordi… Da me stessa… Da me stessa, e da te”.

“Quello che stai dicendo è assurdo”.

“Oh certo, assurdo e vergognoso. Non sono più irreprensibile, vero?… Ma nemmeno tu lo sei”.

Il motivo di un simile atteggiamento è possibile scoprirlo solo al termine del romanzo, e ad ogni modo noi possiamo essere eventualmente salvati da circostanze esterne, ma non da noi stessi. Tutto si svolge così (in un tragitto costellato di catastrofi: la morte di Cherubino, quella di Madame, del padre e del fratellastro di Marie-Belle) fino al giorno in cui le allucinazioni di Aurelia diventano insopportabili e subisce il ricovero in Villa Sorriso. Questi accadimenti psichici come figure del senso di colpa, iniziano da lontano tramite segni inquietanti e premonitori in rapporto al desiderio della donna di proteggere la sua pupilla dal male, per poi rafforzarsi dando luogo a sogni angosciosi. La ragione di simili angosce dipende dal fatto che Aurelia, col suo delirio, si vede costretta a compiere dei delitti, le cui scene tornano per via onirica, ad esempio quando a bordo della Morgan di Werner si sente precipitare nel lago, o vede nella persona che ha di fronte sul treno lo stesso chauffeur trasformato nell’orrenda figura del persecutore, cioè del sospettato amante di Belle, il quale, in un’altra visione allucinatoria, pronuncia la verità per lei inaccettabile, che la ragazza sa salvarsi da sola – e qui uno psicanalista avrebbe qualche motivo di cogliere in lei la gelosia dell’omosessuale. Ma le cose si complicano, perché allucinando in un’altra scena la sua pupilla morta nel disastro da lei causato all’autista, rivela il desiderio di desiderarne la fine. L’enunciato, se l’ipotesi regge, sarebbe dunque il seguente: “Tu non amerai nessuno al di fuori di me, noi moriremo assieme”… e questo accadrà alla fine del romanzo. Aurelia, assecondando il proprio delirio d’interpretazione, intende i segni che via via trova nella realtà come manifestazioni del fato, cioè in termini di annunci e corrispondenze secondo i meccanismi della magia studiati da Frazer e altri studiosi del fenomeno, anziché figure del proprio desiderio. Non per nulla Raffo introduce nel romanzo lo psicanalista (o di uno psichiatra?) dottor Boni. Ciò per dire che l’idea del fato su cui s’imperniano altri racconti dell’autore in base alla logica del romanzo di destino (tutto è già scritto, e la conoscenza ne rileva via via solo il processo) è qui in parte accolta e in parte relativamente modificata proprio per l’intervento del terapeuta… ma l’analisi deve farla il paziente, e se Aurelia riesce a ritessere il filo della sua truce avventura, le cose non vanno allo stesso modo per l’articolazione dei suoi fantasmi e il suo desiderio: a vincere è insomma il fato in cui crede. Possiamo asserire che la governante agisca in modo inconscio? Si e no. Probabilmente sì, laddove è vittima dei segni fatali, ma non di ciò che tenacemente persegue come parte del gioco, cioè la conquista del proprio idolo. Aurelia, ormai vecchia, reclusa e irriconoscibile, dopo aver eliminato quattro persone per creare il vuoto attorno a Marie-Belle, non rinuncia al progetto di legarla per sempre alla propria esistenza, e questo avviene tramite il mite Honoré, giardiniere vietnamita con il culto della medicina galenica. Prevedendo l’incontro con la “bambina” ormai invecchiata e che, pur a conoscenza del segreto, porta ancora il ciondolo del terzo occhio (a protezione di cosa, se non del malefico desiderio della “celeste” signorina, così definita dal regista del film?) la donna ha accantonato le cialde a base di Dathura Stramonium, una solanacea, e come tale tossica, che Honoré (vittima inconsapevole della catastrofe) le portava per fini curativi, e con queste prepara “la torta dell’immortalità” (così battezzata da Belle e Honoré) per consumarla con Marie-Belle. Il sigillo, la torta “al veleno” – ecco l’affascinante idea di Raffo! – era già fatalmente preordinato a unire per sempre le due vite. Come mai, dopo tanti anni, le due donne, incontrandosi, cadono l’una nelle braccia dell’altra come se nulla di grave fosse successo? Forse perché l’ex graziosa attrice, rassegnandosi al fato («non ero padrona del mio destino») riconosce di non essere poi così diversa dalla sua guida. In caso contrario, avrebbe reagito all’assassinio della madre, mentre così, nel tenerlo segreto, lascerebbe intendere di averlo anche lei desiderato. Se Belle tace, e lo farà per sempre (l’avverbio ombreggia tutto il romanzo) può suggerire che certi delitti hanno ricevuto la sua approvazione. Poiché, come accennavo, questo è il romanzo del destino, perciò colmo di corrispondenze secondo un criterio atavicamente animistico, mi pare che anche la Morgan di Werner (l’autista allucinato dalla gelosa Aurelia come il mostro di Fragonard) possa richiamare la morgue: ciò in base al fatto che la signorina lo farà incappato in un incidente mortale. In Il segreto, sono anche da rilevare certi aspetti ambientali, ad esempio la loro insularità, come il Castello dei Francesi, vagamente in stile gothic revival, sebbene dotato di una radiosa cupola vitrea, indice di un clima demodè aggiornato dall’epoca in cui si svolge la vicenda, e a questo proposito il lettore non mancherà di notare l’indiretto rifiuto dell’architettura funzionalista a favore dei manieri: Chenonceaux, Chateau d’Aubonne, Fontainbleu eccetera. Questo per specificare che il modus vivendi e le caratteristiche dei personaggi, assieme al «remoto» riserbo, all’«astrazione» all’«eleganza algida» di Marie-Belle, indicano, appunto, il rifiuto di trovarsi irreggimentati secondo ogni moderna e ingrigita funzione. Occorre però anche aggiungere questo: la «volontà ferrea» della fragile Marie-Belle, tale al punto da «sconfinare in un’ostinata quanto irragionevole pretesa di onnipotenza» anziché sostenere il talento rivela semmai una certa fissità del carattere… qualcosa di rigidamente mortifero, del resto fatalmente preannunciato dalla sua morte nel film Maison Dangereuse. È come se le personae di questo romanzo costruito come la sceneggiatura di un film, siano dominate da un impulso alla retraite (si tratti del castello, della villa lacustre o del manicomio) o, meglio ancora, dal fantasma di sparizione che si trova già nel mancato vitalismo della protagonista. La frase walseriana: «attorno a noi tutto era bellezza, calma e voluttà» parrebbe dunque suggerire l’idea di una trascorsa completezza da età dell’oro dopo la quale non resti che il declino. L’abbraccio, forse nostalgico, fra le ormai tarde Marie-Belle e l’istitutrice sigillerebbe bene quest’idea. Che da parte di Aurelia si tratti di vero amore, è naturalmente da escludere. Qua, richiamandoci al dipinto in copertina, si tratta di affinità elettive in termini letali (anche nel noto romanzo di Goethe hanno esito funesto) perché inventate dalla governante allo scopo di soddisfare la propria passione. Amare e voler bene sono due cose diverse, e Aurelia ama egoisticamente la sua pupilla senza giungere a un disinteressato sacrificio (i maestri del sospetto, fra i quali mettiamo Freud e Nietzsche, hanno fondati motivi per non credere, kantianamente, al disinteresse) anzi con una tenacia fuor del comune spinge la sua “protetta” – che per lei è in sostanza solo un idolo – alla completa rovina.

Silvio Aman

 

Bibliografia  di Silvio Aman

Cura del volume di saggi Memoria, mimetismo e informazione in teatro naturale di Giampiero Neri, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 1999 (prima raccolta di saggi in Italia sull’opera di Neri)

Cura antologia di poeti svizzeri Brigjet/Sponde, Gjakovë, 2015.

Edizione di un’ampia antologia di poeti e scrittori svizzeri di lingua tedesca, francese, reto-romancia e italiana (con inediti di Giorgio Orelli) in “Hesperos” (annuario fondato da Silvio Aman), Milano, La Vita Felice, 2001.

Monografia Robert Walser, il culto dell’eterna giovinezza, Milano/Lugano, Giampiero Casagrande, 2009, inserita nei programmi di lettura del Dip. di Lingue e Letterature Straniere dell’Università Statale di Milano e del Piemonte.

Partecipazione con un saggio al volume La poesia della Svizzera italiana (a cura di Martin Maeder, Università di Lovanio, e Gian Paolo Giudicetti, Università di St. Gallen), Poschiavo, CH, L’ora d’oro, 2015.

Cura di vari libri di autori svizzeri per la casa editrice LietoColle.

Libri editi di poesia: Sinfonia alpina (pref. di Gilberto Isella) Balerna, CH, Edizioni Ulivo, 2004;

Nel cuore del drago (pref. di Guido Oldani) Novara, Interlinea Edizioni, 2005;

Ariele (a cura di Giancarlo Pontiggia con postf. di Paola Loreto) Bergamo, Moretti & Vitali, 2010 – di cui dieci poesie sono apparse nel numero di novembre 2009 della rivista Poesia dell’Editore Crocetti.

L’orifiamma (pref. di Vincenzo Guarracino) Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2013. Ha tradotto Hermann Hesse, Robert Walser e alcune poesie di Christine Koschel nel volume Nel sogno in bilico, Milano, Mursia, 2011.

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