• ABOUT
  • CHI SIAMO
  • AUTORI
    • ANTONELLA PIZZO
    • DEBORAH MEGA
    • EMILIO CAPACCIO
    • FRANCESCO PALMIERI
    • FRANCESCO TONTOLI
    • LOREDANA SEMANTICA
    • MARIA ALLO
  • HANNO COLLABORATO
    • ADRIANA GLORIA MARIGO
    • ALESSANDRA FANTI
    • ANNA MARIA BONFIGLIO
    • FRANCESCO SEVERINI
    • MARIA GRAZIA GALATA’
    • MARIA RITA ORLANDO
    • RAFFAELLA TERRIBILE
  • AUTORI CONTEMPORANEI (letteratura e poesia)
  • AUTORI DEL PASSATO (letteratura e poesia)
  • ARTISTI CONTEMPORANEI (arte e fotografia)
  • ARTISTI DEL PASSATO (arte e fotografia)
  • MUSICISTI
  • CONTATTI
  • RESPONSABILITÀ
  • PRIVACY POLICY

LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Deborah Mega

“La poesia è un lunghissimo addio.” I “Dialoghi con Amin” di Giovanni Ibello

24 lunedì Giu 2024

Posted by Deborah Mega in CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, Note critiche e note di lettura

≈ Lascia un commento

Tag

Deborah Mega, Dialoghi con Amin, Giovanni Ibello

 

“Dialoghi con Amin”, uscito nel 2022 per i tipi di Crocetti con prefazione di Milo De Angelis, fin dai primi versi, si presenta come un poemetto oracolare e profetico. Per esorcizzare il timore che la poesia renda “soli”, Ibello intitola “Dialoghi” la sua opera come a voler sancire la necessità del colloquio fra due o più persone. Il titolo rimanda alla tradizione filosofica classica dei dialoghi di Platone, in Ione, in particolare, citato da De Angelis, si afferma che il processo poetico non è dovuto alla conoscenza ma all’ispirazione divina, rappresenterebbe, infatti, una forma di pazzia ispirata dalla divinità. Questo è forse il senso dell’addio, di cui parla Ibello, “addio” nel senso di abbandono della vita cosciente, essendo la poesia al tempo stesso dono e condanna, da cui non si guarisce. L’opera è ripartita in quattro sezioni: Yucatan, Teorema dei roghi, Be aware of God, Luce cariata dall’avvenire. Nell’epigrafe iniziale che introduce la prima sezione sono riportati i versi di una delle prime poesie del poeta arabo contemporaneo Adonis, in cui l’universo è ricomposto in noi in modo indissolubile al punto da non riuscire a individuare l’origine di tutto, chi dei due abbia generato l’altro. Amin probabilmente è l’alter ego dell’autore, voce intima che restò nel noncanto, la vita sognata che non ha mai conosciuto l’amore.  Frequenti sono le metafore, sparse per tutto il testo, cimitero della sete, santuario delle nebbie, coltre di spilli, che evocano immagini e riferimenti intertestuali di ampliamento del testo in cui si cerca al tempo stesso di perseguire una sorta di economia espressiva che stimoli la meditazione e lasci spazio al silenzio, vero grande protagonista dell’opera. Segue un altro esergo di grande efficacia, questa volta tratto da Cristina Campo: “Di ogni parola inutile ci sarà chiesto conto”, che invita a celebrare il silenzio inteso come atto meditativo e consapevole. Se vuoi arrivare alla lacerazione / non dire una parola  / che sia una, scrive il poeta, la parola taciuta permette l’implosione, la lacerazione che auspica. L’introspezione risuona dal profondo e si apre alla percezione sensoriale della realtà che ci circonda, superandone la frammentazione e interiorizzandola. La dimensione dialogica tra il sé e il proprio doppio appare a tratti irreale e delirante, la poesia si fa lamento, imprecazione, bestemmia fino a giungere al disincanto e alla constatazione amara Amin, noi siamo soli. Nessun verso sconta la primavera, scrive l’autore. “La morte si sconta vivendo”, scriveva Ungaretti, il sollievo della morte si paga con le sofferenze della vita. Qui la liberazione desiderabile è la primavera, il prezzo da pagare è il verso, peccato che nessun verso riesca a scontare la primavera. Ibello, però, sa bene che occorre fare del corpo la misura del tremendo perché il verso sia fecondo. La seconda sezione si conclude con un’altra citazione, questa volta di Alessandro Ceni, tratta da Mattoni per l’altare del fuoco, in cui afferma l’inevitabilità della caduta oltre al fatto che sia eterna e definitiva. Anche il rapporto con Dio è difficile e controverso. A volte è invocato, Dio, gheriglio di stella / insegnaci a svanire / poco a poco / insegnaci il dialogo amoroso / tra i picchi delle braci / e l’arpionata notte, a volte deriso, mentre ancora / tiri a sorte la vena / dio anatema, / ti sfiori trasognato le palpebre…, delle cose lontane, dio demente / che scalcia / nel grembo della cancellazione, del fiore nero, dei deserti. Del resto il cifrario di dio è una giostra di tagliola e vento. Frequente è l’utilizzo del tono aforistico-oracolare e di termini mistici che concorrono a creare un approccio immaginifico e numinoso, ai bordi dell’onirismo: occhi crociati, rito, santuario, vergine, crisma, diluvio, alleanze, urlo angelicato, osanna, ali, divinazione, scisma, santi, urlo luciferino, salmodiare, battesimo, sacerdozio, preghiera, luce. Nella terza parte dei Dialoghi Dio è ritrovato nel talento di Maradona, simbolo di genialità e sregolatezza. Seguono alcuni versi di Insana de La clausura, “Vedo nel vuoto dove piove chiara salute e mi svuoto del superfluo”. Svuotarsi del superfluo purchè si scriva, che significa ammettere la colpa, dice Ibello. Infine giungeremo al sonno eterno, assisteremo alla retrospettiva lenta dell’infanzia e alla campionatura degli amori che avremo vissuto. Lo sguardo del poeta indugia frequentemente sugli elementi della natura, il sole è una biglia di benzodiazepine, è infartuato, perfino la gioia nasce incendio e muore sole, la luna è nuova, esiliata, pietraluna, mezzaluna che ricorda la Mesopotamia, talvolta citata insieme alle ziqqurat. Ibello menziona le stagioni ed evoca atmosfere sospese e misteriose ricorrendo all’utilizzo dell’analogia e della sinestesia. In diversi passaggi il poemetto non è esente da elementi simbolisti talvolta di taglio crepuscolare. Il poeta, depositario di illuminazioni improvvise e di rivelazioni, diviene suo malgrado il veggente, custode di arcane verità e, dunque, come tale, il solo in grado di raccontare la sua lacerazione che supera la dimensione intimistica per diventare dolore universale.

Deborah Mega

*

 

Parte prima. Yucatan

 

Cercava la risacca nelle pinete

fiutava l’ombra di un ago sul fondale,

la panacea di un abbandono.

Conta fino a zero, le dissi

salta nell’arco cinerino.

È tutto calmo

qui è davvero tutto calmo,

il sole è una biglia di benzodiazepina.

C’è ancora un intreccio

di gelsomini carbonizzati sulla pietra.

L’estate,

una valanga di aceto sopra i fiori.

Ma in questo valzer di occhi crociati

non dire una parola,

non parlare.

Troveremo un altro modo per fare alta la vita.

 

La mia estasi rimane

lettera morta sul greto.

Brindo al disamore

al cuore profanato nell’acquaio

agli insetti fulminati nell’insegna.

Ci lega la parola feroce,

una giostra di penombre.

L’incanto di una teleferica,

l’esatto perimetro di un grido.

Tu che muori

in quell’assillo di aranceti

che ritorna.

Era l’affanno antico,

l’anemone del giorno

divelto sopra i silos.

 

 

I fiori di tarassaco sulle rotaie

annunciano il disfacimento.

Questo è il cifrario di dio:

una giostra di tagliola e vento.

 

 

sonno pulviscolare

 

Sei smarrito nel cimitero della sete. Amin, sei solo come la sfinge. Devi scornarti con l’assoluto, con il rinoceronte nero. Troveremo il dio delle cose lontane, troveremo una foresta di spine nel buio oltremare. Notte di canicola e di antenne. Sei smarrito nel santuario delle nebbie. In un rammendo di secondi luce ti pieghi sulle ginocchia, me- scoli il sangue e l’acquavite. Dicevi: “Verrà la fine, verrà… la chiromante delle ustioni”.

 

 

Verrà la vergine dei falò

verrà la vergine dai seni ulcerati,

un altrove di baci

al kerosene

un altrove di spine e diademi.

Ma noi

dimenticati relitti

ci amiamo nel buio degli hangar

e ripetiamo giaculatorie

dinanzi a un dio demente

che scalcia

nel grembo della cancellazione.

 

Parte seconda. Teorema dei roghi

 

Di quello che sognavi veramente

non resta che un silenzio siderale

una lenta recessione delle stelle

in pozzanghere e filamenti d’oro.

E il riverbero delle sirene accese

sui muri crepati delle case.

Così dormi, non vedi e manchi

il teatro spaziale delle ombre.

Il desiderio è l’ultimo discanto.

Ma quanti gatti si amano di notte

mentre l’acqua scanala nelle fogne.

 

 

Parte terza. Be aware of God

25 novembre

 

3.

 

Nasce incendio e muore sole

questa gioia che torna a intiepidire il vento.

Torneremo a dire grazie per il buio,

per l’alba dei rasoi.

Per ogni fuoriclasse spento

che accarezza la palla con la suola,

che infila l’incrocio dei pali, e non esulta.

Come una prostituta annoiata da dio

anche tu volevi fare alta la vita.

Cercavi il tuono nelle serrande,

dribblavi fiori, altalene,

elefanti di vetro. Dicevi:

“Sono felice perché non sono qui”.

 

Parte quarta. Luce cariata dall’avvenire

 

Quando tutto sarà finito

sarà il sonno a irrigidire gli occhi

ma prima della fine

c’è una retrospettiva lenta dell’infanzia,

una campionatura degli amori.

Poi il respiro si risolve

in un orgasmo neuronale,

è come un’implosione di pianeti nella mente

una turbativa siderale

del corpo che ritorna seme.

 

 

Giovanni Ibello, testi tratti da “Dialoghi con Amin”, Crocetti Editore, 2022

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

Equinozio d’autunno

23 sabato Set 2023

Posted by Loredana Semantica in POESIA, Poesie

≈ Lascia un commento

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Deborah Mega, Emilio Capaccio, Francesco Palmieri, Francesco Tontoli, Giorgia Vecchies, Loredana Semantica, Maria Allo, POESIA, Raffaella Rossi

“Paesaggio a Murnau”, Vassilij Kandinskij

Oggi è l’equinozio d’autunno, in cui il giorno e la notte sono di durata pressocchè uguale, ed è anche il giorno che segna la fine dell’estate. Per l’occasione richiamiamo il post “Saluto all’estate“, col quale avevamo avviato le attività del sito dopo le vacanze estive e invitato a inviare liberamente contributi poetici a tema: saluto all’estate, fine dell’estate, settembre, inizio d’autunno…

Abbiamo talmente gradito che qualcuno si sia proposto che riportiamo di seguito le poesie pervenute e offerte per un ultimo saluto all’estate e benvenuto all’autunno del 2023.

di Raffaella Rossi da Epidermide rara, Eretica Edizioni 2023

I tavoli si sono spenti
e con essi le sigarette di fine agosto.
Di questo quartiere solo alberi muti
e sedie cariche di pioggia.
Nessuno si risveglia
se non i morti del paese.
Non cantate ninne nanne
per addormentarmi
non fate rumore per svegliarmi.
Risate solo risate.

Adolescente estate di Giorgia Vecchies

Erba tagliata, quasi fieno. Secco
afrodisiaco ricordo di adolescenti
baci di campo che rotolavano
Impauriti sul grano.

L’estate ci era scoppiata addosso,
l’estate bruciava i minuti
tra i nostri baci, infiniti
slanci e paure e nuvole
sopra di noi tra cielo e grano.
Il verde si è perduto,
bruciato dai tuoi baci, ma
l’estate ancora divampa.

Settembre era da sempre di Loredana Semantica, inedito

Settembre era da sempre
il mese iniziatico nel quale giungeva
il richiamo profondo di appartenenza
a un ambito diverso dove
altra luce cadeva sulle cose
in riverberi giallo paglierino e ricordi
di un luogo indefinito
dove s’era vissuto o bisognava andare
un giorno forse necessariamente.

Settembre acuiva l’espansione
una memoria ancestrale di qualcosa
lontana più malinconica che gioiosa
simile al pensiero di non essere solo ora
nelle opere o parole nel tempo o materia
ma oltre in avanti o all’indietro in un altrove
in altra forma o uguale
non essendo adesso pienamente.

Intanto a settembre
altra aria fresca scende
in gocce di pioggia leggera
sulle strade impolverate dall’estate
rese saponose dall’acqua
dove pattinano pneumatici neri
mentre tutta la natura respira
ozono e sollievo.

Ma la morte incombe a settembre
non solo nei versi ma sui letti
ha un linguaggio pesante anzi muto
gli occhi sbarrati impauriti
chissà cosa pensava in quel momento
mentre le carezzavo il viso magro
i cari bianchi capelli
“sono qui” dicevo “tranquilla non c’e nulla
di cui aver paura” ma non ne ero sicura
e le chiudevo gli occhi con la mano
perché sparisse la visione
che l’atterriva.

Settembre è il mese di mezzo
della mia festa di compleanno
che traghetta l’estate all’ autunno
e già per questa pretesa di equinozio
a spartire equamente luce e lato oscuro
ha nel petto un cedimento
avulso dal consueto progredire
da rigettare come presuntuoso
perché certo è solo il nulla
rotondo come una vocale
nient’altro.

In questa fine estate di Maria Allo

C’è una tristezza antica nelle ossa
Attraversa i corpi e le giunture

gli intonaci delle case nei luoghi a noi noti
sfavilla in lievi cerchi tra le travi
in ogni androne nelle sale d’aspetto
sugli scaffali nei carteggi impolverati
Ci prende tutti nella luce e nell’ombra
Si libra nel cielo e cade con la pioggia
sulla terra bagnata senza rumore
ai bordi delle cose sulla radura tra i vicoli
dentro il presente che ci divora
C’è una tristezza antica in questa fine estate

Ecco vedi si cercano risposte oltre la pelle
fino al cielo a metà tra due roghi
mentre le sterpaglie balbettano e dal ventre
dell’Etna in rivolta un bagliore corale sale

È tempo ormai (maturità) di Francesco Palmieri

è tempo ormai
che io vesta il grigio,
che indossi la giacca antracite

camminando per la strada
guarderò solo avanti

(e più nulla
dei seni sudati
dei seni ricolmi
di lei che passa
velluto pesca
polpa e frutto
per le labbra e la sete)

lascerò alle canzoni
i miei amori perduti,
lascerò sulle spalle
le mie foglie cadute

è tempo ormai
che io vesta il grigio,
che sigilli nella plastica nera
la camicia a fiori
e i pantaloni leggeri

le scarpe in tela
dei lungomari d’agosto.

Storie sull’autunno di Emilio Capaccio da “Voce del paesaggio”, Kolibris edizioni (2016)

L’autunno è comparso a chiazze
come una malattia endemica
sulla cappa delle aiuole
Non si vede più un cane per strada
libero di rovistare nell’immondizia
Non esce la sera
resta impresso sul divano
a sentire quello che si svelenano
una madre e una figlia
Le farfalle morirono
durante l’ultima glaciazione
La luna non è più venuta
da quando precipitò
dietro casematte quinquagenarie
a ridosso dei parchetti degli spacciatori
La vede una donnola ogni tanto
a un centinaio di chilometri di distanza
in qualche rada boscaglia
Le foglie ancora incerte
non sanno se andare
a un cielo che non le chiama
o trattenersi nel braccio vegetale
Io mi sono sbagliato
Non dovevo dar retta
a quelle storie sull’autunno

La bambina dal cuore verde di Deborah Mega, inedito

La bambina dal cuore verde
percorreva il lungo tratto
che attraverso gli alberi
conduceva al mare
e si mise in silenzio ad ascoltare.
Vide allora un sentiero protetto
da giganti ombrosi e silenti.
Si chiese perché quella quiete solenne
e dove fosse l’orizzonte
nascosto dalle splendide chiome.
Gli alberi scrollarono le giovani fronde,
dai fusti si innalzò un coro di voci profonde.
La bambina dal cuore verde
si mise in ascolto, chiuse gli occhi
e in un momento non le sembrò più
che ci fosse poi tanto silenzio.
Udì il fruscìo di foglie vive sul terreno,
il tonfo delle pigne attutito dal tappeto di aghi
e più in alto un cigolio di rami che il vento piegava,
lo stormire delle foglie, il frinire di cicale,
il frullo d’ali degli uccelli.
Brulicava di vita misteriosa la fitta pineta.
La bambina dal cuore verde
inalò a pieni polmoni il profumo di resina
terriccio umido ed erbe selvatiche
e solo allora vide il mare.

Elegia d’autunno di Anna Maria Bonfiglio, indedito

Mite stagione –
compagna di cauti cammini –
porgi la guancia tiepida alla quiete
lontano dai tumulti.
Vivi del pallido rossore delle foglie
e aspetti che rintocchi
l’ultima verità, l’ultimo squillo.
Amica che ci racchiudi nel cerchio
compiuto dei distacchi –
là dove vizza giovinezza indossa
il velo della notte – a te consegno
il convulso disordine del cuore.

Equinozio di Francesco Tontoli, inedito

Fin quando regge il bene della vista
misuro con gli occhi
anche ciò che non appare.
e mi sforzo di ingoiare il sole in un boccone.

Un equinozio sul filo della spada
taglia il giorno in due e il sogno in quattro
parte di luce e parte di oscurità in molecole
che non oso destare nella loro densità.

È vasto l’universo, e attratti dalla sua brillanza
rifiutiamo la sostanza delle tenebre.
Dall’una o l’altra bocca saremo divorati
un giorno che non faremo in tempo a misurare.

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

“Eliodoro”, i “Quadri di un’esposizione” di Mario Fresa

26 lunedì Giu 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Recensioni, Segnalazioni ed eventi

≈ Lascia un commento

Tag

Deborah Mega, Eliodoro, Mario Fresa

 

Sconvolge, spiazza, incuriosisce, diverte, questo Eliodoro, originalissimo romanzo di Mario Fresa, appena pubblicato negli Specchi Mercuriali di Fallone Editore. Fin dalla prima lettura, con il suo susseguirsi di immagini sempre diverse e variegate, con il fantasmagorico avvicendarsi di figure, colori, suoni, ricorda la celebre suite di Musorgskij, in cui i brani sono ispirati a quadri e al movimento dell’osservatore che si sposta da una tela all’altra. È un libro caleidoscopico, da leggere con distacco e meraviglia in cui la complessità del reale è trattata attraverso una fitta serie di libere associazioni. Non si è ancora conclusa una rappresentazione, un percorso, la caratterizzazione di un personaggio, che già si introduce un’altra suggestione iconografica che soddisfa archetipi come il mondo dell’infanzia, della fiaba, il grottesco e il macabro. Come nei Quadri, il tema dominante è ricco di variazioni ed elaborazioni continue e funge da elemento di coesione in una rappresentazione basata sul contrasto di personaggi e azioni eppure tutt’altro che episodica. Ma procediamo con ordine. Partiamo dal dire ciò che Eliodoro non è. Non è un romanzo consueto o prevedibile, una delle innumerevoli narrazioni che costellano il panorama editoriale degli ultimi anni. Devo ammettere che conoscendo la scrittura e la cifra stilistica di Fresa in poesia, un po’ me l’aspettavo. Sapevo che il suo Eliodoro non sarebbe stato un romanzo prevedibile. Eliodoro è “un romanzo-gioco” di pannelli e di schegge movibili che possono essere letti in successione o in modo più rapsodico […]”. L’autore fornisce perfino note e indicazioni utili per la lettura, una sorta di bugiardino per il paziente-lettore, affinché ne “assuma” la lettura rispettando la corretta posologia o anche la tolleri “pazientemente”. Si tratta di una composizione stravagante in cui è evidente l’eterogeneità della narrazione ma in cui è comunque ravvisabile la dipendenza dai canoni tradizionali come emerge dalla citazione conclusiva, tratta dal congedo della canzone 146 del Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca, una delle liriche più note della poesia italiana delle origini ma anche da citazioni riconoscibilissime come le dannunziane coccole aulenti e tante altre a cui il lettore si aggrappa alla ricerca disperata di una trama a cui appigliarsi ma che non esiste, nel senso classico del termine, mentre le riflessioni multiple e parallele costruiscono immagini che mutano in modo variabile e imprevedibile a ogni movimento. Non è un libro da leggere tutto d’un fiato, dicevo, non a caso, tra i suggerimenti del bugiardino, Fresa invita ad utilizzare un segnalibro perché il lettore potrebbe sentire la necessità di rileggere le pagine più di una volta. E questo è vero: la rilettura apre orizzonti di senso. L’incipit colloca il lettore in un’atmosfera rarefatta e sospesa in cui è evidente la compartecipazione ironica e a volte amara dell’autore per il proprio protagonista e per le sue disavventure. Il cavaliere Magonza ricorda il Don Chisciotte di Cervantes, in entrambe le figure, le meravigliose utopie della letteratura si scontrano con la durezza della vita. Lo studioso russo Michail Bachtin ha evidenziato le principali novità del romanzo moderno a cui è possibile ricondurre anche l’opera di Fresa, la dinamica temporale appartiene alla categoria della contemporaneità, tempo non concluso, in continuo divenire, propone il racconto di un’esperienza individuale, ha un’impostazione soggettiva che tende ad approfondire la psicologia dei personaggi descritti. Bachtin definisce il romanzo un genere dialogico perché accoglie diverse visioni del mondo, quella dei vari personaggi e dello stesso autore. Questo comporta precise conseguenze sul piano stilistico: il romanzo si caratterizza per il plurilinguismo, è una forma aperta che si serve delle proprietà demistificanti del riso, strumento di rovesciamento degli stilemi e dei valori ideologici offerti dalla tradizione. Nel caso di Eliodoro il romanzo è psicologico, polifonico, corale, in esso vi interagiscono tante coscienze indipendenti, portatrici ciascuna di una propria visione del mondo, che interagiscono in un dialogo privo di esito finale. Nessuna, tra l’altro, prende il sopravvento o rivela, in nessun caso, la posizione dell’autore. In Eliodoro il deragliamento del lessico e della sintassi tradizionale è assicurato, Fresa indulge nella inconsueta tendenza ad associare due nomi e ad invertire la posizione di nomi e aggettivi, ecco dunque che la madre di Magonza è una grossa donna-dattero, Eliodoro e Luisa si scambiano un bacio nell’auto-pianoforte (un Bösendorfer più che uno Steinway), si badi bene, oltre a espressioni come le rosse mosche, la piccina suocera mosca, gli amici, un po’ acufeni, un po’ vermi, gli insetti giornalisti, un sapiente cane, i muti parroci, le diaboliche spade, i pazienti familiari, il cane cappellano, i mostri bambini, l’ospite ragazza, i topi-cittadini. Lo stesso terapeuta di Eliodoro è un ambiguo angelo misto: un po’ buono un po’ dottore, che prima di diventare terapeuta era stato un “Elefante ragazzo”. Tutto ricorda Eliodoro sotto ipnosi e denuncia nel suo flusso di coscienza nel quale si fondono realtà e immaginazione, coscienza e inconscio, eliminata ogni barriera tra la percezione reale delle cose e la rielaborazione mentale. Il mago Eliodoro diventerà insensibile fino a divorare i suoi figli (Crono?), ricorda la prima supplenza di sua madre, i sorrisi-temporale dei padroni risentiti, le mosche segretarie, il bidello-guardiano, il taverniere mostro, il vento figliolo e poi le sue donne amate, sognate o evocate (Luisa, Clara, Ester, Vanitosa). Oltre a riferimenti frequenti a dipinti della Storia dell’Arte, il lessico è spesso specialistico della musica, il gatto dal passo mahleriano, l’operistica sprezzatura, la mezzavoce di Giovanna, il Loggione, il liuto barocco, il giro di Suite, la cui struttura è proprio menzionata (allemanda, corrente, sarabanda, giga), gli acuti virtuosismi, i Lieder, le acciaccature, ma anche specifico della scuola con i suoi permessi retribuiti, le ratifiche finali, l’Aula Magna, il tema argomentativo, le competenze, il registro, la circolare ministeriale, il disturbo oppositivo, le note disciplinari. Oltre a memorie scolastiche e ad aneddoti attinti alla carriera scolastica dell’autore da discente prima e da docente in seguito, si aggiungono pagine tratte da una sorta di diario pediatrico, con annotazioni relative all’accrescimento, alla deambulazione, al linguaggio di Luisa. È un labirinto letterario in cui Fresa ci introduce, fingendo crudelmente di fornirci delle chiavi di lettura che facilitino la comprensione e l’orientamento (informazioni, note, bugiardino, riferimenti, indicazioni), mentre in realtà ci lascia sprovvisti di una via d’uscita. Per non parlare di tutti quei costrutti lessicali come guardanti respiranti, sterminare sterminerà, conservare, conserverà, votare votano che ricordano anche il linguaggio tipico delle fiabe. I personaggi, raccontati con bonaria ironia da Fresa, fanno sorridere e allo stesso tempo riflettere, sono emblematici ma rispecchiano la varietà del mondo, un’umanità multiforme che si dilata attraverso il racconto. La capacità affabulatoria di Fresa è implacabile, incalzante, stordisce tanto è inverosimile e surreale la rappresentazione degli eventi che l’autore sottomette alla sua volontà, al gioco di specchi, al citazionismo enciclopedico di titoli, di incipit, di formule letterarie celebri. Allo stesso tempo avviene il recupero di strategie narrative come la falsa enunciazione, la destrutturazione logica e temporale, il suggerimento su come leggere un’espressione (neanche ci si trovasse a teatro e si dovessero seguire le indicazioni di un Fresa regista). In fin dei conti, le riflessioni di Eliodoro sulla malattia, sulla vita e sulla morte sono universali e condivise, Le malattie sono i nostri amori più duraturi: sono da custodire dentro di noi, come il fiabesco ricordo del primo rapporto completo…Perché si è schiavi dei morti?…Perché ogni fine è a portata di mano, proprio così, con assoluta naturalezza, senza che tu lo sappia… Ecco dunque che la polifonia di Eliodoro, dietro l’apparente divertissement, esprime il comune senso di precarietà e di provvisorietà delle certezze, il desiderio di un volo senza volo, di una sparizione senza tanto clamore, nonché la negazione di ogni prospettiva fissa e totalizzante.

Deborah Mega

Mario Fresa, Eliodoro, Fallone editore, ‘Gli Specchi Mercuriali’, 2022, pp. 160, euro 22.

 

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

Cristina Campo nel centenario della nascita

29 sabato Apr 2023

Posted by Deborah Mega in Più voci per un poeta

≈ 1 Commento

Tag

Cristina Campo, Deborah Mega, Loredana Semantica

Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo (Bologna, 29 aprile 1923-Roma, 10 gennaio 1977), una delle voci poetiche più alte del Novecento, è stata una straordinaria scrittrice, poetessa e traduttrice. Unica figlia del compositore Guido Guerrini, a causa di una congenita malformazione cardiaca, che rese sempre precaria la sua salute, crebbe isolata dai coetanei e non poté seguire regolari studi scolastici. Nel 1925 la famiglia Guerrini si trasferì prima a Parma poi a Firenze dove il padre fu chiamato a dirigere il conservatorio Cherubini. Cristina studiò da autodidatta sotto la guida del padre e di alcuni insegnanti privati. Apprese le lingue leggendo Cervantes, Proust, Shakespeare e tradusse Katherine Mansfield, Virginia Woolf, Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil. L’ambiente culturale fiorentino dove restò fino al 1955, fu determinante nella sua formazione: conobbe il traduttore Leone Traverso, al quale, per qualche tempo, fu legata anche sentimentalmente. Continua a leggere →

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

La sensibilità decadente di “Ballate nere”. Nota di lettura di Deborah Mega

16 lunedì Gen 2023

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

Ballate nere, Deborah Mega, Diego Riccobene

Diego Riccobene

Ballate nere

Italic, 2021

Prefazione di Carlo Ragliani

Postfazione di Mario Famularo

 

Ballate nere è il libro di esordio di Diego Riccobene, una preziosa silloge di poesie edita da Italic nel 2021. Il titolo, che accosta qualcosa di positivo e rasserenante come possono essere delle ballate, è associato al nero, ricorrente più e più volte nel corso dell’intera opera anche nelle diverse accezioni di sera, tenebra, ombra quando l’autore scrive Io credo nell’iniqua malasorte, / nel taccuino nero; Laonde appresi il morto magistero / dello sprezzo paziente contro il fermo / giudizio senza appello, il guado nero, / quando menziona il libro del nero Arimane oppure Un solo punto nero / nel lungo imperio sfibrante d’agosto; Prosciolti da ogni vincolo, li vedo / quegli incubi pennati nero notte e ancora L’esilio deve consumarsi adesso, / nel dolio vaporante d’acque nere. Procedendo nella lettura, in esergo compare una citazione tratta dal Faust di Goethe, Nulla c’è che nasca e non meriti di finire disfatto, che sancisce una condizione esistenziale di assoluto disincanto, mentre si vorrebbe a tutti costi raggiungere un infinito che ci è precluso dall’imperfezione della nostra natura umana. Continua a leggere →

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

Più voci per un poeta: Bartolo Cattafi

15 giovedì Dic 2022

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA, Più voci per un poeta, Podcast

≈ Lascia un commento

Tag

Bartolo Cattafi, Deborah Mega, Loredana Semantica, Maria Allo, Maria Grazia Galatà, Più voci per un poeta

Bartolo Cattafi

Leggono le poesie di Bartolo Cattafi nell’ordine: Maria Grazia Galatà, Deborah Mega, Maria Allo, Loredana Semantica.

IL POETA

Bartolo Cattafi, nato a Barcellona Pozzo di Gotto (Me) il 6 luglio del 1922, morto a Milano il 13 marzo 1979, è poeta italiano. Ricorre quest’anno il centenario dalla sua nascita. Il poeta, stimato da Giovanni Raboni, del quale era amico, era in contatto con la cerchia dei poeti milanesi: Giovanni Giudici, Luciano Erba, Vittorio Sereni. Bartolo Cattafi, laureato in giurisprudenza, ha lavorato come pubblicista, è autore di svariate raccolte di poesia  – i titoli nell’elenco sottostante – pubblicate principalmente da Mondadori e Scheiwiller, Il poeta “ha patito l’esclusione dalle più autorevoli antologie della poesia italiana del Novecento (Sanguineti e Mengaldo); è finito in una dimenticanza pressoché generale. Sino a che, da qualche anno l’attenzione che merita sembra finalmente rinascere, il suo nome spuntare più di frequente nelle pagine di pubblicazioni di vario genere o sulla bocca dei lettori.” Dal sito “Le parole e le cose”

LE OPERE

  1. Simùn – Trentadue liriche inedite
  2. Nel centro della mano
  3. Partenza da Greenwich 
  4. Le mosche del meriggio
  5. Qualcosa di preciso 
  6. L’osso, l’anima
  7. L’aria secca del fuoco
  8. Il buio 
  9. Lame
  10. Ostuni
  11. La discesa al trono 
  12. Marzo e le sue idi
  13. Nel rettangolo dei teoremi
  14. 18 dediche ’76-’77 
  15. Poesie scelte 1946-1973
  16. Se i cavalli…
  17. L’allodola ottobrina 
  18. Chiromanzia d’inverno,
  19. Segni

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

LA POESIA PRENDE VOCE: VIVIAN LAMARQUE

06 martedì Dic 2022

Posted by maria allo in La poesia prende voce, Podcast

≈ Lascia un commento

Tag

Deborah Mega, Loredana Semantica, Maria Allo, Podcast, Vivian Lamarque

La poesia prende voce

Vivian Lamarque

Legge Loredana Semantica

Poesia malata

Poesia illegittima

Legge Deborah Mega

Legge Maria Allo

Cambiare il mondo

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

Nota critica su “Dedica” di Lucia Triolo, Edizioni DrawUp, 2019

16 lunedì Set 2019

Posted by Deborah Mega in Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, Recensioni

≈ 1 Commento

Tag

Deborah Mega, Lucia Triolo

In “Dedica”, ultima fatica letteraria di Lucia Triolo, per i tipi Edizioni DrawUp,  opera vincitrice della IV edizione 2018 del Premio letterario Internazionale Città di Latina per la sezione Silloge inedita e finalista nel Concorso letterario  “Città di Conza della Campania”, la scelta del titolo rappresenta di per sé una dichiarazione d’intenti: l’azione del dedicare riflette la destinazione a un fine determinato, il manifestare e offrire, tramite la parola, la propria visione della realtà, contrapposta e differente da quella altrui. In senso figurato “dedica” significa volgere l’animo a qualcuno o qualcosa con intensità. Questo qualcuno è l’altro da sé, che si avverte diverso da noi ma che comunque si rivela necessario per la nostra realizzazione. Cerbino, nella prefazione, giustamente richiama Luhmann e il concetto di comunicazione come base dei sistemi sociali. L’atto comunicativo, finalizzato a fornire un’informazione, è un’azione necessariamente ed intrinsecamente sociale e va interpretato dopo un’adeguata osservazione. Lucia Triolo, da grande osservatrice qual è, percepisce, rileva, ricerca, denuncia una mancanza, un venir meno, proprio e altrui, ci si accosta all’altro quando si scrive Ho prestato al mio corpo / la tua sete e / la tua fame o E non abbiamo mai saputo / di quanti cuori altrui abbiamo bisogno / perché il nostro batta.

Continua a leggere →

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

PUNTI DI VISTA 15: Guernica

10 lunedì Giu 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti d'arte, ARTI, Punti di vista

≈ Lascia un commento

Tag

Deborah Mega, Guernica, Pablo Picasso

In un testo narrativo e in una descrizione il punto di vista è il punto di osservazione, la posizione di colui che narra o descrive. Tale descrizione può essere monoprospettica quando esiste un’unica angolazione e pluriprospettica nel caso di descrizioni viste da più angolazioni. Quello di cui vorrei occuparmi in questa nuova rubrica, recuperando alcune reminiscenze scolastiche, è l’analisi e il commento di opere d’arte famose e meno famose che apprezzo particolarmente. Oggi analizziamo Guernica di Pablo Picasso.

Il dipinto, di dimensioni 349 x 776 cm, si trova al  Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid. Grazie all’immediatezza del suo messaggio e all’efficacia del suo simbolismo, questo capolavoro del cubismo denuncia la guerra e l’orrore dei conflitti. Nel 1937 Picasso era già un artista affermato e famoso e ricevette dalla Repubblica Spagnola l’incarico di realizzare un’imponente opera murale che decorasse il padiglione della Spagna durante l’EXPO del 1937. In quel momento l’artista da tre anni viveva a Parigi, a Rue des Grands Augustins. Pablo accettò l’incarico ma i lavori per questa imponente pittura cominciarono molto a rilento perché il pittore non si sentiva ispirato. Il 26 aprile 1937 la piccola città spagnola di Guernica nella provincia di Biscaglia, venne bombardata senza pietà dalla Legione Condor, corpo volontario composto da elementi dell’armata aerea tedesca Luftwaffe e dall’Aviazione Legionaria fascista italiana. Il poeta Juan Larrea, amico di Pablo, lo andò a trovare per parlargli di questo evento: l’opera che stava realizzando per l’EXPO doveva assolutamente riguardare questo terribile atto di violenza. Guernica rappresentava un centro molto attivo della resistenza che stava combattendo per la proclamazione della Repubblica in Spagna. Al fianco dei repubblicani c’erano socialisti, comunisti, anarchici; dall’altra parte c’era Francisco Franco, il generale delle truppe nazionaliste. Al suo fianco intervennero i nazisti, i quali, il 26 aprile 1937, effettuarono un bombardamento a tappeto sulla città di Guernica. Quel giorno gli abitanti erano raccolti al centro del paese per il mercato. Le vittime furono tantissime. Al momento dell’attacco gran parte degli uomini di Guernica erano al fronte a combattere contro le truppe di Franco. In paese erano rimasti prevalentemente donne e bambini. Tutti furono massacrati. Da quando ebbe l’idea definitiva, Picasso impiegò poco più di un mese per completare il lavoro che venne esposto al padiglione spagnolo e finanziato dai repubblicani spagnoli impegnati nella guerra civile. La tela  dunque era il simbolo perfetto per dimostrare l’avversione al tema principale dell’Esposizione, la tecnologia bellica che aveva permesso la distruzione della città di Guernica. All’epoca il pubblico ebbe reazioni contrastanti. Nell’estate dello stesso anno il lavoro di Pablo Picasso venne ospitato a Londra poi in altre città inglesi e francesi. Guernica ebbe un successo straordinario e fu inviato negli USA per raccogliere dei fondi da destinare a tutte le vittime innocenti della guerra civile in Spagna. Il quadro di Guernica venne conservato al MoMA per un lasso di tempo su diretta richiesta di Pablo che voleva che la tela rimanesse al sicuro negli Stati Uniti e che non facesse ritorno in Spagna fino a che la democrazia non fosse stata nuovamente resa ufficiale. I continui spostamenti stavano danneggiando il quadro così si decise di lasciarlo in una sala del MoMA fino al 1981. Nel 1968 Francisco Franco manifestò pubblicamente il desiderio che l’opera tornasse in Spagna ma Picasso disse che avrebbe accettato il trasferimento soltanto se fosse stata ufficializzata la repubblica e le istituzioni democratiche. Nel 1973 Picasso morì e due anni dopo anche Francisco Franco. La Spagna divenne una monarchia costituzionale democratica. Guernica per la sua prima apparizione in pubblico fu collocata al Casón del Buen Retiro di Madrid poi al Museo del Prado per qualche anno, successivamente al Museo Reina Sofia di Madrid insieme a 20 bozze preparatorie dell’opera. Nel dipinto non c’è alcun esplicito riferimento al bombardamento effettuato sulla città spagnola, non ci sono aerei e bombe che distruggono tutto. Per esprimere al meglio il tema della guerra Pablo ha usato soltanto il bianco, il nero ed una scala di grigi così da rappresentare l’assenza di vita e la drammaticità. Come alcuni capolavori del passato, anche questa tela ha una struttura a tre parti. A sinistra c’è il toro e la donna che sorregge il figlio, al centro c’è il cavallo morente e la donna con la lampada, a destra la casa in fiamme e la donna che urla. Oltre ad essere divisibile in tre parti, i protagonisti sono organizzati in gruppi triangolari. ll primissimo dettaglio che salta all’occhio è sicuramente il toro con il corpo scuro e la testa bianca, simbolo della “brutalità e dell’oscurità”. Anche nella Minotauromachia, il toro viene assunto come protagonista dell’opera. Sotto il toro è ritratta una donna con in braccio un bambino morto, la donna sta stringendo il piccolo mentre rivolge il suo sguardo al cielo e lancia delle urla di rabbia e impotenza. I suoi occhi sono molto strani ed hanno la forma di lacrime. Il bambino non ha più le pupille proprio perché non è più in vita. Tra il toro ed il cavallo, all’altezza delle loro teste, si trova una colomba. Picasso non l’ha fatta di colore bianco ma l’ha resa con lo stesso tono dello sfondo. Le manca un’ala ed ha la testa rivolta verso l’alto con il becco aperto. Il significato di questo animale è molto semplice, di solito simboleggia la pace. Ma a questa manca un’ala proprio perché la pace è stata infranta. Nella parte bassa della tela c’è un combattente morto di cui vediamo solo testa e braccia. La sua mano sinistra non stringe nulla ma la destra reca una spada spezzata ed un fiore. La spada è il simbolo della guerra ed il fiore che sta sbocciando allude alla speranza che nasce alla fine del conflitto. Un altro elemento degno di nota è la lampadina al centro del quadro che allude al progresso della tecnologia e alla speranza e che assomiglia anche ad una pupilla all’interno di un grande occhio. Sembrerebbe anche che la lampada si trovi dentro a un sole. Al centro della composizione c’è un cavallo dalla forma strana: il suo corpo si trova a destra ma la sua testa è rivolta a sinistra ed è stato trafitto anche da una lancia. Il dolore è talmente forte che il cavallo ha la bocca spalancata e manifesta una lingua a punta (molto simile a quella della donna che piange la morte del proprio bambino). La testa ed il collo sono grigi, il petto ed una delle zampe sono di colore bianco, il resto del corpo invece è coperto da brevi pennellate. Alla destra del cavallo c’è un’altra donna che si sta inginocchiando alla ricerca di un riparo per curare le sue ferite. Sopra di lei c’è un’altra donna che sta cercando di illuminare la scena servendosi di una lampada ad olio. Alcuni studiosi pensano che lei possa simboleggiare la Repubblica Spagnola. Un altro dettaglio non meno importante è la casa in fiamme sulla destra e che rappresenta l’architettura che viene distrutta. Con il suo gesto pare quasi che stia implorando che il bombardamento si fermi da un momento all’altro. E per questo dettaglio, Picasso si è ispirato ad un altro capolavoro,  il 3 maggio 1808 di Francisco Goya. L’uomo al centro che sta per essere fucilato è nella stessa posizione della donna che cerca di scampare al bombardamento. Allude al fatto che l’umanità è stanca della guerra, alcuni pensano che questo personaggio che scappa con le mani verso il cielo potrebbe rappresentare la moglie dell’artista. Un altro dettaglio è molto importante: la freccia obliqua che si vede alla sinistra del cavallo, la cui traiettoria se la prolungassimo, giunge fino al bambino morto tra le braccia della madre. Esiste una versione di quest’opera nella sala del Consiglio di Sicurezza dell’ONU proprio perché da sempre l’ONU è impegnata nella ricerca e nel mantenimento della pace.

Deborah Mega

 

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

PUNTI DI VISTA 14: Il Cristo velato

13 lunedì Mag 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti d'arte, ARTI, Punti di vista

≈ Lascia un commento

Tag

Cristo velato, Deborah Mega, Giuseppe Sanmartino

In un testo narrativo e in una descrizione il punto di vista è il punto di osservazione, la posizione di colui che narra o descrive. Tale descrizione può essere monoprospettica quando esiste un’unica angolazione e pluriprospettica nel caso di descrizioni viste da più angolazioni. Quello di cui vorrei occuparmi in questa nuova rubrica, recuperando alcune reminiscenze scolastiche, è l’analisi e il commento di opere d’arte famose e meno famose che apprezzo particolarmente.
Oggi analizziamo Il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino.

Il Cristo velato è una delle opere più note e suggestive al mondo, uno dei più grandi capolavori della scultura di tutti i tempi. è realizzato in marmo da Giuseppe Sanmartino nel 1753 e conservato nella Cappella Sansevero di Napoli, al centro della navata. L’incarico di eseguire il Cristo velato fu dapprima affidato allo scultore Antonio Corradini che per il principe aveva già scolpito la Pudicizia e che riuscì a realizzare solo un bozzetto in terracotta oggi al Museo Nazionale di San Martino perché colto dalla morte. L’incarico passò così a Giuseppe Sanmartino che realizzò un’opera dove il Cristo morto, sdraiato su un giaciglio, appare ricoperto da un velo.  Ai piedi della scultura, infine, l’artista scolpisce anche gli strumenti del suddetto supplizio: la corona di spine, una tenaglia e dei chiodi. La firma dello scultore è apposta sul retro del piedistallo: «Joseph Sammartino, Neap., fecit, 1753».

La magistrale resa del velo ha nel corso dei secoli dato adito a una leggenda secondo cui il committente, il famoso scienziato e alchimista Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, avrebbe insegnato allo scultore la calcificazione in cristalli di marmo. La fama di alchimista di Raimondo di Sangro, infatti, ha fatto fiorire numerose leggende sul suo conto. Molti visitatori della Cappella, data la trasparenza del sudario, lo ritengono erroneamente esito di una “marmorizzazione” alchemica effettuata dal principe. In realtà un’attenta analisi non lascia dubbi sul fatto che l’opera sia stata realizzata interamente in marmo, e questo è anche confermato da alcune lettere dell’epoca. Lo stesso di Sangro descrive il velo come realizzato dallo stesso blocco della statua, senza l’utilizzo di alcun espediente alchemico. Ricordiamo un documento conservato presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli, che riporta un acconto di cinquanta ducati a favore di Giuseppe Sanmartino firmato da Raimondo di Sangro, il costo complessivo della statua ammonterà alla ragguardevole somma di cinquecento ducati. Nel documento, datato 16 dicembre 1752, il principe scrive esplicitamente: “E per me gli suddetti ducati cinquanta gli pagarete al Magnifico Giuseppe Sanmartino in conto della statua di Nostro Signore morto coperta da un velo ancor di marmo…”. Anche nelle lettere spedite al fisico Jean-Antoine Nollet e all’accademico della Crusca Giovanni Giraldi, il principe descrive il sudario trasparente come “realizzato dallo stesso blocco della statua”. Il Cristo velato è, dunque, un capolavoro dell’arte barocca che dobbiamo esclusivamente all’abilissimo scalpello di Sanmartino. Fin dal ’700 viaggiatori più o meno illustri sono venuti a contemplare questo capolavoro. Tra i moltissimi estimatori si ricorda Antonio Canova, che durante il suo soggiorno napoletano provò ad acquistarlo e pare abbia dichiarato che avrebbe dato dieci anni di vita pur di essere lo scultore dell’opera. La vena del Cristo ancora gonfia e palpitante sulla fronte, i segni dei chiodi sui piedi e sulle mani, il costato scavato così come gli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo sono segno di una ricerca intensa. L’arte di Sanmartino diventa un’evocazione drammatica, che rende la sofferenza del Cristo simbolo del sacrificio e di conseguenza del riscatto dell’intera umanità.

Deborah Mega

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

RandoMusic 13: A Whiter Shade of Pale

29 lunedì Apr 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti musicali, MUSICA, RandoMusic

≈ Lascia un commento

Tag

Deborah Mega, Procol Harum, Whiter Shade of Pale

L’aggettivo random usato nel linguaggio scientifico e tecnologico con il significato di casuale, privo di regolarità, senza un ordine preciso, ha fornito lo spunto per una nuova rubrica, questa volta musicale, che curerò due volte al mese di lunedì. Esistono  pezzi musicali a cui siamo particolarmente legati: alcuni sono diventati simbolo di una generazione, altri hanno generato e ispirato rivoluzioni e movimenti culturali riscrivendo regole, altri ancora sono divenuti strumenti di protesta riuscendo a smuovere coscienze. Li descriverò raccontando l’intreccio di musica e vita che li ha prodotti.

Continuiamo questo percorso con…

A Whiter Shade of Pale è un famosissimo singolo dei Procol Harum, pubblicato il 12 maggio 1967. È stato scritto da Gary Brooker, Keith Reid e Matthew Fisher e distribuito dalla Deram Records. Nel 1967 Gary Brooker propose al poeta paroliere Keith Reid di scrivere un testo su una sua melodia. Brooker e Reid contattarono poi il ventunenne Matthew Fisher, un talentuoso tastierista di Croydon, un sobborgo di Londra.

Il riff introduttivo all’organo Hammond è una libera variazione ottenuta sovrapponendo il basso del secondo movimento della Suite per Orchestra n. 3 di Johann Sebastian Bach (conosciuta anche come Aria sulla quarta corda) a una melodia tratta dalla cantata BWV 140 Wachet auf, ruft uns die Stimme (Destatevi, ci chiama la voce) di Johann Sebastian Bach. Nacque così uno dei primi esempi di fusione tra pop e musica classica. Ottenuto un contratto con una piccola casa discografica, Brooker registrò la canzone mentre per la band venne scelto il nome Procol Harum. Reid ha raccontato che quello che si sente nel disco è una registrazione dal vivo, perché non avevano la possibilità economica di ripetere più volte l’esecuzione, ma disse «per qualche strano motivo la nostra prima sessione in studio è sembrata subito davvero bella».

Il singolo riscosse notevole successo, in pochi giorni arrivò in testa alle classifiche britanniche, raggiungendo addirittura il quinto posto negli Stati Uniti e fu oggetto di numerose reinterpretazioni. In Italia, su testo di Mogol, fu incisa dai Dik Dik, col titolo Senza luce, brano che conserva la parte musicale ma si discosta dal testo originale. Il disco ebbe un successo enorme in Italia, superiore anche a quello dell’originale dei Procol Harum, che uscì solo successivamente. Originariamente, la canzone fu attribuita ai soli Gary Brooker e Keith Reid. Nel 2005 Matthew Fisher intentò una causa in cui chiese e ottenne di essere riconosciuto come coautore del brano per aver aggiunto le parti di organo alla musica originale.

Un primo video del brano fu girato in bianco e nero da Joel Gallen, con la band che suona e canta in studio, senza nessuna scenografia. Successivamente fu girato un secondo video a colori, le cui scene, girate da Peter Clifton, raffigurano la band che passeggia sullo sfondo di alcuni paesaggi inglesi e poi di Piccadilly Circus e Trafalgar Square.

Una delle più celebri cover della canzone è quella realizzata nel 2008 da Annie Lennox, arrangiata da  Stephen Lipson e contenuta nel suo secondo album da solista dal titolo Medusa come traccia n.2. Nel videoclip Annie Lennox canta su un’altalena mentre intorno a lei scorre la vita di vari personaggi di un circo.

Deborah Mega

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

Nota critica su “Di tanto vivere” di Anna Maria Bonfiglio

11 lunedì Mar 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA, Recensioni, Segnalazioni ed eventi

≈ Lascia un commento

Tag

Anna Maria Bonfiglio, Deborah Mega, Di tanto vivere

 

Di tanto vivere è l’ultima opera in versi di Anna Maria Bonfiglio, edita da Caosfera nella collana Alabaster. Fin dai primi versi è possibile rendersi conto della qualità dell’offerta poetica indubbiamente dovuta ad una ricca formazione e ad un’assidua frequentazione della poesia. La silloge si articola in diverse sezioni: Discorsi di 27 componimenti, Stanze di 12, Atterraggi di 11, Miserere di 11. I vari testi appaiono d’immediato impatto comunicativo, vi avverto, fin dalla prima lettura, l’elegantissima nobiltà della forma e l’incanto di sensazioni sottili. La poesia è gremita di oggetti espressi in un ricco plurilinguismo espressionista che mira a comporre una lirica prosastica. Una puntualità lessicale al limite del tecnicismo persegue una poetica dell’oggetto evocativa e visionaria. Le formule sono assertive, eloquenti, nette, spiazzanti perché spontanee ma allo stesso tempo sempre finemente cesellate. Il controllo della forma è evidente mentre, dal punto di vista del contenuto, colpisce l’inconsueto contrasto tra partecipazione sentita e distacco controllato che mira a sublimare ed equilibrare la materia poetica.

Continua a leggere →

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

PUNTI DI VISTA 13: Il bacio

11 lunedì Feb 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti d'arte, ARTI, Punti di vista

≈ 1 Commento

Tag

Deborah Mega, Gustav Klimt, Il bacio

In un testo narrativo e in una descrizione il punto di vista è il punto di osservazione, la posizione di colui che narra o descrive. Tale descrizione può essere monoprospettica quando esiste un’unica angolazione e pluriprospettica nel caso di descrizioni viste da più angolazioni. Quello di cui vorrei occuparmi in questa nuova rubrica, recuperando alcune reminiscenze scolastiche, è l’analisi e il commento di opere d’arte famose e meno famose che apprezzo particolarmente.
Oggi analizziamo Il bacio di Gustav Klimt.

Il bacio è uno dei dipinti più conosciuti al mondo. Romantico, prezioso, moderno, è un dipinto a olio su tela di dimensioni 180×180 cm  realizzato da Gustav Klimt tra il 1907 e il 1908 e conservato nell’Österreichische Galerie Belvedere di Vienna. Come la Gioconda di Leonardo, Il bacio di Klimt è stato oggetto di innumerevoli riproduzioni. Si inserisce nel periodo aureo dell’artista ovvero in quella fase in cui il colore oro dominava le sue opere. Al centro di uno spazio astratto, indefinito e irreale, due amanti si stringono e si scambiano un bacio appassionato; la fanciulla è pienamente abbandonata, con gli occhi chiusi in una posizione estatica, mentre l’uomo, di cui si intravede solo il profilo, stringe la testa dell’amata con affettuosa delicatezza. I due giovani innamorati, entrambi in lunghe tuniche mosaicate, sono inginocchiati su un piccolo prato erboso che ricorda l’iconografia del medievale hortus conclusus. L’opera fu accolta con grandi polemiche perché fu considerata al limite della pornografia.

La donna si abbandona all’estasi ma assume una posizione di primo piano rispetto all’uomo, poiché è colei che dà la vita e possiede in sé la bellezza. L’idea dell’erotismo, che serpeggia in tutta la mentalità del tempo con connotazioni antifemministe, in Klimt si ribalta e ha il potere di armonizzare le antitesi tra uomo e donna. Alla presa decisa dell’uomo si contrappone infatti il dolce abbandono della donna nelle sue mani. Le mani nodose dell’uomo sono in contrasto con la pelle diafana della donna, inoltre mentre la tunica dell’uomo presenta elementi geometrici verticali nelle tonalità del nero, del grigio e del bianco, quella della donna presenta forme circolari morbide e variopinte.

L’opera presenta un intenso uso del colore oro, che ricorda molto la lucentezza dei mosaici bizantini, che Klimt poté apprezzare a Ravenna nel 1903. La luce non proviene da una fonte esterna ma dalla stessa coppia il cui bagliore si riverbera sullo sfondo della tela eliminando però l’effetto di profondità. Ricorda le icone bizantine anche il diverso trattamento delle parti del corpo: tridimensionali le mani, i volti e i piedi; bidimensionali i corpi, gli abiti e lo spazio. Dei mosaici bizantini Klimt non riprende solo il fondo dorato realizzato con l’applicazione di oro in foglia ma anche i motivi decorativi dei due abiti. L’abbigliamento degli amanti ricorda le tuniche indossate da Klimt e dalla sua compagna Emilie Flöge. L’eleganza formale e il sottile erotismo del dipinto sono aspetti tipici della belle epoque e del movimento della Secessione Viennese, l’Art Nouveau che si sviluppò in Austria, la cui principale fonte di ispirazione è la natura: motivi floreali, animali stilizzati e linee curve. La comparsa in quegli anni dell’espressionismo rese inattuale l’eleganza e la sensualità del mondo klimtiano che, allo scoppio della prima guerra mondiale, fu spazzato via dalla violenza e dal dramma degli eventi bellici.

Deborah Mega

http://www.youtube.com/watch?v=2AOWWTilu6Q

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

RandoMusic 12: The Logical Song

04 lunedì Feb 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti musicali, MUSICA, RandoMusic

≈ Lascia un commento

Tag

Deborah Mega, Supertramp, The Logical Song

L’aggettivo random usato nel linguaggio scientifico e tecnologico con il significato di casuale, privo di regolarità, senza un ordine preciso, ha fornito lo spunto per una nuova rubrica, questa volta musicale, che curerò due volte al mese di lunedì. Esistono  pezzi musicali a cui siamo particolarmente legati: alcuni sono diventati simbolo di una generazione, altri hanno generato e ispirato rivoluzioni e movimenti culturali riscrivendo regole, altri ancora sono divenuti strumenti di protesta riuscendo a smuovere coscienze. Li descriverò raccontando l’intreccio di musica e vita che li ha prodotti.

Continuiamo questo percorso con…

The Logical Song è un brano musicale composto da Roger Hodgson ed estratto come singolo dall’album Breakfast in America del 1979, l’album di maggior successo nella carriera del gruppo musicale britannico Supertramp, con oltre 4 milioni di copie vendute nei soli Stati Uniti. In Italia l’album si fermò in terza posizione ma stabilì il record di maggior permanenza in Hit Parade con 76 settimane. In totale l’album ha venduto più di 18 milioni di copie nel mondo.

 

Breakfast in America è il loro sesto album in studio, pubblicato il 29 marzo 1979 dalla A&M Records. Con questo disco la band abbandona il rock progressivo degli esordi e lo contamina di pop rock, disco, rock and roll ed altre raffinatezze che ricordano lo stile dei Beatles. L’album è costituito da dieci tracce tra cui ben quattro sono diventate singoli di successo: oltre a The Logical Song, Goodbye Stranger, Take the Long Way Home e Breakfast in America. Come era già avvenuto per l’album precedente,  Roger Hodgson e Rick Davies composero la maggior parte delle loro canzoni separatamente. Il tema generale si sarebbe incentrato sui conflitti di ideali tra Davies e Hodgson, e si sarebbe dovuto chiamare Hello Stranger. Si optò poi per un album di canzoni “divertenti” che avesse un titolo altrettanto divertente. Il titolo e la copertina spinse molti ad interpretare l’album come una satira nei confronti degli Stati Uniti d’America, nonostante i membri dei Supertramp più volte avessero affermato che i riferimenti alla cultura statunitense fossero puramente casuali.  Breakfast in America presenta un massiccio utilizzo del pianoforte elettrico Wurlitze, strumento presente in sei tracce su dieci. La copertina dell’album presenta un panorama di New York visto attraverso il finestrino di un aereo. L’immagine è stata ideata da Mike Doud e ritrae l’attrice Kate Murtagh, nei panni di una cameriera nella caratteristica posa della Statua della Libertà e che regge con una mano un piattino con un bicchiere di succo d’arancia e con l’altra un menù pieghevole del ristorante su cui è scritto Breakfast in America. Sullo sfondo si vede una città composta da una scatola di cornflakes, stoviglie, posate, verniciate di bianco, sulla sinistra appaiono le torri gemelle del World Trade Center. La foto di copertina posteriore raffigura i membri della band mentre fanno colazione e leggono i rispettivi giornali della propria città ed è stata scattata in un ristorante chiamato Bert’s Mad House. Qualcuno ha colto alcune analogie inquietanti tra la copertina dell’album e l’attentato alle Twin Towers; nella copertina le torri sono coperte nella parte inferiore dal bicchiere di succo d’arancia che ricorda una palla di fuoco, l’immagine è osservata dal finestrino di un aereo, l’attacco terroristico ebbe luogo alle 9 del mattino, ora di colazione in America nonché titolo dell’album. Il portale italiano Ondarock ha riportato: «Breakfast in America è un disco pop che più pop non si può. È la quintessenza del pop. È un disco che per un intero anno ha stradominato, oltre alle classifiche e le radio, l’immaginario musicale di un mondo lontano dall’anarchia punk o dalle ricerche new wave, come dalle luci della febbre del sabato sera e dal metallo nascente, ma formato da tanti singoli simple men, uomini e donne semplici, forse musicalmente ingenui, certamente comuni […] Semplice e diretto all’apparenza, ma con una complessità superiore a quella immediatamente percepibile.» E io sono d’accordo.

Deborah Mega

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

Nota critica su “L’adatto vocabolario di ogni specie” di Alessandro Silva

17 lunedì Dic 2018

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Recensioni, Segnalazioni ed eventi

≈ Lascia un commento

Tag

Alessandro Silva, Deborah Mega, L’adatto vocabolario di ogni specie

“L’adatto vocabolario di ogni specie” di Alessandro Silva, opera edita da Pietre Vive nella collana iCentoLillo, è una raccolta poetica che annota, sotto forma di narrazione cronachistica, la tragedia proletaria di innumerevoli operai-tipo dell’Ilva di Taranto, un esempio dunque di poesia civile che ha ottenuto meritatamente diversi riconoscimenti: vincitrice nell’edizione 2015 del concorso Luce a sud-est, è risultata anche finalista al Premio Elio Pagliarani 2017 e segnalata al Premio Anna Osti 2018.

In epigrafe sono riportate due citazioni: una è tratta da Il lavoro di Jacques Werup, l’altra da Portarsi avanti con gli addii di Francesco Tomada, in cui si affronta con rassegnazione e apparente leggerezza il tema del lavoro, presagio di morte e del lutto da superare in mezz’ora. Nel primo testo sono individuate le coordinate geografiche oggetto della trattazione: mar Ionio, Taranto. Nella silloge, brani in prosa, frammenti di cronaca e di interviste, si alternano a poesie di forte impatto emozionale e alle illustrazioni di Giovanni Munari, talmente realistiche e descrittive da generare un oppressivo senso di claustrofobia. Non a caso luce, aria, fatalità del destino, morti accidentali, sono espressioni che ricorrono in tutto il dipanarsi della narrazione. La famigerata Ilva di Taranto, uno dei maggiori complessi siderurgici in Europa fondato nel 1960, diventa rappresentazione simbolica della fabbrica, strumento di oppressione dei tempi moderni. Il complesso industriale di lavorazione dell’acciaio divenuta Italsider e poi di nuovo Ilva, da sempre è stata oggetto di processi penali per il suo impatto ambientale e per la scarsa tutela degli operai in relazione agli infortuni sul lavoro e non solo. La quantità di diossina emessa nell’ambiente circostante ha reso non pascolabili i terreni entro un raggio di 20 km; gli effetti dannosissimi delle emissioni inquinanti sono ormai sotto gli occhi di tutti per i numerosissimi casi di tumori, leucemie, patologie della tiroide e malattie cardiovascolari. Eppure c’è chi continua a negare il nesso tra ricorrenza e aumento del numero delle patologie e il polo industriale; perfino quando si è svolto il referendum consultivo tra gli stessi tarantini, che proponeva la chiusura dell’acciaieria, non si è raggiunto il quorum. Purtroppo l’Ilva è ancora oggi una delle poche realtà a fornire lavoro, uno stipendio accettabile che spinge perfino a farsi raccomandare pur di essere assunti. Dal 2012 al 2014 sono stati approvati sei decreti salva Ilva, convertiti in legge, che hanno continuato a tutelare l’azienda più che l’ambiente, il suolo e le acque sotterranee. L’adatto vocabolario di ogni specie, di cui parla Silva, riguarda tutti: operai, ex operai, abitanti dei quartieri limitrofi, donne, bambini, animali, vegetali, prodotti agricoli, persino mitili. Le polveri d’amianto, presto o tardi, raggiungono tutti.

Il lessico è specialistico e attento alla quotidianità del dettaglio, non mancano però espressioni di puro lirismo, mai ostentato, quasi una conseguenza del nostro voler essere e restare umani. La raccolta è composta da un prologo, da quattro atti e da un epilogo. Ad essere rappresentato è il dramma umano e il disastro ambientale, distopico, crudele, nero, come alcune pagine all’interno della raccolta, le immagini che rappresentano il fumo delle ciminiere e la morte che imperversa ogni giorno sul quartiere Tamburi.

La prima sezione descrive la vita di un operaio tipo, l’atmosfera, sentimenti e sensazioni di chi raggiunge ogni giorno il complesso, vi lavora e ritorna verso casa, stanco e intossicato, si narra come “si sta dentro la città che muore, nel viaggio verso casa” mentre “il cielo continua a stridere sulla pelle e tutto è un’asimmetria di dolore”.
La seconda sezione reca il titolo del libro, è la sezione centrale in cui si fa riferimento anche alla sterilità delle donne raggiunte dal nero tossico: «  Una scintilla/ spenta di estrogeni nelle cellule/ che baciano l’ovulo e lo portano/ dolci a maturazione è la causa/ del vostro esser sterili». Nella terza e quarta sezione è tangibile un diffuso sentimento di rabbia e frustrazione, il conseguente desiderio di giustizia con qualche sprazzo riflessivo e nostalgico. Epilogo conclude la raccolta con due testi che denunciano gli effetti dell’inquinamento, il dramma sanitario ormai uscito allo scoperto. Nonostante ciò Taranto, La Bella Avvelenata, continua a subire gli errori dei padri che non arrivano “a seppellire i genitori ma i propri figli”, del resto “la malattia è solo una sera di solitudine smarrita/nella memoria. Lui vorrebbe morire lavorando”. Silva realizza un’opera densa di eventi e di immagini, pregevole e degna di attenzione; anche se non abitiamo nei pressi del rione Tamburi,  il problema riguarda tutti: Taranto siamo noi e i nostri figli.

Deborah Mega

*

LUCE DENTRO LA TERRA

Non si vedono case ma una colonna

alzata per trentacinque metri di cielo,

quel tanto che basta a oscurare

il sole. Una torre medioevale

di argento e pietra, per i più ilari

bicchiere rovesciato sul sostegno

di una tazza, un tino posato sopra

una sacca. C’è un silenzio di bocca

sulla cima che s’apre a una gola

di lamiere. Maleodora. Sa di

sfacelo e bestemmie a tenere

la bocca di un uomo scucita per aria.

Da impuri bagliori ci si lascia

bruciare, svogliati [urto di luce

conficcato in un recesso di Terra].

 

La barba

va tenuta accorciata per non farne

polvere di nero, d’odore nel piatto

sudore d’ombra.

*

QUALCUNO CHE CADE

otto/giugno/duemilaequindici

Nel pomeriggio è accaduto

all’altoforno Due, l’incidente.

Ci sono state, dopo, ventiquattro

ore di mani alte [mani di ferro

calloso e nodi di dita nerastre].

 

Una babele di passi scesa in battaglia

tra rottami e mantici di aria che ustiona.

Occhi rauchi e cicatrici aperte di labbra.

 

C’era un morto e nessun messia

per motivi di sicurezza. Quaggiù

è la terra in fondo un sudicio

ossario e, del nostro tocco o sguardo

poco importa a qualcuno.

*

L’ADATTO VOCABOLARIO DI OGNI SPECIE

Dal turno di notte si esce malconci

e molli di ossa strette da un’ombra.

 

Scomparse le donne per strada, quelle

con lo strano linguaggio del corpo che

balla sui tacchi e tra i denti si cerca

un sorriso per chi ha voglia di pelle

con forza.

 

Di uomini meno ma chi li compra

non merita lo sdegno stupito degli altri:

è un’esigenza diversa di latte

[annusata ricerca di confronto

fondo come negli alberi stanno

 

avvolti gli anelli].

Un gatto di strada mangia meno

di un gatto ammaestrato alla casa

ma lotta uguale per avere meno

pulci nel pelo.

 

Al semaforo rosso il mattino

ingiallisce in un luogo marcio

di arance e molli fauci di lattuga

nel sacchetto a terra squarciato.

 

Per poco si ha, nel saluto

la voce di roccia della fornace.

*

MESOTELIOMA PLEURICO II

So come muoiono le farfalle
come un uomo disteso di schiena su un prato
[…]
allargano le ali sopra l’erba
per allontanare la fatica
e pensano per sempre di volare.

Francesco Tomada, So come muoiono le farfalle

L’epidermide si scuce dal derma
[dal motore oscuro di nervi]
a manciate si giocano i capelli
mossi e toccati da polvere e unghie.

Torni magro e piccino, bocca secca
nell’acqua di un bicchiere, denti
di farina. Cadono farfalle quando
la morte soffre l’insonnia e dice

a chiunque si svegli che la vita
sarà voce di malanno, d’ora innanzi.
A dare sangue da conficcare
nella pelle mutevole di un angelo.

*

IMMOBILE, SOTTO

Sono le dodici e cinquanta in città.

Nella tristezza del mare l’acqua

crepa [in cristallini tremori]

la pupilla del sole di agosto.

 

Condizioni costanti di deboli

venti germogliano sulle nubi

in arborescenze di polveri,

benzene e vapori d’acciaio.

 

Per la salubrità dell’aria e la folta

macchia di ulivi e pini, si diceva,

il quartiere viveva prima sotto

un’ebrezza di cielo chiaro.

 

Le finestre che guardano al mare

aprono buchi dove l’aria scavata

riposa. La città ora cade e giace

sotto un belato di cielo nero

che consuma memorie di sangue.

 

Alessandro Silva, L’adatto vocabolario di ogni specie, Edizioni Pietre Vive Collana iCentoLillo, 2016

illustrazione di Giovanni Munari

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

PUNTI DI VISTA 12: Notte stellata

10 lunedì Dic 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti d'arte, ARTI, Punti di vista

≈ Lascia un commento

Tag

Deborah Mega, Notte stellata, Vincent van Gogh

In un testo narrativo e in una descrizione il punto di vista è il punto di osservazione, la posizione di colui che narra o descrive. Tale descrizione può essere monoprospettica quando esiste un’unica angolazione e pluriprospettica nel caso di descrizioni viste da più angolazioni. Quello di cui vorrei occuparmi in questa nuova rubrica, recuperando alcune reminiscenze scolastiche, è l’analisi e il commento di opere d’arte famose e meno famose che apprezzo particolarmente. Oggi analizziamo Notte stellata di Vincent van Gogh.

Notte stellata è un dipinto del pittore olandese Vincent van Gogh, olio su tela, cm 73,7 x 92, realizzato nel 1889 e conservato al Museum of Modern Art di New York. Si tratta della rappresentazione del paesaggio notturno di Saint-Rémy de Provence, poco prima dell’alba. Dopo il tragico episodio dell’automutilazione dell’orecchio van Gogh accettò di farsi ricoverare nella clinica Maison de Santé  per alienati mentali di Saint-Paul-de-Mausole, un vecchio convento adibito a ospedale psichiatrico vicino a Saint-Rémy de Provence. Durante l’internamento, preso da un vero e proprio furore creativo, van Gogh eseguì una notevole quantità di dipinti, nei quali si emancipò dalle regole impressioniste e approdò a uno stile simbolico che, partendo dalla sua alienazione, rielaborava la realtà. Pare che l’opera sia stato dipinta poco prima dell’alba tra il 23 maggio e il 19 giugno 1889, durante l’anno di permanenza nella clinica psichiatrica di Saint-Rémy-de-Provence, come emerge da una lettera dello stesso Vincent, desideroso di comunicare al fratello di aver realizzato «un paesaggio con gli ulivi e anche uno studio di un cielo stellato». Dopo averlo tenuto inizialmente con sé, van Gogh mandò la Notte stellata al fratello Théo, residente in quei tempi a Parigi, nel settembre 1889, insieme ad altri nove dipinti. Dopo la morte di Vincent un anno dopo, e del fratello Théo, la Notte stellata passò alla vedova di Théo, Jo. Nel 1900 l’opera entrò nelle collezioni del poeta Julien Leclercq per poi divenire proprietà di Émile Schuffenecker, un vecchio amico di Gauguin. Successivamente fu venduto alla galleria Oldenzeel, in seguito ad una gentildonna di Rotterdam, Georgette P. van Stolk, infine al gallerista francese Paul Rosenberg. Nel 1941 la Notte stellata fu acquistata definitivamente dal Museum of Modern Art, a New York, dove si trova tuttora. Nel dipinto il pittore ha cercato il contatto diretto con la realtà, dipingendo quello che si poteva vedere dalla finestra della sua stanza, l’ha però trasformata in una potente visione onirica in cui poter fare affiorare le sue emozioni e le sue paure: il paesaggio, a prima vista idilliaco e rassicurante, manifesta invece la personalità tormentata di Van Gogh. A sinistra è ritratto un alto cipresso che si staglia contro il cielo notturno e agisce come intermediario vegetale tra la vita e la morte, rappresenta quasi l’aspirazione all’infinito da parte del pittore. A destra del solitario cipresso troviamo un piccolo paesino, forse è Saint-Rémy o una reminiscenza del villaggio natio: i caseggiati sono bassi, ad eccezione dell’acuminata cuspide di un campanile, che riprende la verticalità del cipresso. Le linee dei tetti sono oblique, i cespugli e gli alberi lontani sono rappresentati con pennellate curve. A destra appare la ricca vegetazione degli ulivi, mentre sullo sfondo si estende il profilo di una catena montuosa. L’inquietudine dell’artista esplode nella parte superiore della tela, quella relativa al cielo dove sono ritratte la falce lunare, visibile in alto a destra, il pianeta Venere, le stelle che sembrano ruotare su sé stesse in gorghi vorticosi, in turbini inquietanti come se fossero meteore impazzite. I colori presenti sono una vasta gamma di blu, azzurri e giallo indiano, stesi  con uno spessore minimo, a piccoli tocchi ravvicinati mentre la vegetazione diventa quasi nera. Le luci artificiali brillano gialle dalle finestre delle case. Il segno pittorico è agitato, quasi aggressivo, si smorza solo quando tratteggia le morbide ondulazioni della catena montuosa rimarcata da una spessa linea di contorno nera, che vuol sottolineare la sua appartenenza alla dimensione terrena. In questo capolavoro dell’arte ottocentesca, i drammatici tormenti di van Gogh trovano una delle loro più potenti raffigurazioni.

Deborah Mega

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

Freddie, l’inimitabile

03 lunedì Dic 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti musicali, Eventi e segnalazioni, MUSICA

≈ 5 commenti

Tag

Bohemian Rapsody, Deborah Mega, Queen

 

Ci sono dei brani che non solo ti restano nel cuore ma hanno il potere di addolcire una giornata faticosa o difficile riempiendola di sentimenti positivi e di serenità. È il caso di Don’t stop me now dei Queen, composto da Freddie Mercury e registrato nel 1978 a Nizza, incluso nell’album Jazz e pubblicato come singolo nel gennaio 1979. Il brano, esempio del caratteristico stile dei Queen, infarcito di armonie vocali multitraccia, inneggia alla sfrenatezza e alla libertà sessuale. Nei mesi scorsi è stato diffuso online il trailer di Bohemian Rapsody, biopic per la regia di Bryan Singer che ripercorre le tappe significative della carriera del leggendario leader dei Queen, Freddie Mercury, dagli esordi fino alla performance indimenticabile in occasione del Live Aid. La pellicola è stata trasmessa in Italia il 29 novembre, mentre in Spagna, Francia, Svizzera, Germania, Stati Uniti, è stata diffusa a partire dalla fine di ottobre. La sceneggiatura è stata scritta da Peter Morgan, riscritta da Anthony McCarten, infine ulteriormente ritoccata. L’attore che ha prestato corpo e volto al film dedicato a Freddie Mercury, è Rami Malek, che quando Freddie morì aveva appena dieci anni e che così si è espresso in una recente intervista: “Quando ho ottenuto questo ruolo ho pensato che sarebbe potuta essere una performance in grado di definire una carriera. Due minuti dopo ho invece pensato Questa parte potrebbe distruggere una carriera”. Nonostante la pellicola stia ottenendo un’ottima accoglienza in tutto il mondo, anche se non mancheranno le critiche, dovute anche alla lunga gestazione, per il protagonista il percorso è stato impegnativo e complesso. Come si fa infatti a emulare pur nella finzione il cantante, l’acrobata, il provocatore, l’istrione, un artista così complesso e inimitabile? Il film racconta l’intera epopea di Freddie Mercury, da quando era inserviente all’aeroporto di Heathrow a quando divenne  star della musica internazionale, sacrificando talvolta la complessità del protagonista, lasciando emergere la solitudine e l’infelicità dell’uomo. Si descrivono frettolosamente, a dire il vero, le origini parsi e l’infanzia trascorsa a Zanzibar, la famiglia di religione zoroastra che dall’India si era trasferita in Gran Bretagna e inizialmente non vedeva di buon occhio le scelte di Freddie, il legame con la fidanzata, l’amore della vita Mary Austin, il rapporto turbolento con i manager e i compagni della band, la scoperta della propria bisessualità infine della sieropositività. Mercury, pseudonimo di Farrokh Bulsara, divenne infatti  simbolo della lotta al virus dell’Hiv, essendo stato uno dei primi, più famosi sieropositivi della storia. Dalla pellicola emergono alcune figure importanti nella vita personale e artistica di Freddie che lo hanno accompagnato fino alla fine: il chitarrista Brian May, il batterista Roger Taylor, il bassista John Deacon, i manager della band, John Reid, Paul Prenter e, successivamente, Jim Beach. L’utilizzo della vera voce di Mercury ha rassicurato i fan di tutto il mondo, me compresa, tutti gli attori, in particolare Gwilym Lee che interpreta Brian May, riescono a raggiungere una somiglianza fisica e gestuale impressionante. Nei venti minuti finali del film, come fuochi d’artificio lasciati per il gran finale, viene riprodotta in modo estremamente fedele l’intera esibizione del gruppo al concerto del Live Aid del 13 luglio 1985, presso il Wembley Stadium di Londra, un concerto umanitario organizzato da Bob Geldof che vide la partecipazione dei più importanti artisti internazionali, allo scopo di ricavare fondi in favore delle popolazioni dell’Etiopia. Nei 20 minuti a disposizione, i Queen suonarono Bohemian Rhapsody, Radio GaGa, Hammer to Fall, Crazy Little Thing Called Love, We Will Rock You e We Are the Champions. La stampa, gli spettatori, gli altri artisti considerarono la loro interpretazione memorabile, una delle migliori di tutti i tempi. La partecipazione trasmise nuovo entusiasmo e vitalità al gruppo che perseguì nuovi progetti. La scelta degli autori di fermarsi al 1985 e di non raccontare gli ultimi sei anni di vita del cantante e di carriera del gruppo fino all’album Innuendo, testamento spirituale di Mercury, lascia un po’ l’amaro in bocca e si gioca quella tensione drammaturgica che in alcuni punti gli autori, sotto la supervisione dei membri superstiti del gruppo, hanno dovuto sforzarsi di creare. Nonostante la volontà di ricostruzione dei fatti e il tentativo di rendere verosimile la trama, dalla descrizione degli aspetti più intimi e familiari come la passione per i gatti agli eccessi leggendari come le apparizioni con la corona e il mantello, sono presenti alcune incongruenze temporali, solo nel 1991 Mercury avrebbe informato gli altri membri della band di aver contratto l’Aids e non, come emerge dal film, poco prima del Live Aid, avvenuto nel 1985, omissioni come l’incontro con David Bowie nel 1981 e la composizione e registrazione di Under Pressure o la collaborazione di Mercury all’album Barcelona del 1988 con il soprano spagnolo Montserrat Caballé. Grazie alle indimenticabili canzoni,  all’interpretazione rigorosa e alla bravura del protagonista che tenta in tutti i modi di riprodurre il carisma di Mercury, riuscendoci abbastanza, al Live Aid, una delle performance musicali più celebrate di tutti i tempi, Bohemian Rhapsody chiude in bellezza e commuove gli spettatori. Chissà che non produca una nuova generazione di  appassionati, non a caso, vi ho condotto le mie figlie. È lecito però chiedersi quanto sia merito del film e quanto invece dei Queen e delle loro indimenticabili canzoni.

Deborah Mega

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

Incipit 24: La casa degli spiriti

12 lunedì Nov 2018

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Incipit, LETTERATURA

≈ Lascia un commento

Tag

Deborah Mega, Isabel Allende, La casa degli spiriti

Man Ray, Zero

Barrabàs arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò Barrabàs era Giovedì Santo. Stava in una gabbia lercia, coperto dei suoi stessi escrementi e della sua stessa orina, con uno sguardo smarrito di prigioniero miserabile e indifeso, ma già si intuiva dal portamento regale della sua testa e dalla dimensione del suo scheletro il gigante leggendario che sarebbe diventato. Era quello un giorno noioso e autunnale, che in nulla faceva presagire gli eventi che la bimba scrisse perché fossero ricordati e che accaddero durante la messa delle dodici, nella parrocchia di San Sebastiàn, alla quale assistette con tutta la famiglia.
In segno di lutto, i santi erano coperti di drappi viola, che le beghine toglievano ogni anno dalla polvere dell’armadio della sacrestia, e, sotto i lenzuoli funebri, la corte celeste sembrava un cumulo di mobili in attesa del trasloco, senza che le candele, l’incenso o i gemiti dell’organo potessero opporsi a questo pietoso effetto.
Minacciose masse scure si ergevano al posto dei santi a grandezza naturale, con le loro facce tutte identiche dall’espressione raffreddata, le loro elaborate parrucche di capelli di morto, i loro rubini, le loro perle, i loro smeraldi di vetro colorato e i loro abiti da nobili fiorentini. L’unico favorito dal lutto era il patrono della chiesa, San Sebastiano, perché nella settimana santa veniva risparmiato ai fedeli lo spettacolo del suo corpo contorto in una posizione indecente, trafitto da mezza dozzina di frecce, grondante sangue e lacrime, come un omosessuale sofferente, le cui piaghe, miracolosamente fresche grazie al pennello di padre Restrepo, facevano tremare di ribrezzo Clara.

 […]

Isabel Allende, La casa degli spiriti, Feltrinelli, 1983

 

La casa degli spiriti è il primo romanzo di Isabel Allende, pubblicato a Buenos Aires nel 1982 e tradotto e pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1983. Pare che faccia parte di una trilogia ideale, gli altri romanzi, scritti successivamente, furono  La figlia della fortuna e Ritratto in seppia. La Allende si trovava già a Caracas, in autoesilio dopo il golpe del generale Pinochet in cui aveva trovato la morte il cugino di suo padre, il presidente Salvador Allende. Il golpe di Pinochet era stato un grave colpo per la famiglia Allende e Isabel era stata costretta a riparare con il marito e i due figli a Caracas. Il libro affronta la storia del Cile, vista attraverso gli occhi e le emozioni delle donne di tre differenti generazioni. Inizia negli anni venti del Novecento, con la morte di Rosa del Valle, avvelenata accidentalmente dagli avversari politici del padre. La morte di Rosa è un evento traumatico per la sorella più piccola, Clara, che fin da bambina manifesta il dono della preveggenza e della telepatia. Esteban Trueba, già innamorato di Rosa, stava lavorando duramente per poter sposare la ragazza, ma, dopo aver appreso la notizia della sua morte, si trasferisce nella sua tenuta di campagna, “Le Tre Marie” e, dopo anni di decadenza e di incuria la riporta allo splendore, imponendosi come uno dei proprietari terrieri più eminenti della zona. Lì, però, risente della solitudine e compie violenze contro le figlie dei contadini delle sue campagne. Nove anni dopo Clara prevede che Esteban Trueba chiederà la sua mano, e questo succede quando l’uomo torna nella capitale per dire addio alla madre malata. Convinto di doversi sposare, infatti, Esteban chiede la mano di Clara del Valle, sorella della defunta Rosa, la quale, accetta la proposta e rompe il silenzio di diversi anni di mutismo volontario. Dopo pochi mesi si celebra il matrimonio. Esteban si innamora di Clara tuttavia capisce subito che lei non ricambierà mai il suo amore perché è un essere angelico appartenente più all’altro mondo, quello delle anime, che a quello dei mortali. È allo scopo di farla innamorare che decide di costruire la “Grande casa dell’angolo”, una bellissima casa di lusso che costituirà lo sfondo per le avventure delle future generazioni. Trasferitasi nella casa di campagna, con loro va a vivere Férula, sorella di Esteban che aveva accudito la loro madre fino alla sua morte e che instaura una grande amicizia con Clara, che si protrae fino a quando l’uomo, disturbato e geloso delle cure e dell’adorazione dimostrata da Férula nei confronti di sua moglie, la caccia di casa. Férula morirà emarginata e povera, e il suo spirito si presenterà a salutare per l’ultima volta l’amata cognata. Clara intanto aveva dato alla luce Blanca, ma dopo alcuni anni il padre la manda in collegio per farle avere un’educazione adeguata al suo status sociale. Durante uno dei suoi rientri a casa, Blanca incontra Pedro Terzo Garcìa, il figlio di uno dei contadini delle Tre Marie. Con gli anni Blanca coltiva per lui un amore profondo e indissolubile quanto impossibile. La storia tra lei e Pedro è senza speranza perché lei è la figlia di un nobile e lui il figlio di un mezzadro. Un giorno Trueba, preso dall’ira, colpisce al volto la moglie che si era pronunciata in difesa della figlia, e Clara decide di non rivolgergli mai più la parola e di andarsene dalla campagna per tornarsene in città. Dopo alcuni anni Blanca torna a casa e sfida l’autorità del padre per amore del ribelle Pedro Terzo García, che conosceva fin da quando era bambino.  Blanca rimane incinta di Alba, che viene però considerata figlia del conte de Satigny al quale Esteban aveva dato in sposa Blanca. La giovane era fuggita dal proprio marito, nel momento in cui aveva scoperto gusti libertini non compatibili con il matrimonio. Un giorno Clara dice ad Alba che le anime la stanno chiamando dall’altro mondo, e che è finita la sua permanenza in quello dei mortali. Clara muore il giorno del settimo compleanno della piccola, ma Alba, Blanca ed Esteban continuano a sentire la sua presenza tra i muri della casa. Clara non lascia mai veramente la storia, è sempre un’anima che guida la famiglia nei momenti difficili. L’amarezza di Trueba si attenua solo quando Blanca dà alla luce Alba che, soprattutto dopo la morte di Clara, per l’ormai vecchio Trueba rappresenta l’ultimo affetto, dopo che aveva allontanato anche i due fratelli più piccoli di Blanca, i gemelli Jaime e Nicolás. Esteban si affeziona alla nipote più di quanto avesse mai fatto con i suoi figli. Quando Esteban entra in politica, i suoi rapporti con Pedro si inaspriscono ancora di più, perché il ragazzo sostiene la rivoluzione, mentre Esteban è un esponente della Destra Conservatrice. Nel 1970 vince le elezioni per la carica di presidente Salvador Allende, un socialista. Esteban Trueba si oppone con forza al presidente e fa parte del gruppo di politici che organizzano il golpe cileno, con l’aiuto della CIA. Alle spalle di Trueba, Jamie diventa amico del presidente Allende, mentre nel paese si moltiplicano gli scontri tra ceto medio e aristocrazia e gli atti di terrorismo imperversano nel paese. Nel 1973 viene realizzato il Colpo di Stato cileno. Quando i militari entrano nel Palazzo della Moneda, sequestrano tutti, compreso Jamie, che viene torturato e poi ucciso. L’Esercito non restituisce il potere alla Destra politica, come pensava Esteban, una volta al potere, estromette i politici conservatori da cui aveva ricevuto impulso e finanziamenti e affida il potere a Pinochet. Jaime, imprigionato durante il golpe, si rifiuta di mentire sulla fine del Presidente, di cui era amico, e viene torturato e ucciso. Trueba riesce a far espatriare in Canada Blanca e Pedro Terzo García. Alba intanto offre rifugio ai perseguitati dal regime, che come fantasmi popolano la casa dell’angolo, confusi da Esteban con le altre ombre, quelle degli spiriti della famiglia, che avevano frequentato i circoli esoterici di Clara. A causa della sua relazione con il rivoluzionario Miguel e del suo appoggio ai guerriglieri e ai latitanti, la giovane viene arrestata, torturata e stuprata dai militari che vogliono sapere dove si nasconda il suo amante, e in particolare da uno dei tanti nipoti illegittimi di Trueba, Esteban García, che covava sin da piccolo il rancore della nonna, una delle contadine violentate dal padrone, e l’invidia per la padroncina. Esteban Trueba riesce a liberare la nipote, grazie alla sua amicizia con Tránsito Soto, una prostituta nota tra i funzionari militari. Alba, infine, in attesa di Miguel e di mettere al mondo la propria figlia, riscopre i vecchi quaderni dove Clara annotava minuziosamente la sua vita durante i lunghi silenzi, e con essi ricostruisce la storia della sua famiglia e del suo paese. Esteban Trueba, in punto di morte, verrà salutato dal fantasma di Clara, poi muore tra le braccia di Alba, dopo averle raccontato tutta la storia della famiglia a partire dalla morte di Rosa. Il romanzo si conclude come era iniziato, con la differenza che non è più Clara a narrare le vicende della famiglia, ma la giovane Alba, che è il simbolo della vita che continua, nonostante gli errori e le disgrazie. Con La casa degli spiriti la Allende si è affermata come una delle più importanti voci della letteratura sudamericana. Il romanzo descrive eventi effettivamente accaduti, notevole è inoltre nel libro la presenza di elementi di realismo soprannaturale, come gli spiriti, da cui il titolo. Con un linguaggio semplice e a volte crudo si descrivono il dolore, le passioni, la dittatura, la colpa, la vendetta, l’ingiustizia e si analizzano tipologie umane differenti come quella di Esteban, ossessionato dal senso di possesso di persone e cose, agli antipodi rispetto alla personalità di Clara, immersa in un mondo parallelo, fatto di mutismi volontari, di spiriti, di visioni. Il romanzo è un misto tra realtà e fantasia, tra ricordi e racconti, tra politica e situazioni familiari. Il realismo magico è un tratto caratteristico di tutta la letteratura sudamericana ed è interessante notare che, nell’opera della Allende, le donne, Rosa, Clara, Blanca, Alba sono il motore dell’azione e i catalizzatori di tutta la magia.

Deborah Mega

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

“Il rigo tra i rami del sambuco” di Emilia Barbato. Nota critica di Deborah Mega

05 lunedì Nov 2018

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Recensioni, Segnalazioni ed eventi

≈ 3 commenti

Tag

Deborah Mega, Emilia Barbato, Il rigo tra i rami del sambuco

L’ultima produzione di Emilia Barbato è una preziosa plaquette edita da Pietre Vive nella collana iCentoLillo e illustrata da Nadiya Yamnych. Si tratta di una silloge dedicata alle grandi donne che formano una donna: la propria madre, la propria nonna, la terra che brucia di notte, scrive l’autrice. I testi che compongono la raccolta hanno i tratti della delicatezza, perseguono una poetica delle piccole cose, incantano con la suggestione delle immagini: a partire dal titolo, che evoca, insieme alle illustrazioni originali della Yamnych, atmosfere giapponesi. Sembrerebbero scene di vita quotidiana, è ritratto infatti il paesaggio urbano fatto di palazzi, antenne, case affacciate all’abitudine, centri commerciali, se non fossero scandite da istantanee di senilità, da naufragi di relitti, da vuoti, assenze e sottrazioni. Tre sezioni costituiscono la raccolta: la prima reca l’acronimo dell’antigene carboidratico, un marcatore tumorale, l’altra è indicata dal numero di un paziente oncologico che, procedendo nella lettura, si scopre essere la propria madre, il cui corpo martoriato è paragonato alla terra dei fuochi. La terza sezione è titolata Oxaliplatino, un agente chemioterapico indicato nel trattamento del tumore in questione. C’è tutto un ecosistema meccanico a regolare monitoraggi, soluzioni, campanelli che segnalano richieste al personale. Si descrive l’attesa, castigo e disciplina, le stanze poco illuminate, asettiche e prive di calore umano dell’ospedale e poi, in simbiosi con chi soffre, la scarica di radiazioni, la paura, perfino la sofferenza di chi amiamo. Basta un sorriso a donarci la speranza, ad offrirci un appiglio di salvezza che non ci faccia sentire così drammaticamente impotenti. Non sempre però sono sufficienti la forza, la caparbietà, la fierezza, la maestosità, il rigore che sono propri dei cipressi e dei mesi invernali. Si muore nell’inatteso di un giorno / per una falla di pianificazione, scrive Barbato. Non si è mai preparati di fronte alla scomparsa dei nostri cari, si resta pietrificati e freddi / sul baratro della sorpresa. Avviene poi di assistere al miracolo della rassegnazione, la stessa che ci permette di farcene una ragione facendoci dono del verbo del cielo, della pioggia e dei suoni d’acqua che incantano con la trasparenza delle immagini. All’arrivo della primavera anche il ciliegio si prepara alla piena fioritura in cui si raggiunge l’equazione bellezza=morte. Dentro però ci travaglia un residuo inverno che non passa. Possiede uno straordinario talento Emilia, nel fissare istanti di suggestione. È possibile coglierlo nei vari testi ma in particolare nei due haiku presenti:

Eri tu mamma,

c’ero, nella tua stanza

gocce di gelo.

 

Sommo lo sguardo,

nuvole di ciliegi

piovono piano.

Il corpo della madre, aggredito dalla malattia, corrisponde a qualsiasi corpo che “in terra e in mar semina morte”, allo stesso modo, per associazione di idee, il corpo materno è quello della terra dei fuochi che non è solo quella napoletana ma la terra di tutti, deturpata in modo irreversibile. Dal dramma personale si giunge al dramma universale. Il dolore di Emilia è anche il nostro, appartiene a ciascuno di noi.

Deborah Mega

*

Il sambuco stormisce
con una voce dimenticata
di campagna un oscillare
di foglie lieve per l’oscura
la rigogliosa e la vergine,
qualcuno strilla parole remote
di una bellezza senza fiducia.
La terra brucia
e genera e si accuccia,
un piccolo animale che scava
che ti somiglia,
una tazza che si sbreccia.

*

È benigno?
Perdoni la domanda,
io non conosco la parola storta
che cresce nell’intestino di mia mamma.

*

Ha freddo!
Così deve andare dopo l’intervento? È troppo magra e con tutte
quelle sonde non voglio
toccarla, capisce?
Osso dopo osso,
nel letto spoglio dove finiscono le ore c’è la terra dei fuochi di mia mamma.

*

Ti scrivo in giorni di apparente luce
– penso di scriverti ma non lo faccio
il buio entra in forma di punteruoli
che aprono in silenzio –
Con la maniera affannata dei pomeriggi
inseguo raggi, i favori del cielo,
il corpo di una sconosciuta che mi precede
e ondeggia sulla strada come un metronomo,
fuori tutto si direbbe procedere
con l’entusiasmo dell’estate
ma dentro sono ferma, stretta
a una nuova chiarezza,
mi chiedo quando questo sasso
che mi distacca abbia formato
una tale consistenza e quante
cose in questo modo io manchi.

*

È un gene, una quinta stagione
da cui non esci, una mattina
qualunque con i piedi al gelo,
la guancia bruciata dal freddo
aderisce perfettamente al vetro,
si incolla nel tuo terrore,
dovrai strapparla,
procurarti altro dolore.

 

Testi tratti da Il rigo tra i rami del sambuco, Pietre Vive, settembre 2018

Nadiya Yamnych, Cielo stellato

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...

Nota critica su “La profezia dei voli” di Fernando Lena

15 lunedì Ott 2018

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Recensioni, Segnalazioni ed eventi

≈ Lascia un commento

Tag

Deborah Mega, Fernando Lena, La profezia dei voli

Dall’abisso alla rinascita

Se ci si aspetta una consueta pur se mirabile silloge di poesie da La profezia dei voli di Fernando Lena, edita da Archilibri nel 2016, si potrebbe restare inizialmente spiazzati perché è molto più avvincente e commovente di una raccolta poetica. Continua a leggere →

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
  • Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra) X
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
Mi piace Caricamento...
← Vecchi Post

Articoli recenti

  • Venerdì dispari 19 dicembre 2025
  • Prisma lirico 54: Rainer Maria Rilke – Edward Hopper 18 dicembre 2025
  • Abusi domestici: il silenzio che segna per tutta la vita 16 dicembre 2025
  • Marcello Buttazzo, “Aspettando l’aurora”, I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno, 2025. 15 dicembre 2025
  • Poesia sabbatica:”Lettera a mia figlia” 13 dicembre 2025
  • Venerdì dispari 12 dicembre 2025
  • Il fallimento rieducativo delle carceri 9 dicembre 2025
  • Buona festa dell’Immacolata 8 dicembre 2025
  • Poesia sabbatica: “Divenire”, “Chi siamo” 6 dicembre 2025
  • Venerdì dispari 5 dicembre 2025

LETTERATURA E POESIA

  • ARTI
    • Appunti d'arte
    • Fotografia
    • Il colore e le forme
    • Mostre e segnalazioni
    • Prisma lirico
    • Punti di vista
  • CULTURA E SOCIETA'
    • Cronache della vita
    • Essere donna
    • Grandi Donne
    • I meandri della psiche
    • IbridaMenti
    • La società
    • Mito
    • Pensiero
    • Uomini eccellenti
  • LETTERATURA
    • CRITICA LETTERARIA
      • Appunti letterari
      • Consigli e percorsi di lettura
      • Filologia
      • Forma alchemica
      • Incipit
      • NarЯrativa
      • Note critiche e note di lettura
      • Parole di donna
      • Racconti
      • Recensioni
    • INTERAZIONI
      • Comunicati stampa
      • Il tema del silenzio
      • Interviste
      • Ispirazioni e divagazioni
      • Segnalazioni ed eventi
      • Una vita in scrittura
      • Una vita nell'arte
      • Vetrina
    • POESIA
      • Canto presente
      • La poesia prende voce
      • Più voci per un poeta
      • Podcast
      • Poesia sabbatica
      • Poesie
      • Rose di poesia e prosa
      • uNa PoESia A cAsO
      • Venerdì dispari
      • Versi trasversali
      • ~A viva voce~
    • PROSA
      • #cronacheincoronate; #andràtuttobene
      • Cronache sospese
      • Epistole d'Autore
      • Fiabe
      • I nostri racconti
      • Novelle trasversali
    • Prosa poetica
    • TRADUZIONI
      • Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados
      • Idiomatiche
      • Monumento al mare
  • MISCELÁNEAS
  • MUSICA
    • Appunti musicali
    • Eventi e segnalazioni
    • Proposte musicali
    • RandoMusic
  • RICORRENZE
  • SINE LIMINE
  • SPETTACOLO
    • Cinema
    • Teatro
    • TV
    • Video

ARCHIVI

BLOGROLL

  • Antonella Pizzo
  • alefanti
  • Poegator
  • Deborah Mega
  • Di sussurri e ombre
  • Di poche foglie di Loredana Semantica
  • larosainpiu
  • perìgeion
  • Solchi di Maria Allo

Inserisci il tuo indirizzo email per seguire questo blog e ricevere notifiche di nuovi messaggi via e-mail.

INFORMATIVA SULLA PRIVACY

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella privacy policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la PRIVACY POLICY.

Statistiche del blog

  • 462.314 visite
Il blog LIMINA MUNDI è stato fondato da Loredana Semantica e Deborah Mega il 21 marzo 2016. Limina mundi svolge un’opera di promozione e diffusione culturale, letteraria e artistica con spirito di liberalità. Con spirito altrettanto liberale è possibile contribuire alle spese di gestione con donazioni:
Una tantum
Mensile
Annuale

Donazione una tantum

Donazione mensile

Donazione annuale

Scegli un importo

€2,00
€10,00
€20,00
€5,00
€15,00
€100,00
€5,00
€15,00
€100,00

O inserisci un importo personalizzato

€

Apprezziamo il tuo contributo.

Apprezziamo il tuo contributo.

Apprezziamo il tuo contributo.

Fai una donazioneDona mensilmenteDona annualmente

REDATTORI

  • Avatar di adrianagloriamarigo adrianagloriamarigo
  • Avatar di alefanti alefanti
  • Avatar di Deborah Mega Deborah Mega
  • Avatar di emiliocapaccio emiliocapaccio
  • Avatar di Francesco Palmieri Francesco Palmieri
  • Avatar di francescoseverini francescoseverini
  • Avatar di frantoli frantoli
  • Avatar di LiminaMundi LiminaMundi
  • Avatar di Loredana Semantica Loredana Semantica
  • Avatar di Maria Grazia Galatà Maria Grazia Galatà
  • Avatar di marian2643 marian2643
  • Avatar di maria allo maria allo
  • Avatar di Antonella Pizzo Antonella Pizzo
  • Avatar di raffaellaterribile raffaellaterribile

COMMUNITY

  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di robertofontana1991
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di debbie_soncini
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Gianmarco Papi
  • Avatar di elena delle selve
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Marco Vasselli
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di The Butcher
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto
  • Avatar di Sconosciuto

BLOGROLL

  • chiscrivechilegge di Antonella Pizzo
  • alefanti
  • Poegator
  • Deborah Mega
  • Disussurried'ombre
  • Di poche foglie di Loredana Semantica
  • larosainpiu
  • perìgeion
  • Solchi di Maria Allo

Blog su WordPress.com.

  • Abbonati Abbonato
    • LIMINA MUNDI
    • Unisciti ad altri 284 abbonati
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • LIMINA MUNDI
    • Abbonati Abbonato
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra
 

Caricamento commenti...
 

    Informativa.
    Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la
    COOKIE POLICY.
    %d